Tra loro anche il pm Nino Di Matteo
Per oltre sessant’anni Gianni Minà è stato uno degli inviati di punta della Rai. Giornalista, scrittore e conduttore televisivo, ha raccontato in immagini realtà sociali e di costume dell'Italia, degli Stati Uniti e dell'America Latina. Un uomo di mondo che col suo carisma e la sua bontà, ha conquistato il cuore di molti grandi combattenti del Mondo. Da Mohamed Alì a Maradona, che gli concesse “l’esclusiva” intervista ai Mondiali di calcio del 1990, quando si disputò la semifinale Argentina-Italia con il pubblico diviso tra la Nazionale e la passione napoletana per il fuoriclasse argentino. “Comunque vada, verrò solo al tuo microfono a darti il mio commento”, gli disse el Pibe de Oro. Ne venne un’intervista che lo stesso Minà definì “unica e irripetibile”. Poi gli incontri con Sergio Leone, Fidel Castro, Robert De Niro e Martin Scorsese.
Gianni Minà insieme a Diego Armando Maradona
In molti ricorderanno lo sketch con Massimo Troisi che espresse come suo sommo desiderio di avere l’agenda del giornalista perché conteneva i recapiti telefonici di alcuni dei personaggi più famosi del Novecento.
Di Minà, che se n’è andato lo scorso 27 marzo all’età di 84 anni, questi grandi uomini e donne ne coglievano l’intelligenza, la perspicacia, l’umanità e venivano rapiti dal suo modo di porre e porsi domande. "Mi hanno sempre attratto persone capaci di andare controcorrente, anche a costo dell'isolamento, della solitudine”, diceva.
Minà - scrive a fine libro la Fondazione che porta il suo nome, nata a febbraio scorso - “aveva sempre una gran fretta di scoprire e raccontare le storie, non tanto per far conoscere la sua carriera, il suo era un atteggiamento interiorizzato, sempre alla ricerca di persone da incontrare e di fatti da ascoltare che valeva la pena di far conoscere”. “Ha sempre amato le persone fuori dal coro perché - sosteneva - 'Bisogna avere una certa dose di coraggio per pensare in maniera non banale, alzare la mano e dire: io non sono d'accordo. Il silenzio è complicità e molte persone che ho intervistato hanno tutte pagato un prezzo, più o meno alto. E io considero mio dovere quantomeno raccontare questa umanità'. Ed è questo, in fondo, il sale della vita”.
Da sinistra: García Marquez, Sergio Leone, Muhammad Alì, Robert De Niro e Gianni Minà
E la sua vita, con gli incontri che l'hanno segnata, è stata impressa in un libro fotografico, “Fame di storie” (edito dalla casa editrice napoletana, la Roberto Nicolucci). Il volume è una preziosa raccolta di immagini che rende vivo il percorso professionale e umano di Minà. Un giornalista “raccontatore di storie”. “Ho narrato di tutto – diceva - il terremoto del Friuli, la gente, la boxe, la musica, l’America Latina, gli scrittori, gli artisti, i jazzisti, insomma la vita”.
Le sue ultime energie sono state spese proprio per riordinare, assieme alla moglie Loredana Macchietti, centinaia di foto e testi, che formano questo libro che ci consegna una memoria straordinaria.
Gianni Minà con Massimo Troisi e Pino Daniele
Il volume è suddiviso in base ai campi di quelle “incursioni con il microfono in pugno” che lo hanno contraddistinto.
Fu testimone nel '68, alle Olimpiadi di Città del Messico del “massacro di Tlatelolco”: studenti, uccisi dai militari e portati via nei camion della spazzatura, due settimane prima che sul podio olimpico si accendesse la brace della “rivolta delle blackpanthers”: il pugno levato al cielo dagli americani Tommie Smith e John Carlos con l’australiano solidale, e dissidente quanto loro, Peter Norman.
Detto dello sport, ovviamente non poteva mancare il cinema con quella foto storica, se non leggendaria, assieme a Robert De Niro, Sergio Leone, García Marquez e Muhammad Alì in una trattoria di Trastevere.
C'è spazio anche per la musica, con Minà che girava in Fiat 500 assieme ai Beatles scarrozzati per le vie di Roma, Milano e Genova. E poi la letteratura. Se Gabriel García Marquez era un amico un segno lo avevano lasciato anche Jorge Amado, Eduardo Galeano e Luis Sepúlveda. Nei suoi racconti non mancava la politica, ma anche la società civile, perché la sua visione era rivolta spesso verso chi non aveva voce.
A volte la sua voce era anche scomoda: dovette fuggire dall’Argentina del dittatore Videla per aver osato indagare la tragedia dei desaparecidos un anno prima del Mundial della Coppa insanguinata del ’78, dove poi non fu inviato.
Proprio l’America Latina era uno di quei luoghi che aveva nel cuore. Fu direttore della collana “Il continente desaparecido” per Sperling & Kupfer, in cui pubblicò autori e testi preziosi per approfondirne la realtà e la storia, e diresse anche il festival culturale “Carovane” a Piacenza, portando molti di quegli scrittori e scrittrici davanti al pubblico italiano. Quindi fu il fondatore della rivista Latinoamerica e tutti i sud del mondo.
Gianni Minà insieme a Edoardo Galeano
L’intervista ad ANTIMAFIADuemila
Nel gennaio 2002, a Roma, fummo noi a intervistare “l’intervistatore” Gianni Minà. Il giornalista ci raccontò la sua storia, le sue esperienze, le amicizie che tutti gli invidiavano con i leader più famosi del pianeta. Minà ci diede anche la sua opinione sui temi maggiormente di attualità al tempo. Oltre al macro-tema di quell’anno, la nascitura guerra NATO in Afghanistan seguita all’attacco alle Torri Gemelle, con Minà parlammo anche di mafia.
Infatti, oltre ad essere un convinto antifascista, Gianni era anche un convinto antimafioso. Non a caso discutemmo della figura di Silvio Berlusconi, che al tempo era premier, e del suo impero. Il giornalista non ebbe mezzi termini a descrivere l’amministrazione nefasta del Paese condotta dal Cavaliere.
“Considerato il modo in cui si tenta di chiudere alla giustizia la possibilità di fare il suo corso quando sono in gioco gli interessi del leader Berlusconi e di molti dei suoi adepti, il modo in cui si pianifica un attacco frontale a tutte le tutele sociali del paese, il piano di lavori in atto per cementificare l'Italia come non sono riusciti a fare nemmeno 50 anni di governo democristiano-socialista è chiaro - disse Minà - che in Italia si è già instaurato un regime. E il leader di questo regime è padrone delle tre reti della televisione commerciale, controlla le tre reti della televisione di Stato”. Minà non ebbe peli sulla lingua. Non faceva di certo parte di quella categoria di colleghi che preferiscono dire una parola in meno per non inimicarsi editori e così mandare in fumo carriere. Minà era una voce indipendente. Non aveva paura di esprimersi.
Gianni Minà con Luis Sepúlveda
“Ho raccontato molto - aveva dichiarato - ma ho anche lottato molto per sostenere il valore, ogni giorno più fragile, della libertà di espressione e del diritto di essere informati”.
Lui aveva a cuore la verità, affermando che l’unica cosa che deve guidare un giornalista è la curiosità e, appunto, il dovere di informare i lettori.
Un giornalismo, il suo, d'altri tempi e controcorrente, capace di mettere al centro l'uomo prima ancora che la personalità rappresentata da chi si trovava davanti.
Nelle ultime pagine del libro uno spazio è dedicato all'incontro con il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo. “Fame di storia” si conclude proprio con una fotografia che lo immortala mentre intervista il magistrato a Roma. L’ex consigliere togato del Csm è l’unico pm presente nel volume, le cui foto, sia per selezione, che per posizionamento cronologico, sono state scelte da Minà in persona. “Io e Nino Di Matteo ci vogliamo molto bene”, afferma nel libro. “E’ stato affetto e stima a prima vista, come quando ti riconosci al primo sguardo”. “Con Loredana avevamo deciso di chiamarlo, mentre stavamo registrando le interviste per il documentario su di me, per aiutarci a descrivere l’Italia dopo l’uccisione dei due magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”.
Gianni Mina con Nino Di Matteo
Una stima sincera, tanto che nel 2015 era presente a Roma per la presentazione del libro “Collusi” (scritto dal pm Di Matteo e dal giornalista Salvo Palazzolo), per uno di quei magistrati che, come lui, continuavano a lavorare sodo nonostante le delegittimazioni e le intimidazioni.
Tornando a quell'intervista che ci aveva rilasciato Minà parlava di Stato-mafia in tempi non sospetti.
A domanda secca se secondo lui ci fossero rapporti tra la mafia e rappresentanti del governo di allora, Minà rispose diretto: “E’ inutile nascondersi dietro un dito. Quando 61 collegi su 61, in Sicilia, vanno al Polo è plateale che non può che trattarsi di una decisione partorita da una imposizione della mafia”. E aggiunse: “In Forza Italia c'è tanta gente che è stata ed è in odore di mafia, ci sono avvocati che hanno difeso mafiosi in un modo anche abbastanza inquietante, non con una ricerca di verità ma con il capzioso tentativo di salvarli da una condanna”. Ancora non c’erano state le condanne per Dell’Utri, Cosentino, Matacena, D’Alì e tanti altri. Eppure Minà già aveva capito il gioco grande, da giornalista brillante e coraggioso qual era.
Foto © Archivio Minà
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