Presentato il libro del giornalista a Rieti. Il pm: “Con buona pace di Visconti, io e Lodato continueremo a girare l’Italia”
“Se il 10% del tempo giornalistico impiegato per parlare della morte di Matteo Messina Denaro venisse impiegato per ospitare ad esempio Nino Di Matteo basterebbe a spiegare che l’unica cosa che si porta via il boss non è Cosa nostra ma le tante verità che custodiva, e che le mafie assieme ad alcuni traditori dello Stato hanno condizionato e condizionano la vita del nostro Stato”. Così il giornalista Paolo Borrometi, intervenuto ieri sera a Rieti durante la presentazione del suo libro “Traditori” (ed. Solferino) assieme al sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, autore assieme al giornalista Saverio Lodato de "Il patto sporco e il ilenzio" (ed. Chiarelettere).
Introdotta da Simone Petrangeli e moderata da Helena Cocco e Paola Rita Nives Cuzzocrea, l’iniziativa - partendo dal libro del condirettore Agi e presidente di Articolo21 - ha poi permesso ai relatori di spaziare nei temi affrontando le recenti riforme della giustizia, il ruolo del giornalismo in Italia e, soprattutto, lo stato attuale della lotta alla mafia in Italia e del ruolo - spesso manchevole - della politica. Centinaia le persone presenti nel meraviglioso Auditorium della Chiesa di Santa Scolastica, ammaliate dalla location suggestiva e allo stesso tempo attente fino all’ultimo alle parole degli ospiti che hanno incentrato la prima parte dei rispettivi interventi sul ruolo fondamentale del giornalismo, dedicando anche un pensiero al compianto Andrea Purgatori, scomparso lo scorso 19 luglio.
Nino Di Matteo e Paolo Borrometi
“È proprio quello il tipo di giornalismo di cui questo Paese ha il disperato bisogno”, ha detto Di Matteo.
"Questo libro è molto importante - ha aggiunto -. Innanzitutto, perché in un Paese in cui il muro di gomma del silenzio è sempre più alto rispetto a certi temi e fatti che hanno segnato la storia della nostra Repubblica, Paolo Borrometi ha avuto il coraggio di raccontare e approfondire quei fatti”. In “Traditori”, Borrometi racconta il volto oscuro dell’Italia repubblicana, i suoi misteri, i casi perennemente irrisolti e i depistaggi (talvolta di Stato), che spesso si annidano dietro le indagini inconcluse tra manipolazioni e piste create ad arte per sviare dalla verità. E in questo lavoro “ha adottato un approccio particolare che andrebbe mantenuto sempre quando si cerca di raccontare la verità - ha sottolineato Di Matteo -. Ha mantenuto una visione unitaria, una capacità di legare vicende apparentemente non legate e che invece risultano effettivamente connesse da un unico filo rosso o filo nero che le caratterizza”.
I video degli interventi integrali dei relatori saranno disponibili prossimamente sul canale YouTube di ANTIMAFIADuemila.
Il ruolo del giornalismo
“Ho voluto scrivere questo libro per due motivi - ha detto Borrometi -. Il primo è perché noi giornalisti non abbiamo fatto il nostro dovere. Il secondo motivo è perché averlo scritto è stato per me un modo di ringraziare persone come Nino Di Matteo che ha fatto il proprio dovere in un Paese in cui fare ciò è diventato anormale”. L’autore conversando con le moderatrici ha poi fatto un’autocritica alla propria categoria, responsabile troppe volte di una cattiva informazione alle persone. Ribadendo il diritto-dovere del giornalista sancito nell’art.21 della Costituzione che è, innanzitutto, “il diritto del cittadino ad essere informato”, ha sottolineato come “noi giornalisti abbiamo commesso errori clamorosi negli anni. Molti colleghi, lo avrete sentito in tv, il giorno dopo la sentenza di Cassazione del processo Trattativa Stato-mafia hanno titolato e sostenuto che la trattativa non c’è stata. Nullificando così la verità storica di questo Paese e prendendosi una enorme responsabilità: quella di non informare i cittadini”. Un Paese al contrario, dunque, in cui piuttosto che discutere dei misteri contenuti nel libro, per esempio, “ormai siamo costretti ad intervenire sulle pagine di uno dei pochi strumenti liberi come ANTIMAFIADuemila per contestare le parole di un professore universitario (Costantino Visconti, ndr) che suggerisce di non invitare il magistrato Di Matteonelle scuole e nelle università. Penso che questo sia un pessimo modo per garantire innanzitutto la libertà di ognuno di noi nell’esprimere parola. E anche per la ricerca della verità”.
Paolo Borrometi ed Helena Cocco
Per il giornalista, in Italia c’è una terribile tendenza a “lasciare i familiari delle vittime innocenti di mafia chiedere verità e giustizia da soli”. Un fatto tragico che assume una doppia valenza nel momento in cui dietro alcuni delitti eccellenti e stragi la presenza dello Stato, con molta probabilità, è molto più che una semplice ombra. “Nella richiesta di verità non dobbiamo guardare in faccia nessuno - ha aggiunto Borrometi -. Anche se quel nessuno sono persone particolarmente importanti. Questo è come intendo il giornalismo ed è anche il motivo per il quale ho scritto questo libro. Traditori non sono soltanto coloro che non hanno mantenuto fede al giuramento sulla Costituzione, bensì anche noi quando ci giriamo dall’altro lato e pensiamo che questi fatti e queste verità non riguardino ognuno di noi”.
La crisi della magistratura e la vendetta dietro le riforme della Giustizia
Altro tema dibattuto nel corso della serata è stato la magistratura e le riforme che l’hanno investita di recente e che prossimamente la riguarderanno. “Ora la magistratura vive un momento difficile, certamente per colpe sue e nostre perché lo scandalo Palamara è stato solo la punta dell’iceberg di una degenerazione”, ha evidenziato il magistrato palermitano. La formula per superare questo momento di crisi è, innanzitutto, “non negare quanto, come un cancro in un corpo sano, si siano manifestate le metastasi del correntismo esasperato, del collateralismo politico, dell’opportunismo, del carrierismo”, ha aggiunto. Per Di Matteo, il momento di difficoltà della magistratura “ha scatenato e sta scatenando una voglia di rivalsa e di regolamento dei conti nei confronti della magistratura, trasversale purtroppo a parti consistenti della politica, che secondo me è finalizzata a due scopi. Uno è quello forse più bieco, ovvero la vendetta. L’altra finalità invece è di natura preventiva volta ad evitare che in futuro si possano svolgere efficacemente inchieste e processi che riguardino livelli più alti”. Vale a dire le inchieste e i processi celebrati che hanno riguardato spesso l’ipotesi di concorso esterno in capo a politici, imprenditori o uomini delle istituzioni, perfino a magistrati. “Mi riferisco a tutte le grandi inchieste su un sistema criminale che si regge anche sulla connivenza, convivenza e collusione di parte del potere ufficiale: politico, istituzionale, imprenditoriale, economico, finanziario - ha continuato -. Credo anche che molte riforme che sono in discussione, alcune sono state approvate, vadano viste con riguardo. Il dibattito è molto acceso ma si discutono sempre le singole innovazioni legislative che vengono proposte”.
Basti pensare all’abrogazione dell’abuso d’ufficio, la limitazione della pubblicazione delle intercettazioni, poi la proposta di regolamentare normativamente il concorso esterno, il traffico di influenze, la separazione delle carriere e tanto altro. “Dopo 32 anni di esperienza in questo lavoro, sono convinto che noi in questo momento dobbiamo assumere una visione dall’alto e capire che tutte queste riforme fondamentalmente vanno in un'unica direzione molto chiara: limitare la possibilità del controllo di legalità della magistratura sull’esercizio del potere ufficiale e rendere la magistratura, soprattutto il motore dell’azione penale quindi le procure della Repubblica, sempre più collaterali e serventi rispetto al potere politico ed esecutivo - ha denunciato -. In questo senso la proposta di riforma costituzionale sulla separazione delle carriere credo che rappresenti l’emblema di questo tentativo”. Una tendenza, dunque, a rendere la magistratura un apparato statale priva di autonomia e indipendenza, “in cui ciascun magistrato debba rispondere gerarchicamente anche ad altri”. Un’eventualità che piace molto alle destre dell’arco parlamentare, ma che si dimostra pericolosa “non solo per la magistratura ma anche per lo Stato democratico”. “Un qualsiasi potere esecutivo che volesse controllare la magistratura, se si gerarchizzasse la stessa avrebbe gioco facile nel momento in cui controllerà quei dieci procuratori della Repubblica importanti che a loro volta controlleranno gerarchicamente tutti gli altri sostituti. La magistratura è un potere diffuso. In capo a ciascun magistrato devono incombere gli stessi obblighi ma devono esistere anche le stesse garanzie di indipendenza”, ha sottolineato Di Matteo.
Mori dietro la Commissione Antimafia: l’apologia del Paese alla rovescia
Accogliendo l’assist, Borrometi ha illustrato al pubblico un altro paradosso tutto italiano. Questa volta si tratta del lavoro che la Commissione parlamentare Antimafia, guidata da Chiara Colosimo, sta svolgendo, o almeno dice di svolgere. È di poche settimane fa la notizia secondo cui dietro l’attività primaria della Commissione - stando alle parole della stessa Colosimo - ci potrebbe essere la presenza dell’ex generale del Ros dei Carabinieri Mario Mori (assolto ad aprile insieme agli ufficiali dei carabinieri Antonio Subrannie Giuseppe De Donno nel processo Trattativa Stato-mafia).
“Stiamo parlando del primo trattativista di questo Paese - ha detto il giornalista -. Dopo la strage di Capaci il Paese era sconvolto. È stato il nostro 11 settembre. In quel momento c’era chi aveva attentato e chi invece doveva difenderlo perché era una guerra. E il colonnello Mori scegliendo di incontrare il sindaco mafioso di Palermo, già condannato, Vito Ciancimino decide di dirgli: “Signor Ciancimino, ma cos’è questo ‘muro contro muro’? Da un lato c’è la mafia e dall’altro lato c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questi signori?”. Ma se il ‘muro contro muro’ non c’era dopo il 23 maggio 1992, in cui venne fatto saltare in aria un tratto autostradale, sconvolto l’intero Paese e dopo che ci avevano messo in ginocchio, allora quando ci sarebbe dovuto essere? E la risposta arriva pochi giorni dopo. Questa volta è Ciancimino a chiamare Mario Mori e gli dice: ‘Colonnello quegli accettano la trattativa’. E tutto questo è lo stesso Mori a riferirlo”.
Da sinistra: Simone Petrangeli, Nino Di Matteo e Paolo Borrometi
Ed è qui che si rende necessario il lavoro del giornalismo. Ovvero quello di rendere consapevoli le persone “che mentre i migliori servitori del Paese morivano sotto i colpi della mafia qualcun’altro che indossava la stessa divisa trattava e non riusciva a far cessare le stragi. Anzi, come spiega la sentenza d’appello del processo Trattativa, purtroppo quell’azione scellerata altro non fece che causare nuove stragi e nuove morti. E da giornalista ho il dovere di spiegare queste cose perché la mia categoria deve essere scomoda per natura. Non deve essere un cane da compagnia, ma un mastino da guardia della democrazia”. La trattativa, dunque, “c’è stata e dovremmo parlare al plurale. E questo è un fatto storico”. Com’è un fatto storico che il "trattativista" Mario Mori è stato convocato dalla Commissione Antimafia per parlare della strage di via d’Amelio, o meglio, del rapporto “Mafia-Appalti” di cui si interessò Paolo Borsellino prima di morire.
Il ruolo della politica e società civile
E allora cosa si può fare per sconfiggere le mafie e i sistemi criminali?
Una domanda impegnativa, alla quale Nino Di Matteo ha risposto ponendo l’attenzione su due soggetti in particolare: la politica e la società civile.
“La lotta alla mafia e ai sistemi criminali richiede innanzitutto un impegno della politica - ha detto -. Non si può condurre soltanto sul piano giudiziario e sul piano della repressione. E quando si accusa la magistratura di voler sconfinare sul campo della politica, credo che tranne per poche eccezioni ciò non sia avvenuto. Al contrario, la politica ha ritenuto più comodo addossare soltanto sulle spalle della magistratura l’opera di accertamento della verità. La politica dovrebbe stare in prima linea nella lotta alle mafie”.
Da anni una larga fetta di classe dirigente corrotta e collusa si nasconde dietro un finto garantismo in virtù del quale si mischiano sostanzialmente due piani che dovrebbero rimanere distinti: la responsabilità penale e la responsabilità politica. “Quando c’è un’indagine della magistratura che riguarda un esponente del potere politico o di altri poteri in grado di condizionare l’informazione assistiamo a due reazioni ormai standard: da una parte c’è chi grida al complotto della magistratura, dall’altra parte invece si dice ‘aspettiamo le sentenze definitive prima di pronunciarci’ - ha detto Di Matteo -. Questa affermazione mi preoccupa ed è il problema irrisolto della nostra storia repubblicana. Oggi in Italia se una determinata condotta di fatto accertata di contiguità mafiosa non costituisce reato - e quindi il soggetto non viene indagato, viene archiviato o assolto - non viene fatta valere mai una responsabilità politica di quei comportamenti accertati”.
Il magistrato Nino Di Matteo
È necessario, invece, che la politica “si renda conto che la lotta ai sistemi criminali deve essere al primo posto delle agende dei vari governi che si susseguono, al di là degli orientamenti”. L’azione politica è la premessa per poter vincere la guerra contro le mafie che non sarà mai esaustiva senza il contributo prezioso della società civile.
“Da noi cittadini, soprattutto i più giovani, deve partire una vera e propria rivoluzione culturale che ci faccia comprendere che il sistema mafioso è la negazione della nostra libertà, dignità e democrazia - ha continuato -. Ecco perché da questo punto di vista libri come questo di Paolo Borrometi sono importanti. È importante che la gente venga messa nelle condizioni di riflettere sulla complessità del fenomeno e capisca che si deve parlare di mafia oltre all’aspetto ‘folkloristico’ della cicoria che mangiava Bernardo Provenzano o dei Rolex che indossava Matteo Messina Denaro o delle sue amanti”. Ed è altrettanto importante che soprattutto i giovani si impegnino per conoscere, riflettere e approfondire.
Ed è proprio ai tantissimi giovani presenti in sala che il magistrato ha rivolto l’ultimo messaggio: “Non rassegnatevi e non adeguatevi alle verità ufficiali che spesso non sono quelle reali. Impegnatevi, indignatevi, arrabbiatevi e ribellatevi a ciò che considerate ingiusto. Farete cose giuste e sbagliate, ma sarete vivi e liberi. Sarete cittadini che vogliono vivere in uno Stato libero e democratico. È difficile, ma si può fare”. E non è vero, ha precisato, “che i giovani sono disinteressati. Non è così. Quando vado nelle scuole o nelle università, dove appunto il professore Costantino Visconti vorrebbe che non invitassero più il sottoscritto e il giornalista Saverio Lodato, grande esperto di mafia, rimango stupito dall’interesse dei ragazzi e dalla profondità delle loro domande e delle loro riflessioni. Con buona pace di Visconti, io e Lodato continueremo a girare l'Italia. Siamo noi (adulti, ndr) che non siamo capaci di trascinare i ragazzi e abbiamo dato un cattivo esempio”.
In foto di copertina da sinistra: Simone Petrangeli, Nino Di Matteo, Paolo Borrometi, Helena Cocco e Paola Rita Nives Cuzzocrea © ACFB
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