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di Giorgio Bongiovanni

Trentuno anni dopo le stragi; trentuno anni dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e l'inizio dell'attacco allo Stato, della trattativa e delle "bombe del dialogo" la ricerca della verità non si è mai fermata. E' stato scoperto molto, ma non tutto, e l'impegno della magistratura è adesso rivolto al dare un volto ai cosiddetti mandanti e concorrenti esterni che, ormai è sempre più evidente, in quelle stragi hanno avuto un ruolo.
Tuttavia c'è un pezzo di Stato che quella verità continua a non volerla, a nasconderla e che tenta di isolare e colpire proprio quei magistrati che si trovano in prima linea in questa ricerca della verità o che hanno “osato” istruire processi contro gli alti livelli di mafia e Stato per far luce su scabrose vicende per il potere di ieri e di oggi. Un nome viene costantemente ripetuto: quello del sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo che da gennaio ha concluso la propria esperienza come consigliere togato del Csm ed è tornato alla Procura nazionale antimafia.
Ecco, dunque, che si è nuovamente scatenata la campagna denigratoria e di delegittimazione.
Lo scorso luglio, sulle pagine di Libero, ci ha pensato il "solito" Alessandro Sallusti, uno dei tanti "libellisti", servi del potere, che pur di colpire e perseguitare chi è sgradito, ha voluto fare ricorso a vere e proprie menzogne.
In un articolo dal titolo "Lettere e depistaggi. Ecco chi davvero stava con Paolo Borsellino e chi lo osteggiava", rispolvera i contenuti, pieni di omissioni e falsità, del libro "Lobby e Potere" da lui scritto assieme a Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed ex membro del Csm, radiato dall’ordine giudiziario per la prima volta nella storia della magistratura.

Questione Scarantino
Già nelle prime righe non si dice il vero quando si afferma che nelle parole di Scarantino, il falso pentito della Guadagna, non c'era nulla di vero. Anche nelle sentenze più recenti, come il Borsellino quater, la Corte afferma che le dichiarazioni del picciotto della Guadagna, "pur essendo sicuramente inattendibili, contengono elementi di verità". Ed è proprio per questo motivo che la vicenda è assai complessa e non riassumibile in poche righe di commento.
Certo è che il "falso pentito" Scarantino ha indicato come partecipi della fase cruciale della strage le medesime persone di cui ha successivamente parlato il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, autoaccusatosi del furto dell'auto utilizzata per la strage di via d'Amelio.
Scarantino, infatti, dice che quando la macchina viene portata nel garage per essere imbottita di esplosivo c'erano Graviano, Tagliavia e Tinnirello, così come poi dirà in perfetta coincidenza Spatuzza.


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Nino Di Matteo


Quello Spatuzza che ha parlato della presenza di un uomo che non apparteneva a Cosa nostra: un soggetto esterno.
Ebbene, un altro falso pentito, Andriotta, aveva riferito al tempo di aver saputo da Scarantino che era presente anche un uomo che non era di Cosa nostra, uno specialista di esplosivi italiano.
E poi ancora, ci sono le indicazioni date da Scarantino sul furto dell'auto, avvenuto mediante la rottura del bloccasterzo, ed aveva aggiunto di avere appreso che sull’autovettura erano state applicate le targhe di un’altra Fiat 126, prelevate dall’autocarrozzeria dello stesso Orofino, e che quest’ultimo aveva presentato nel lunedì successivo alla strage la relativa denuncia di furto.

La menzogna sul Csm
Ma la "menzogna" di Sallusti si ha anche in un altro passaggio, quando parla della lettera che Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato, scrisse al Csm nel 2017, in occasione del venticinquesimo anniversario dell'uccisione del padre.
"E cosa accade? - scrive Sallusti - Lo Racconta Luca Palamara, allora potente membro del Csm: "Acquisimmo gli atti del processo Borsellino e aprimmo una discussione in prima commissione, quella che si occupa dei procedimenti disciplinari. Fu una discussione molto accesa, ma detto in onestà, non ci fu mai l'intenzione di andare fino in fondo. Primo perché era passato troppo tempo per accertare una verità oggettiva, secondo perché sulla vicenda aleggiava il nome di Nino Di Matteo, in quel momento tra i più potenti e protetti magistrati italiani. Insomma, abbiamo fatto ammaina, come si dice a Napoli. Non abbiamo neppure convocato, almeno per dare un segnale alla famiglia Borsellino e al Paese, i magistrati che gestirono quel depistaggio, tantomeno Di Matteo".
Ecco dunque un altro passaggio in cui la narrazione dei fatti viene distorta. E viene fatto utilizzando le parole di Palamara, lo scorso maggio condannato a un anno (pena sospesa) dopo il patteggiamento nel processo che lo ha visto imputato a Perugia per i suoi rapporti con l'imprenditore Fabrizio Centofanti per traffico d'influenze illecite (era stato rideterminato il capo d'imputazione e derubricato il reato di corruzione, ndr).
Tramite Palamara il Sallusti indica Di Matteo come uno dei magistrati più "potenti" in Italia quando la storia dimostra come lo stesso sia stato continuamente minacciato, calunniato, sottoposto a più procedimenti disciplinari con motivazioni ingiuriose (successivamente prosciolto da tutte le accuse), attaccato da ogni lato e accusato persino di essersi orchestrato da solo l’ordine di morte.
Ed è sfacciatamente falsa l'affermazione in cui si dice che Di Matteo non è stato mai sentito dal Csm sulle vicende di via d'Amelio.
Del resto basta fare una ricerca su internet, andare su Radio Radicale per rinvenire l'audizione dell'allora sostituto procuratore di Palermo davanti alla Prima Commissione del Csm. Era il 17 settembre 2018 e Palamara era presente.
Sallusti, sempre usando Palamara, omette ad arte anche di ricordare che fu proprio Di Matteo, in maniera formale e reiterata, a chiedere che quell'audizione non fosse secretata, ma eseguita in seduta pubblica.
E tutti i cittadini possono ascoltarla con le proprie orecchie per comprendere in maniera chiara quella che fu la vicenda Scarantino e come fu affrontata all'epoca.
Una testimonianza che è stata ribadita anche di fronte alla Commissione Parlamentare Antimafia e quindi nei processi Borsellino quater e quello sul depistaggio di via d'Amelio.
Testimonianze che dimostrano in maniera chiara come non c'entri nulla con il depistaggio e come la vicenda Scarantino non sia altro che "un segmento" del grande scenario investigativo nella ricerca della verità sulla strage di via d'Amelio. Ma l'obiettivo è chiaro: gettare fango su chi non si arrende nella ricerca della verità.
Così, come in passato si attaccavano i Falcone ed i Borsellino, oggi nel mirino tornano Nino Di Matteo e tanti altri magistrati che, con coraggio, vanno avanti.
E' quell'azione che le "menti raffinatissime" conducono per fermare il magistrato in maniera preventiva. Non solo per quello che ha fatto, con inchieste, processi e condanne ottenute, ma (soprattutto) per quello che potrà fare.
Come abbiamo accennato in precedenza nei confronti di Di Matteo pende la condanna a morte di figure come Totò Riina e Matteo Messina Denaro.
Condanne che, così come ha raccontato il collaboratore di giustizia Vito Galatolo, furono emesse dai vertici di Cosa nostra per conto di altri ("Gli stessi di Borsellino!”).
Quel progetto di attentato, hanno scritto i pm nisseni nella richiesta di archiviazione d'indagine, è ancora in corso. Ma, ovviamente, di questo Sallusti non ha mai parlato, e non vuole parlare. Del resto cosa aspettarsi dai libellisti servi del potere?

Foto © Imagoeconomica

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