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bandiere g 20 c afp 2017 christian charisiuspooldi Giulietto Chiesa
La politica estera mondiale è diventata una doccia scozzese: un alternarsi di scrosci d’acqua gelata, seguiti da qualche spruzzo di liquido bollente. Entrambi eventi sgradevoli per chi sta sotto.

Il G-20 di Amburgo si adatta perfettamente a questa metafora. Non c'era dubbio che sarebbe stato dominato dal primo incontro faccia a faccia tra Putin e Trump. E così è stato. Anzi si può già dire che questo G-20 (senza mancare di rispetto per gli altri 18 convenuti) è stato questo incontro. Il resto è, in gran parte, cerimonia, con l'unica eccezione del frizzante rapporto tra il presidente americano e la signora Merkel di Germania.

E la doccia rimane prevalentemente fredda. La stretta di mano tra Donald Trump — che l'ha platealmente promossa di fronte alle telecamere di tutto il pianeta — e Vladimir Putin resterà nella storia di questa difficile fase della crisi mondiale. Ma è venuta qualche ora dopo il discorso di Varsavia del presidente americano, in cui la Russia veniva descritta come "aggressiva e destabilizzante". Un discorso — che ha mandato in delirio la folla polacca — in cui l'America si è autodefinita come il baluardo contro l'aggressione di Mosca alla Polonia, ai paesi baltici, all'Europa intera, e che si è tradotto nella vendita alla Polonia dei missili Patriot, nella posa delle fondamenta di una nuova cortina d'acciaio che, dal Baltico sarà stesa fino al Mar Nero, destinata ad accerchiare definitivamente la Russia, nell'impegno di Washington di sostituire la Russia nell'approvvigionamento energetico dell'Europa.

Trump sembrava giungere in Europa, dunque, con intenti decisamente bellicosi. Certo bisogna fare la tara a discorsi destinati al grande pubblico inconsapevole della realtà dei fatti. Trump aveva bisogno urgente di mostrare al pubblico americano (che è sottoposto alla martellante campagna dei media mainstream di casa propria) di non essere un "agente del nemico". E, dunque, si è fatto precedere, prima di arrivare ad Amburgo, da una salva di dichiarazioni esplosive molto simile ai 59 tomahawks che sparò su un secondario aeroporto militare siriano dopo il presunto attacco al gas dell'aviazione di Bashar al Assad.

Dopodiché, sempre secondo il principio della doccia scozzese, silenzio. Salvo poi scoprire che — ma chi comanda a Washington?— gli scarponi statunitensi cominciavano a lasciare impronte sul suolo siriano (e sulla legalità internazionale) e gli aerei a stelle e strisce cominciavano a sparare sull'aviazione di Bashar.

Poi, esattamente sulla stessa falsariga, dopo il fuoco di sbarramento di Varsavia, il colloquio contro l'arcinemico inventato Vladimir Putin, si è svolto all'insegna del pragmatismo e, almeno, della buona educazione. A quanto si è venuto a sapere in quelle impreviste due ore e quindici minuti, si è parlato di tutto ciò di cui si doveva parlare: Siria, Ucraina, sicurezza cyber. Qualche cosa di buono è venuto allo scoperto: una tregua in Siria (tra Occidente, da un lato, e Russia e Siria dall'altro, visto che Daesh è ormai sgominata quasi dovunque); l'ingresso degli Stati Uniti nell'attuazione di Minsk-2 (da dove gli USA erano rimasti fuori fino a ieri); un gruppo di consultazione Mosca-Washington sui temi della cybersicurezza.

Ma, dietro ai sorrisi piuttosto tirati, non c'è segno di nessun reale "appeasement". Tillerson ha detto ai giornalisti che l'obiettivo finale degli USA è quello di fare in modo che Bashar al-Assad se ne vada. Ancora una volta l'America annuncia che intende decidere chi dovrà governare un paese sovrano. Putin, calmissimo come al solito, ha ribadito che non c'è stata alcuna interferenza russa nelle elezioni americane. E Trump ha lasciato intendere (sebbene sappia perfettamente che Putin dice il vero) che "qualche cosa" dev'essere accaduto (non l'avesse fatto la CNN e il New York Times avrebbero scatenato l'uragano delle accuse contro il presidente americano).

Sul versante Russo (e su quello cinese), la tappa di Amburgo dice che il tempo resta minaccioso. E che l'agenda israeliana (liquidare Assad, e poi Teheran, per liquidare Hezbollah), domina il panorama dei pensieri di Donald Trump. Ma, soprattutto, dice che il presidente americano agisce in modo contradditorio; è costretto probabilmente a fare lo slalom tra i problemi concreti delle diverse aree del mondo e gli ostacoli che i suoi avversari interni gli frappongono. Si comporta come un pugile che ha un braccio legato dietro la schiena. A volte dà l'impressione che, se potesse menare fendenti con entrambe le mani, saremmo già in guerra. Altre volte non lascia capire se intenda abbattere l'avversario, oppure l'arbitro. Non resta che attendere, incrociando le dita.

Tratto da: it.sputniknews.com

Foto © AFP 2017 - Christian Charisius - Pool

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