Gravi errori sull'inchiesta mafia-appalti e Roberto Scarpinato
Ci deve essere qualcosa di morbosamente sadico contro i magistrati nel direttore de "Il Riformista", mercenario ed “ex compagno” Piero Sansonetti, servile al neonato governo fascista.
Nei giorni scorsi è tornato a prendersela con l'ex Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, che ha avuto l'ardire di ripercorrere fatti e misfatti della storia, ricordando gli atti di “depistaggio delle stragi neofasciste” negli anni della strategia della tensione, ricordando alla Presidentessa Giorgia Meloni le sue vecchie posizioni contro il reato di tortura per i fatti del G8 di Genova.
Non una parola, da parte sua, sulla clamorosa censura attuata dal Presidente del Senato "picchiatore" Ignazio La Russa. Non una parola sulla verità che in molti vogliono dimenticare, ovvero che al Governo c'è un partito che ha come leader un uomo (Silvio Berlusconi, ndr) che ha avuto "rapporti pluriennali con la mafia" e che ha tra i fondatori un uomo della mafia, ovvero Marcello Dell'Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Sansonetti si è scagliato contro Scarpinato perché ha osato difendersi dall'assurda accusa della Presidentessa Meloni, che aveva fatto intendere che possa aver avuto un qualche ruolo nel depistaggio sulla strage di Via D'Amelio ignorando che proprio l'ex Procuratore generale promosse la revisione del processo per gli innocenti condannati per l’omicidio di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta.
Pur dando ragione all'ex magistrato sulla sua estraneità nel depistaggio, con il suo solito scrivere mistificante, ha tirato in ballo il leitmotiv sull'archiviazione di una parte del procedimento Mafia-appalti come motivo di disonore.
Proprio Scarpinato, che al tempo fu uno dei titolari di quel fascicolo, sentito al processo sul depistaggio della strage di Via D'Amelio, ha spiegato, producendo ben venti documenti, che in realtà l’indagine mafia-appalti non fu affatto archiviata il 13 luglio 1992, come falsamente alcune fonti continuano a ripetere in palese contrasto con gli atti processuali.
Ma il sadismo più becero il mercenario Sansonetti lo ha mostrato ancora una volta nello scrivere che il depistaggio sulla strage coinvolse, oltre il Procuratore Tinebra, "anche il giovane Di Matteo".
Un falso palese nel momento in cui lo stesso Di Matteo non è mai stato neanche indagato dalla Procura di Messina (che per competenza ha condotto l'inchiesta sui magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia). Un'indagine archiviata dal Gip in quanto venivano considerati "insussistenti gli elementi probatori certi e univoci tali da consentire la sostenibilità in un eventuale futuro dibattimento dell'accusa di calunnia a carico degli indagati".
L'ex procuratore generale di Palermo, oggi senatore della Repubblica, Roberto Scarpinato © Paolo Bassani
In questi anni è stato chiarito di fronte a più sedi (Commissione parlamentare antimafia, Csm, processo Borsellino quater ed anche in questo processo), carte alla mano, dallo stesso Di Matteo come fu valutata la vicenda Scarantino.
Una storia resa ancor più complessa proprio dalle dichiarazioni combacianti tra il falso pentito della Guadagna e quelle di Gaspare Spatuzza che hanno riscritto la storia della strage. E sul punto basta rileggere le motivazioni della sentenza del Borsellino quater, ma nessuno dei giornaloni ricorda questi passaggi.
Si dimentica troppo spesso che, rispetto alle indagini del Borsellino bis (uno dei due processi oggetto di "revisione"), Di Matteo si occupò di esse solo marginalmente.
E non si dice quasi mai che furono gli stessi pm di allora, Nino Di Matteo e Anna Maria Palma, per alcuni degli ingiustamente condannati, a chiedere ed ottenere le assoluzioni per il delitto di concorso in strage. Basta ricordare Giuseppe Calascibetta, Gaetano Murana e Antonino Gambino. Soggetti poi condannati in successivi gradi di giudizio. Diversamente si preferisce solo evidenziare che fu chiesta la condanna nei confronti di Vernengo, di La Mattina e di Gaetano Scotto oltre che di Natale Gambino.
Si dimentica che i processi istruiti da Di Matteo sulla strage di Via d'Amelio, ed in particolare il Borsellino ter, hanno portato alla condanna definitiva di decine e decine di capomafia della Cupola di Cosa Nostra tra i quali Riina, Provenzano, Santapaola, Biondino ed altri. Con sentenze e condanne mai messe in discussione e non interessate dal processo di revisione.
Proprio il Borsellino ter è stato fondamentale soprattutto nell'apertura del "vaso di pandora" sui cosiddetti mandanti esterni che per quanto riguarda le stragi ancora oggi vede l'impegno nella ricerca della verità da parte di più procure.
E' nel Borsellino ter, infatti, che emerse, con la deposizione del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, l’esistenza della trattativa Stato-Mafia (trattativa che contrariamente a quel che si dice non viene messa in discussione nella sentenza d'appello di Palermo).
E' sempre nel Borsellino Ter che si è fatto riferimento (così come raccontato dall'ex boss della Commissione provinciale Totò Cancemi) al dato per cui Riina citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti da appoggiare “ora e in futuro di più”, e rassicurava gli altri componenti della Cupola che fare quella strage sarebbe stato alla lunga “un bene per tutta Cosa Nostra”.
Sansonetti & Company fanno sempre finta di non ricordare che da questi elementi Di Matteo, assieme al collega Luca Tescaroli, negli anni successivi proseguì la ricerca della verità sui mandanti esterni nelle stragi con le indagini su Bruno Contrada per concorso in strage o quelle su “Alfa e Beta” (ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri).
Strage di Via D'Amelio © Shobha
La questione Contrada nello scontro Sinico-Di Legami
Quando fu sentito al processo contro i poliziotti per il depistaggio della strage Via d'Amelio Di Matteo ha riferito nei dettagli come si arrivò alla riapertura delle indagini su Contrada.
"Fu aperta un'indagine molto spinta sui Servizi Segreti - spiegò Di Matteo - Fui io a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell'attentato con una borsa, o dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende". "Vedendo quegli atti mi accorsi che c'era stato un ufficiale del Ros, Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l'esplosione aveva constatato la presenza di Contrada. E raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in Via D’Amelio e che poi sarebbe stata strappata in Questura - spiegò ancora -. Quel che mi fece trasalire è che quando fu sentito dalla collega Boccassini, nel 1992, mise a verbale quella circostanza dicendo di averlo saputo da un suo amico carissimo, non un confidente, di cui voleva tutelare l'identità. Andai a interrogarlo e ribadì le medesime parole. Quando io stavo per chiedere il rinvio a giudizio del carabiniere lui venne in Procura e depositò una memoria della quale avrebbe parlato con il colonnello Mori, facendo il nome della sua fonte: il funzionario di polizia Roberto Di Legami. Ricordo anche il momento dei confronti che fu drammatico. Di Legami negò tutto, fu anche rinviato a giudizio perché avevamo due militari contro uno. Dell'esito di quel processo appresi successivamente, quando già ero a Palermo e seppi che il funzionario fu assolto". E' nell'ambito di quelle indagini che, di fatto, si apriva il filone investigativo sull'agenda rossa prima ancora del rinvenimento della fotografia del capitano Arcangioli: "Il mio impegno - spiegò sempre Di Matteo - era finalizzato a capire per mano di chi fosse sparita. Abbiamo fatto il possibile per accertarlo, anche scontrandoci con reticenze bestiali sulla presenza di esponenti delle istituzioni nel luogo dell’attentato. Da qui sarei voluto ripartire per tante altre cose".
Il punto su Berlusconi e Dell'Utri
Come abbiamo ricordato in precedenza Di Matteo, assieme a Luca Tescaroli, si era occupato anche delle indagini su Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, indagati come mandanti esterni alle stragi ed iscritti a fascicolo con le denominazioni di “Alfa” e “Beta”.
Un'inchiesta che traeva origine dalle dichiarazioni di Cancemi e che incontrò delle fortissime opposizioni. "Resistenze o no, io e i colleghi siamo andati avanti per la nostra strada - riferì Di Matteo in più occasioni - Sulle indagini su Contrada e la eventuale presenza di personaggi dei servizi nessuno mi disse mai nulla. Le indagini le facevamo noi e nessuno mi pose mai un freno. Per quanto riguarda invece i mandanti esterni alle stragi e il coinvolgimento di Berlusconi e Dell'Utri fu diverso: ci fu una riunione della Dda e fu imbarazzante. Già si sapeva che la riunione era stata convocata per valutare l'eventuale iscrizione di Berlusconi e Dell'Utri nel registro degli indagati. Il procuratore di allora Giovanni Tinebra, dopo una lunga e animata discussione diede l'ok, anche se non era d'accordo, ma disse comunque che dovevamo procedere con nomi di fantasia e che lui non avrebbe sottoscritto nessun atto. Certamente nelle indagini sui mandanti esterni non ci fu vicino. Posso dire che può essere questo un modo di non sostenere e non partecipare, prendendo le distanze all'interno e all'esterno. Quando chiedevamo accertamenti alla Dia di Roma e alle altre Procure partivano le deleghe ma le sole firme erano la mia e quella del collega Tescaroli, ovvero di due sostituti. E questo certo non deponeva bene a favore dell'indagine".
E' un fatto assolutamente notorio che quell'indagine finì con un'archiviazione, mentre oggi è la Procura di Firenze che indaga sui due politici fondatori di Forza Italia come mandanti delle stragi del 1993.
La ricerca della verità su stragi e delitti eccellenti è sempre stato al centro dell'attività investigativa di Nino Di Matteo.
Un'attività che lo ha portato a raggiungere importanti risultati nei processi sulle morti dei magistrati come Chinnici, l’omicidio del giudice Antonino Saetta, con condanne per mafiosi, politici e colletti bianchi.
Il consigliere togato del Csm, Nino Di Matteo © Deb Photo
Ugualmente non dimentichiamo che proprio per questa ostinazione nella ricerca della verità Di Matteo è stato più volte osteggiato anche dai più alti vertici della magistratura, subendo l’apertura di un indecente provvedimento disciplinare (da cui è stato prosciolto) e una lunga serie di clamorose bocciature da parte del Csm che gli preferì colleghi con meno esperienza e titoli.
E ancora non dimentichiamo la condanna a morte decretata nei suoi riguardi direttamente dal Capo dei capi, ormai deceduto, Totò Riina (“Ed allora organizziamola questa cosa. Facciamola grossa e dico e non ne parliamo più…- e poi ancora - Perché questo Di Matteo non se ne va, ci hanno chiesto di rinforzare… gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile… ad ucciderlo… un’esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo partivamo la mattina da Palermo a Mazara, c’erano i soldati poverini a fila indiana a quel tempo”).
Parole che si sono rafforzate quando Vito Galatolo, figlio di uno dei capimafia più importanti di Palermo, ha iniziato a collaborare con la giustizia.
Galatolo riferì del progetto di attentato, mai revocato, deliberato sin dalla fine del 2012. Interrogato dai pm aveva raccontato di una richiesta inviata con una lettera da Matteo Messina Denaro letta in un summit ristretto di boss (tra essi il suo vice, Vincenzo Graziano, ed i capi mandamento di San Lorenzo e Porta Nuova, Girolamo Biondino e Alessandro D’Ambrogio).
Perché si doveva colpire Di Matteo? “Si era spinto troppo oltre”. Chi sarebbero i mandanti? “Gli stessi di Borsellino”. Parole chiare quelle di Galatolo. L'ex boss aveva anche parlato dell’arrivo, nel capoluogo siciliano, di centocinquanta chili di tritolo, provenienti dalla Calabria, proprio per uccidere il magistrato. Certo è che, secondo le indagini della Procura di Caltanissetta, quel progetto di morte resta “ancora operativo”.
Ecco di questo i “falsari” ed i “mistificatori” della verità, che ad ogni scusa si divertono a colpire e delegittimare quei magistrati in prima linea contro i sistemi criminali, non dicono mai nulla.
E così facendo contribuiscono ad isolare questi magistrati. Come accadeva a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Evidentemente dalle loro storie non si è voluto imparare nulla.
Detto questo, ci domandiamo: perché contro Di Matteo c'è questa continua, pedante, noiosa e monotona azione di contrasto? Perché questi attacchi, con l'infamante accusa di aver compiuto il depistaggio della strage, vengono in maniera quasi univoca da mafiosi, da avvocati di stragisti, da certi familiari vittime di mafia (speriamo in buona fede) e dai loro legali, dai giornalisti libellisti-mercenari? La risposta è semplice. Perché Di Matteo, con le sue inchieste e con i suoi processi (trattativa Stato-mafia compreso) è quel magistrato che più di tutti si è avvicinato ai mandanti esterni della strage di Via D'Amelio. Mandanti che sono attualmente a capo del sistema economico, finanziario, politico, massonico e criminale in Italia. Hai capito caro “ex compagno” Sansonetti?
Foto di copertina: rielaborazione grafica by Paolo Bassani
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