di Giorgio Bongiovanni
E' morto Matteo Messina Denaro, detenuto al 41 bis. Nella foto di copertina l'immagine del suo arresto dove avremmo voluto vederlo in manette anziché trattato con "i guanti bianchi" per quella che è stata la sua storia criminale.
Vigliacco, bugiardo, ingannatore, cinico, criminale, assassino feroce e sanguinario capace di sequestrare ed uccidere bambini. Un serial killer che si vantava con i suoi fedelissimi di “poter riempire un cimitero” con tutte le persone che aveva ucciso.
Il “curriculum” certificato dalle sentenze lo vede responsabile di sette stragi e decine e decine di omicidi.
Lo scorso 20 luglio nei suoi confronti è stato confermato in appello l'ergastolo per essere stato mandante delle stragi del 1992 in cui morirono i giudici Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti delle scorte.
Precedentemente era stato condannato all'ergastolo per le stragi del 1993 di Firenze, Milano e Roma. Stragi che provocarono in tutto dieci morti (tra cui Nadia e Caterina Nencioni, rispettivamente di 9 anni e di 50 giorni) e 106 feriti a cui sono da aggiungersi i danni al patrimonio artistico.
Contrariamente da quanto lui sostenuto nell'interrogatorio reso ai magistrati di Palermo dopo l'arresto fu uno dei responsabili del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del collaboratore di giustizia Mario Santo che stava facendo rivelazioni proprio sulle stragi del '92. Il ragazzino, dopo 779 giorni di prigionia, venne brutalmente strangolato e il cadavere poi sciolto nell’acido.
L'assassino Matteo Messina Denaro, che per le sue azioni farebbe impallidire tanti “Hannibal Lecter”, iniziò a uccidere da giovanissimo.
In base alle cronache e alle indagini degli inquirenti, fu il padre, “don Ciccio” a coinvolgerlo in uno dei suoi primi omicidi, durante la faida tra i mafiosi fedeli alle famiglie corleonesi di Palermo e i clan Accardo e Ingoglia di Trapani.
Nel 1989, i due Messina Denaro furono denunciati per associazione mafiosa e per l’omicidio di quattro uomini strangolati e sciolti nell’acido. All’epoca, ovviamente, vennero scagionati da ogni accusa.
La sete di sangue non era solo per il potere. Spesso, dietro, si celava il semplice delirio.
L'ex sottosegretario all'Interno Antonino D'Alì @ Imagoeconomica
Quando ancora non era latitante, ad esempio, fu ucciso Nicola Consales, vicedirettore del Paradise Beach di Selinunte, uno degli hotel preferiti da Messina Denaro e dai suoi.
Il motivo? Si sarebbe avvicinato troppo ad una donna che in quel momento altro non era che la fidanzata del boss di Castelvetrano, Andrea Haslehner.
Così “u Siccu” (così era chiamato), decise di intervenire. E Consales, che avrebbe anche voluto cacciare quei giovani mafiosetti che si recavano all'hotel, venne ammazzato a fucilate, mentre rientrava a casa da Selinunte, il 21 febbraio del 1991.
Nel 1992 fu tra gli autori di un duplice omicidio. Il 14 luglio era parte della squadretta (assieme a lui Gioacchino Calabrò, Giovanni Brusca, Giuseppe La Barbera e Antonino Gioè) che uccise il capomafia di Alcamo Vincenzo Milazzo. Uno dei pochi che in quella stagione di sangue e tritolo avrebbe manifestato non poche perplessità sulla necessità di avviare quella strategia di attacco allo Stato.
Quattro contro uno. E questi sarebbero i coraggiosi “uomini d'onore”? Anche qui sta la menzogna di Cosa nostra, che vigliaccamente uccide alle spalle.
Ma torniamo a Messina Denaro. Pochi giorni dopo a Milazzo venne uccisa anche la compagna di quest'ultimo, Antonella Bonomo, incinta di tre mesi. Secondo i boss aveva ricevuto informazioni importanti da Milazzo e tra i suoi parenti, si scoprirà solo anni dopo, vi era anche un uomo vicino ai servizi di sicurezza.
Venne strangolata e proprio Matteo Messina Denaro si occupò dell’occultamento del suo corpo.
Di fronte a questo “bestiale” curriculum, come si deve ritenere Matteo Messina Denaro?
Altro che figura carismatica. Altro che mito. Altro che 'u Diu' o 'Diabolik'.
E' stato un insano di mente, privo di dignità; un “serial killer”che in altri stati avrebbe ricevuto la pena capitale.
Su di lui sono stati già scritti libri, articoli e sono state fatte molteplici trasmissioni televisive.
Certamente non cadiamo nel tranello di chi sostiene che con la sua morte sia finita la mafia, e al contempo vogliamo andare oltre la descrizione che si è fatta in questi giorni che hanno preceduto la sua morte o dopo la sua cattura.
I suoi quadri del Padrino, la bella vita, la sua fama di “femminaro”e “latin lover”, l'ostentazione della ricchezza e il suo apparire colto non sono altro che “l'immagine farsa” da mostrare all'esterno che nascondeva la sua vera natura bestiale.
Non era amato da tutti. E in questi anni, in nome dei propri affari, ha messo da parte quello che era l'interesse di Cosa nostra, tradendo le aspettative dei suoi stessi sodali.
Alcune intercettazioni registrate nell’ambito delle indagini per un omicidio di mafia commesso nel 2009, svelavano l'insofferenza dei boss: “Ma anche questo… che minchia fa? Un cazzo! Si fa solo la minchia sua… e scrusciu nun ci deve essere! Arrestano i tuoi fratelli, le tue sorelle, i tuoi cognati e tu non ti muovi? Ma fai bordello! Minchia, svita a tutti… inc… inc… uscite tutti fuori sennò vi faccio saltare!”.
Anche Totò Riina, intercettato nel 2013 in una delle sue chiacchierate con la “dama di compagnia” Alberto Lorusso, nel carcere “Opera” di Milano, espresse chiarissimi segni di insofferenza nei suoi riguardi: “A me dispiace dirlo questo… questo signor Messina (Matteo Messina Denaro ndr) questo che fa il latitante che fa questi pali eolici, i pali della luce, se la potrebbe mettere nel culo la luce ci farebbe più figura se la mettesse nel culo la luce e se lo illuminasse, ma per dire che questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa luce, fa pali per prendere soldi ma non si interessa...”.
Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi © Imagoeconomica
Erano le stesse intercettazioni in cui “u Curtu” decretava la sua condanna a morte nei confronti del magistrato Nino Di Matteo. Un piano di morte che Messina Denaro, così come raccontato dal pentito dell’Acquasanta Vito Galatolo, starebbe portando avanti su input esterni a Cosa nostra.
Di Matteo “mi hanno detto che si è spinto troppo oltre”, scriveva Matteo Messina Denaro ai "fratelli" capimafia palermitani nel chiedere la disponibilità per effettuare l'attentato.
Chi erano questi altri? “Sono gli stessi mandanti di Borsellino” aveva assicurato il collaboratore di giustizia Vito Galatolo parlando proprio con Di Matteo descrivendo i dettagli del progetto omicidiario di cui il boss dell’Acquasanta era coordinatore organizzativo anche per l'acquisto di duecento chili di tritolo.
Ecco il vero ruolo del “serial killer” Matteo Messina Denaro: un “burattino” nelle mani di quello Stato-mafia che gli ha garantito trent'anni di latitanza.
E' in dubbio che oltre alla rete di “fedelissimi”, che si era preso cura di lui dal giugno 1993, c'erano anche apparati istituzionali, politici e massonici.
Ambienti che conosceva bene.
Tra questi l'ex senatore di Forza Italia, Antonino D'Alì (tra il 2001e il 2006 sottosegretario all’Interno), condannato definitivamente a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Un legame, quello tra la famiglia D'Alì ed i Messina Denaro, storico. A Castelvetrano, infatti, il padre di Matteo lavorava come campiere e coltivatore nei terreni dei D’Alì.
“D’Alì ha certamente assunto degli impegni seri e concreti a favore dell’associazione mafiosa e ciò lo si può desumere sia dalla sua già stabile, affidabile, comprovata e ventennale disponibilità a spendersi in favore di Cosa Nostra“, si legge nella sentenza, emessa al termine di un lungo processo, svolto in primo grado con il rito abbreviato.
Del resto, assieme al suo “gemello” Giuseppe Graviano, fu uno dei protagonisti della campagna stragista del '93 ai monumenti. Fu lui ad indicare i luoghi dove colpire. Ma non è certo la sua passione per i quadri ad averlo spinto ad indicare gli Uffizi o la Galleria di Arte Moderna di Milano.
Si è reso esecutore di un piano che andava molto oltre la sua intelligenza.
Le mafie, infatti, vengono eterodirette da altri potenti, che avevano interesse che fosse posto in atto quell'attacco allo Stato. Esse si inseriscono all'interno di un Sistema criminale che permette loro di andare oltre le figure dei Riina, dei Provenzano ed oggi anche oltre Matteo Messina Denaro.
Non pupari ma, dicevamo, pupi utilizzati per una “grande opera”, più o meno consapevolmente.
“Io non mi farò mai pentito”, aveva detto il boss trapanese ai magistrati che erano andati ad interrogarlo nei mesi scorsi. Neanche in fin di vita, insomma, ha voluto liberarsi la coscienza da quei segreti di cui è stato, come dicono i pentiti, l’ultimo destinatario.
Dai documenti spariti dalla cassaforte di Riina fino alla Trattativa. Sicuramente, collaborando, avrebbe potuto raccontare la sua versione sul presunto rapporto tra l'ex premier Silvio Berlusconi e la mafia, di cui hanno riferito decine di pentiti. Negli ultimi anni il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca ha tirato in ballo in prima persona il boss di Castelvetrano raccontando ai pm che questi, in un incontro avvenuto nel 1995, mentre si parlava di orologi, gli confidò che “Giuseppe Graviano gliene ha visto uno al polso, orologio, a Berlusconi, che valeva 500 milioni (in lire, ndr)”. Brusca a quel punto avrebbe chiesto direttamente se Graviano e Berlusconi si incontrassero. E la risposta del capomafia trapanese sarebbe stata affermativa.
Il boss stragista di Brancaccio, Giuseppe Graviano
Certamente il racconto de relato può valere fino a un certo punto. Ma se Messina Denaro era a conoscenza di un dettaglio simile è altamente probabile che avrebbe potuto sapere molto di più di quei presunti colloqui tra Graviano e l'ex Premier.
Lui, come i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, Leoluca Bagarella, i Biondino ed i Madonia, dopo le morti di Riina e Provenzano era divenuto riferimento massimo di quella mafia che con lo Stato ha stretto patti e accordi indicibili.
Forse proprio perché consapevole che all'interno dello Stato c'erano i complici di Cosa nostra ha avuto paura di parlare.
Perché sapeva perfettamente che, prima con il suo arresto ed ora con la sua morte, il “pallino” passa nelle mani di quei boss che sono in carcere, ma che non hanno perso la speranza di uscire.
Per ora è stato posto un freno, ma la normativa antimafia è costantemente sotto attacco e tutte le norme, dal 41 bis, all'ergastolo ostativo, fino alla legge sui pentiti, sono ormai state rese una semi barzelletta.
L'ennesima beffa di uno Stato che giustamente, come prevede la legge, ha curato Messina Denaro fino al suo ultimo giorno di vita.
Anche se si resta profondamente amareggiati, se non anche arrabbiati, nel vedere tanta povera gente, che non ha ucciso nessuno, dover attendere mesi e mesi prima di poter ricevere le medesime cure ricevute dal capomafia.
Oggi che Messina Denaro è morto, come tutti, diamo la notizia nella speranza che non se ne faccia un mito e che venga presto dimenticato.
In questo senso potrebbe dare un forte segnale la figlia del capomafia, Lorenza.
Le ultime notizie non parlano solo di riconciliazione tra i due, ma persino di un vero e proprio riconoscimento con il boss che le ha ufficialmente dato il suo cognome. A quanto è dato sapere la donna ha accettato ed ora si chiama Lorenza Messina Denaro. Un segnale devastante.
La scelta può anche essere legittima, ma certamente non posso condividerla. Perché così facendo raccoglie, almeno nel cognome, non solo l'eredità di un Padre, ma di un assassino al servizio dello Stato-mafia.
Elaborazione grafica di copertina by Paolo Bassani
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