A 40 anni dalla sua uccisione, le parole del giornalista restano ancora attuali: la mafia è in Parlamento
“I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione”.
Questo è solo un piccolo estratto di una lunga intervista rilasciata dal giornalista catanese Giuseppe Fava ad un altro grande del giornalismo italiano: Enzo Biagi. Era il 28 dicembre 1984, i due si trovavano nella trasmissione Film Story. Quella sarebbe stata l'ultima intervista di Fava. Il 5 gennaio 1984 il fondatore e direttore de I Siciliani, oltre che scrittore catanese, venne ucciso da Cosa Nostra, davanti all'ingresso del teatro Stabile di Catania.
Pippo Fava era un "profeta" armato di penna e arte, lui che amava il teatro. Intuì il grande gioco del Potere all'interno del Sistema criminale. Era una voce libera e per questo andava eliminata.
A quarant'anni di distanza da quel delitto eccellente, per cui sono stati condannati in via definitiva all'ergastolo il capomafia catanese Benedetto Santapaola e l'esponente dello stesso clan Aldo Ercolano, le parole di Fava sono più che mai attuali.
Pippo Fava faceva riferimento ad un “equivoco di fondo”, ovvero che “non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale”. “Questa - diceva - è roba da piccola criminalità che credo faccia parte ormai, abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il problema della mafia è molto più tragico e più importante, è un problema di vertice della gestione della nazione ed è un problema che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale definitivo l'Italia”. Oggi si chiamerebbe criminalità di sussistenza. Il capro espiatorio di questo Governo di destra-destra che, a suon di decreti e politiche repressive, diffonde con i media mainstream di regime la favoletta - falsa - secondo cui la mafia è un'organizzazione criminale fatta esclusivamente di uomini rozzi e analfabeti come Totò Riina e Bernardo Provenzano. Mostri, appunto, che si sono macchiati di crimini inauditi. La verità purtroppo è un'altra. Cosa nostra era ed è tuttora un comodo braccio armato, oltre che economico, di una parte dello Stato che con la mafia, anzi con le mafie, ha scelto di convivere.
Lo dimostrano le indagini che avanzano a Firenze sui mandanti esterni delle stragi di Via d’Amelio e di Capaci; così come la conferma degli ergastoli in appello nel processo ‘Ndrangheta stragista; piuttosto che le risultanze processuali finora emerse, dalle prime a quelle più recenti, sul Caso Agostino; financo il processo Trattativa Stato-mafia sul quale, nonostante il tentativo di seppellire verità indicibili sotto terra, né la Corte d'Appello, né la Cassazione sono riuscite a rispondere a quesiti oscuri che riguardano il biennio stragista '92-'94 (uno su tutti: la mancata perquisizione del covo di Totò Riina).
Le parole di Pippo Fava risultano profetiche anche se allargate al panorama parlamentare: basti pensare alle indagini su corruzione, concussione e peculato (tipici delitti della pubblica amministrazione e dei colletti bianchi) ostacolate dalla riforma Cartabia, con l'assist del ministro Nordio; per non parlare dell’ultima bravata del Governo Meloni: la riforma che vieterà di rendere pubblico - sia in versione integrale sia per estratto - il testo delle ordinanze di custodia cautelare, fino alla conclusione delle indagini. Un vero e proprio bavaglio che, a differenza di quanto la propaganda mainstream continua ad affermare, colpisce innanzitutto il diritto dei cittadini ad essere informati.
Sono lontani i tempi in cui il giornalismo italiano era rappresentato da Peppino Impastato, Mauro De Mauro, Mauro Rostagno, Enzo Biagi, Ilaria Alpi, Gianni Minà e Pippo Fava, appunto. Giornalisti, ma prima ancora uomini e donne che operavano al servizio della cittadinanza con la schiena dritta e a testa alta. A costo della vita. Un vero e proprio lavoro di vigilanza democratica che fungeva da pungolo alla politica e da cane da guardia contro l'arroganza del potere.
Ecco, dinnanzi al pericolo che il respiro democratico della nostra Repubblica si affievolisca sempre più, il quadro descritto al tempo dal direttore de I Siciliani si palesa in tutta la sua fatalità. Oggi, come ieri e più di ieri, assistiamo a ciò che Fava denunciava: la mafia è in Parlamento, nelle banche e nei vertici della nazione.
Rielaborazione grafica by Paolo Bassani
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