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E Travaglio sbaglia a difenderlo

“Non solo non ho commesso reati, ma ho fatto il mio dovere. Ma visto che a Brescia le cose non sempre le capiscono, mi hanno condannato. Ci sono abituato, è il mio 27esimo procedimento a Brescia”. “Se un pescatore pesca un luccio di 15 chili e lo fotografano sul giornaletto di provincia, è il pescatore che fa protagonismo o il luccio che è grosso? Non do giudizi, ma mi limito a dire che nel caso che mi ha riguardato io ero un luccio che dava lustro”. Ecco alcune parole dell'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo (già giudice di Cassazione e membro storico del pool Mani Pulite) che, intervenendo nel podcast “Muschio Selvaggio” condotto da Fedez, attacca giudici e pm di Brescia che lo hanno portato a processo e condannato in primo grado dal Tribunale di Brescia a un anno e tre mesi (pena sospesa) per rivelazione di segreto d’ufficio (si è in attesa dell'inizio del processo d'appello).
Parole gravi, ma che secondo Marco Travaglio, come scritto nell'editoriale “Ridere per non piangere”, non sono altro che una “battuta”. E chi non la capisce non è bravo.
I giudici del Tribunale di Brescia con una nota manifestano “vivo stupore e sconcerto per i contenuti dell'intervista rilasciata dal dottor Piercamillo Davigo” in quanto ha utilizzato “espressioni e atteggiamento che costituiscono incomprensibile negazione del rispetto dovuto alla giurisdizione tout court, doveroso ed esigibile soprattutto da chi ha indossato la toga per oltre quaranta anni”. Quindi il Tribunale bresciano si è riservato di segnalare l'accaduto al Csm “per l'apertura di una pratica a tutela di tutti gli Uffici Giudiziari del capoluogo del Distretto”.
Richiesta, quest'ultima, che, secondo quanto confermato dal Presidente della Prima Commissione del Csm Enrico Aimi, è stata accolta.
Ci sono gravissimi comportamenti sul piano etico e del rispetto delle regole posti in essere da parte di Davigo.
Ci spieghiamo.
Tenendo presente che tutti gli imputati hanno diritto di difendersi, dimostrando quelle che siano state o meno le ragioni per cui hanno agito in un determinato modo, a nostro avviso Davigo sta commettendo quella stessa nefasta metodologia che poneva in essere Silvio Berlusconi, cercando di difendersi dal processo e non nel processo, deridendo la magistratura bresciana.
Questo giornale, così come Il Fatto Quotidiano, ha sempre difeso magistrati dalla schiena dritta. E senza nulla togliere all'altissima preparazione giuridica e alle inchieste condotte da Davigo contro la corruzione e le tangenti, questa volta Travaglio rischia di infilarsi in un vicolo cieco.
Perché il Tribunale di Brescia, nella sua sentenza di condanna, a nostro giudizio ha ragione.
Perché di fatto Davigo, con il suo agire fuori da ogni protocollo, incitava la Procura di Milano a dare seguito alle dichiarazioni calunniose e diffamatorie di Amara, oggi rinviato a giudizio con l'accusa di calunnia e autocalunnia nei confronti di vari esponenti del mondo delle istituzioni, economia e forze dell'ordine, che a loro dire avrebbero fatto parte della fantomatica Loggia Ungheria.
Tra i calunniati ci sono nomi di rilievo del Csm di allora a cominciare da Sebastiano Ardita, ex consigliere togato ed oggi procuratore aggiunto a Catania.
E Davigo, pur conoscendo la storia professionale di Ardita, ha continuato a tramare alle spalle del suo ex “compagno” (entrambi erano fondatori della corrente di Autonomia&Indipendenza), di fatto cercando di creare attorno allo stesso magistrato catanese uno stato di isolamento all'interno del Csm.


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Marco Travaglio © Imagoeconomica


Se non fosse stata perquisita la ex segretaria personale di Davigo, Marcella Contrafatto (indagata per calunnia dai pm capitolini e poi prosciolta "per non aver commesso il fatto"), nessuno avrebbe mai saputo che lo stesso ex magistrato aveva avuto in mano quei verbali il cui contenuto veniva rivelato a varie autorità.
L'istruttoria del processo di Brescia ha fatto luce sull'intera vicenda.
Per comprendere meglio questa indagine le lancette vanno riportate indietro nel tempo quando il magistrato Nino Di Matteo, allora al Csm, dimostrando ancora una volta la propria etica e professionalità, disse al Plenum di aver ricevuto un "plico anonimo" dove all'interno vi era una lettera ed un documento di un verbale di Amara, in cui menzionava con certezza in maniera diffamatoria se non calunniosa, almeno un consigliere del Csm.
Di Matteo comunicò anche di aver contattato l'autorità giudiziaria di Perugia.
Ai pm milanesi Amara raccontò una serie di fatti - incredibili, diffamatori e calunniosi - assolutamente non riscontrati. Riferiva di una serie di rapporti avuti con giudici, funzionari di Stato, politici, alti prelati, alti ufficiali delle forze dell’ordine, imprenditori. Addirittura ha tirato in ballo l'ex Premier Giuseppe Conte, che ha smentito con decisione i fatti a lui ascritti.
Ma tra gli aspetti più gravi di cui parlò Amara vi era la propria appartenenza ad una fantomatica loggia massonica chiamata “Ungheria”, di cui avrebbero fatto parte numerose toghe "garantiste" che volevano combattere contro i giustizialisti. E tra questi magistrati Amara, per l'appunto, aveva inserito in maniera diffamante e calunniosa anche il nome di Sebastiano Ardita.
A nostro avviso nessuna giustificazione può essere data ai comportamenti dell'ex pm di Mani Pulite, autore di un sistematico attacco nei confronti di Ardita e parimenti contro il magistrato Nino Di Matteo, eletto da indipendente, la cui candidatura fu promossa proprio da Ardita.
Una scelta che, come raccontato da Ardita nel processo di Brescia, non fu mai ben accolta da Davigo: “Mi disse di non volerlo: 'Non lo stimo. Ha fatto il processo Trattativa in cui è coinvolto Di Maggio che conoscevo bene. Non lo voglio appoggiare'". “In risposta - aveva ricordato Ardita - gli dissi che, oltre ad essere un grande magistrato, ‘Di Matteo è una persona molto in linea con il nostro pensiero ed è carta vincente contro le correnti’”. Già in quel momento c'erano dunque state le prime frizioni. Frizioni che nel tempo porteranno ad una palese rottura.
Ma restiamo sempre sulle calunnie di Amara e la cattiva fede di Davigo.
L'ex giudice di Cassazione sapeva che Sebastiano Ardita aveva indagato su Piero Amara, creatore del “Sistema Siracusa”, l’associazione di professionisti, imprenditori e magistrati, nata per pilotare i processi e aggiustare le sentenze, soprattutto al Consiglio di Stato.


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Sebastiano Ardita © Deb Photo


Davigo era a conoscenza che proprio Ardita voleva sentire al Csm il magistrato Stefano Rocco Fava, che sin dagli inizi del 2019 avrebbe voluto arrestate Amara e che aveva accusato di essere stato in qualche modo stoppato dal Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, che poi gli toglierà il fascicolo. Tutto venne segnalato al Csm e vi furono accuse incrociate perché nel frattempo Fava venne accusato a sua volta di aver agito per conto di un ex Csm, Luca Palamara.
E tutta la questione è finita nel dimenticatoio.
Ardita, che voleva vederci chiaro, in alcune intercettazioni ambientali registrate nell’ambito della 'vicenda Champagne', era persino stato definito come “un 'talebano' da tenere sotto controllo".

Davigo contro Di Matteo e Ardita
A questa vicenda si aggiungono altri episodi raccontati nel corso del processo di Brescia contro Davigo con le testimonianze del pm Nino Di Matteo e dello stesso procuratore aggiunto di Catania.
Di Matteo spiegò ai giudici che nelle dichiarazioni di Amara sulla “Loggia Ungheria” vi era “un tentativo di condizionare l’attività del Csm, di delegittimazione del dottor Ardita ma anche un tentativo di condizionamento della sua attività e, indirettamente, anche della mia”.
Nella sua testimonianza il magistrato palermitano aveva anche raccontato le evoluzioni del rapporto tra Davigo e Ardita deterioratosi nel tempo.
Uno degli episodi chiave era la discussa nomina per la Procura di Roma. Di Matteo raccontò di una riunione in cui Davigo arrivò persino a minacciare Ardita in maniera pesante. “In apertura la consigliera Pepe stigmatizzò il fatto che su alcuni giornali, come spesso avviene per le nomine importanti, erano stati pubblicati degli articoli con la previsione dei voti che avrebbero espresso i singoli consiglieri. In questi articoli venne pubblicato, mi pare da una giornalista del Fatto Quotidiano, la previsione che nel gruppo di ‘A&I’ ci sarebbe stata una spaccatura e che almeno due consiglieri, di cui si facevano i nomi (Di Matteo e Ardita, ndr), non avrebbero votato per il dottor Prestipino - aveva raccontato Di Matteo in aula -. In quel momento la questione mi parve un aspetto poco rilevante. Dissi di andare alla sostanza delle cose. Davigo chiese effettivamente se quelle previsioni corrispondessero alla realtà dei fatti e sia io che il dottor Ardita dicemmo che era nostra intenzione di votare al plenum per il dottor Creazzo, all’epoca procuratore della Repubblica di Firenze”. Ed è in quel momento che l’atmosfera nell’ufficio sarebbe cambiata.
“Il consigliere Davigo - aveva continuato Di Matteo - con una impressionante veemenza grida al punto da poterlo sentire almeno nella stanza adiacente e nel salottino antistante e, rivolgendosi ad Ardita, disse: ‘Se tu non voti Prestipino automaticamente sei fuori dal gruppo’. E lo ripeté gridando almeno due o tre volte. Ardita mantenne la calma, reagì parlando pacatamente chiedendo delle motivazioni. Il dottor Davigo incalzò gridando: ‘Se tu non voti Prestipino stai con quelli dell’hotel Champagne’. Mi sembrò un’enormità assolutamente risibile. A quel tempo era già nota la trascrizione dell’ambientale dell’hotel Champagne in cui alcuni di quei soggetti dicevano che ‘Ardita era un talebano’; che bisognava fermare Ardita perché voleva sentire il magistrato Fava che aveva parlato delle sue vicende di un’indagine in cui voleva arrestare Amara; e che era perfino andato contro Tinebra”.


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Nino Di Matteo © Paolo Bassani


A quelle affermazioni, aveva aggiunto Di Matteo davanti al Tribunale di Brescia, Ardita rispose: “Ma che cosa stai dicendo?”. Quindi proseguiva nella deposizione: “Il dottor Davigo sempre con tono molto aggressivo, ripeté: ‘Tu mi nascondi qualcosa’. A quel punto, mentre Ardita reagiva pacatamente invitando Davigo a riferire a cosa alludesse, ricordo che Davigo rispose: ‘Poi te lo spiego separatamente’. Ardita replicò: ‘No, no, ti autorizzo a dirlo davanti a tutti’. ‘No, te lo dico separatamente’, ha risposto Davigo”.
Di Matteo quindi aveva riferito di esser intervenuto in quella discussione affermando che “quel che stava accadendo mi faceva pensare che quel gruppo fosse peggio degli altri perché in quel momento mi sembrava che, da parte del fondatore del gruppo (Davigo, ndr), non si rispettasse la libertà dei singoli consiglieri di votare secondo coscienza”. Non solo. “Da quanto mi sembrava aggressivo il dottor Davigo e dalla violenza verbale nei confronti del dottor Ardita che si palesava a mio avviso come una minaccia, io reagì istintivamente dicendo: ‘Senti, io non mi sono fatto nemmeno condizionare dalle minacce di morte di Totò Riina. Tanto meno mi faccio condizionare dalle tue minacce’ - aveva riferito Di Matteo davanti alla Corte -. Non ero io la persona minacciata, ma mi diede molto fastidio vivere una minaccia nei confronti di un altro consigliere che è anche un mio amico. A mio avviso non aveva nessun tipo di giustificazione e continuo a dirlo. A quel punto Davigo rispose: ‘Il problema non è il tuo perché tu sei già esterno al gruppo. Il problema è di Ardita che se non vota Prestipino è fuori dal gruppo’. Poi la riunione si sciolse praticamente subito nell’imbarazzo di tutti, in un clima di fuoco che si era instaurato attraverso questa dinamica”.
In seguito a questa vicenda i rapporti che Ardita e Di Matteo avevano con l’ex consigliere Davigo si interruppero.
Raccontando solo fatti, raccolti da indagini giudiziarie e dalla lettura dei verbali depositati continuiamo a dimostrare il comportamento antietico e di rilievo penale (condannato in primo grado e in attesa del processo d'appello) del dottor Piercamillo Davigo.

La calunnia di Amara
Che Ardita non possa avere nulla a che fare con una fantomatica Loggia Ungheria era così evidente che appare lecito pensare che quell'azione calunniosa fosse stata messa in atto proprio per colpire ed infangare il magistrato non solo in quanto membro del Csm, ma anche in quanto titolare di importantissime inchieste.
Bastava un po' conoscere la sua storia per capire come le accuse del “corvo” Amara in quel verbale fossero palesemente false.
Ad esempio è evidente che nel 2006 Ardita non fosse affatto "culo e camicia" con l'ex capo del Dap Gianni Tinebra, tanto che fu lui a svelare l'esistenza del cosiddetto "protocollo farfalla", quell'accordo tra 007 e Dap per la gestione delle notizie fornite dai mafiosi in carcere in cambio di un compenso, siglato nel maggio 2004 tra Mario Mori (all'epoca direttore del Sisde) e, appunto, Tinebra.
Non può essere dimenticato il forte impegno di Ardita nel contrasto alla criminalità organizzata, in particolare contro la sanguinaria cosca di Cosa nostra catanese comandata dal boss Nitto Santapaola o ancora le sue indagini sui cosiddetti "colletti bianchi".
Da giovane sostituto della DDA di Catania condusse inchieste che portarono all’arresto dell’ex ministro Salvo Andò e degli onorevoli Nino Drago e Rino Nicolosi.
Ricordiamo anche l'importante lavoro svolto all'interno del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (DAP), come direttore dell'Ufficio detenuti, dal 2002 al 2011. Qui si è distinto per le circolari sul trattamento penitenziario e la particolare serietà nella gestione del regime 41bis, il carcere duro contro i mafiosi e terroristi, esponendosi e subendo anche gravi minacce.


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Piero Amara © Imagoeconomica


Una volta terminato il mandato alla direzione penitenziaria venne anche sentito davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia il 15 maggio 2012, e le sue dichiarazioni diedero un importante contributo alle indagini portate avanti dalla commissione sulla gestione delle carceri, sul regime detentivo del 41-bis. E sempre Ardita fu chiamato a testimoniare nei processi contro gli ufficiali del Ros, Mario Mori e Mauro Obinu, nonché al processo trattativa Stato-mafia, in cui raccontò proprio del "protocollo farfalla".
A Messina, dove è stato procuratore aggiunto, ha firmato importantissime inchieste come quella sullo scandalo Formazione alla regione siciliana costata la condanna a Francantonio Genovese, o l’operazione “Matassa” sulla compravendita di voti, fino all’operazione “Beta”, che ha messo in evidenza il pericoloso intreccio tra mafia, massoneria e poteri economici all’ombra del clan Santapaola che sullo Stretto continua ad avere molti interessi.
E tra il 2017 e il 2019, sempre a Messina, è stato anche procuratore reggente dell'ufficio che, come detto in precedenza, indagò e successivamente operò all'arresto dell'avvocato Amara.
Quelle dichiarazioni di Amara, totalmente risibili, fatte da chi aveva in mente una vendetta personale ed anche un intento di condizionamento del lavoro di Ardita e Di Matteo dovrebbero oggi far riflettere e si dovrebbe capire se abbia agito da solo o se, per quelle affermazioni, gli siano state promesse delle coperture.
E' ciò che ci auguriamo che emerga con il processo di Milano.
Nel frattempo, però, constatiamo che ancora oggi vi sia ancora chi vuole alimentare il dubbio quando invece lo stesso Amara viene ritenuto inattendibile e calunniatore da ben due Procure, stabilendo che la loggia Ungheria è una colossale bufala.
La cattiva fede del giudice Davigo, il suo continuare ad essere arrogante nel difendere le sue posizioni erronee, non pensiamo che siano di natura criminale, ma che siano dettate dall'ego e dalla sopravvalutazione di sé stesso e anche dal mancato discernimento che viene alimentato a suo favore da giornalisti come Marco Travaglio.
Il quale scrive dei libri straordinari, come Il Santo, letto dal sottoscritto con grande piacere.
Ma cade in una contraddizione in termini.
Nel libro “Il Santo”, grazie a sentenze, testimonianze, retroscena, indagini, intercettazioni telefoniche, racconti dettagliati di testimoni oculari e così via Travaglio dimostra come Silvio Berlusconi non sia stato un Santo ma un criminale.
Diversamente sul suo amico Davigo, di cui abbiamo raccontato sopra, si trincera in un interesse di parte che noi non comprendiamo, solo perché è editorialista de Il Fatto Quotidiano. Travaglio è un grande giornalista, ma deve ricordare che prima di tutto viene la verità e non l'interesse di parte. Nemmeno l'amicizia. E' la verità che deve essere conosciuta dai lettori. E la verità, sul caso Davigo, è quella che abbiamo scritto noi. Non il piangere per non ridere di Travaglio, anzi scusate, il ridere per non piangere.

Foto di copertina © Imagoeconomica

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