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Riflessione dopo il deposito delle motivazioni della sentenza trattativa

Il dubbio è immanente e si fa sempre più forte leggendo le tremila pagine delle motivazioni della sentenza d'Appello del processo Trattativa Stato-mafia: se per anni la latitanza del boss corleonese Bernardo Provenzano è stata in qualche maniera oggetto di "un'ibrida alleanza" tra carabinieri e quella cosiddetta "componente moderata e sempre più insofferente della linea dura imposta da Riina" (silenziosa e più dedita agli affari, ndr) è possibile che oggi anche la latitanza di Matteo Messina Denaro goda di "ibride alleanze" nell'interesse dello Stato?
Ovviamente la risposta è affermativa. A tal proposito vale la pena leggere il libro scritto da Marco Bova "Matteo Messina Denaro, latitante di Stato. Magistratura, forze dell’ordine, massoneria: tutta la verità sulle piste affossate" (ed.Ponte alle Grazie), con una prefazione di Paolo Mondani e la collaborazione e la cura di Simona Zecchi, giornalista investigativa e autrice di inchieste.
Scrivono i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Palermo che la scelta di "preservare la libertà di Provenzano", cioè di non arrestarlo, va interpretata.
Quell'azione, si legge, non avvenne perché ci furono collusioni o "patti" (promesse e benefici) da onorare ma perché i carabinieri del Ros ritenevano che la leadership di Provenzano "avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato".
Ed è così che la famosa mancata cattura del boss corleoense a Mezzojuso nel 1995 (dove i carabinieri seguirono le indicazioni dell'infiltrato Luigi Ilardo, in strettissima collaborazione con il colonnello Michele Riccio) sarebbe stata dettata da “indicibili ragioni di ‘interesse nazionale a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l'egemonia di Provenzano e della sua strategia dell'invisibilità o della 'sommersione', almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l'organizzazione. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso".  
Sporchi interessi che portarono alla morte proprio Ilardo, ucciso il 10 maggio 1996 poco prima di formalizzare la sua collaborazione con la giustizia, svelando proprio quei rapporti tra mafia e Stato.
Provenzano restò libero mentre altri fedelissimi di Totò Riina, ugualmente stragisti, vennero arrestati uno dopo l'altro. Tutti tranne uno, appunto: Matteo Messina Denaro. 
Perché il boss di Castelvetrano è rimasto libero nonostante, così come dicono le sentenze, sia uno dei responsabili delle stragi del 1992 (di recente è stato condannato all'ergastolo, ndr) e del 1993?
Forse perché proprio lui si è "adeguato" alle necessità di Stato, magari anche facendo valere quel suo essere a conoscenza dei segreti delle stragi.
Diabolik (uno dei suoi soprannomi) è al corrente delle verità nascoste dietro la strage di Pizzolungo, dalla Chiesa, Chinnici, Capaci, via d'Amelio, e di quelle in Continente (Firenze, Roma e Milano) perché è stato parte attiva di quel mondo.
Ed è normale che tutti questi segreti costituiscano, ancora oggi, un'arma di ricatto formidabile contro quello Stato che gli dà la caccia.
Gli analisti della Dia, nell'ultima relazione semestrale lo definiscono senza alcun dubbio come la "figura criminale più carismatica di Cosa Nostra e in particolare della mafia trapanese". 
Nonostante i numerosi arresti di fedelissimi, familiari e continui sequestri di beni (secondo le stime ad oggi sarebbero stati sequestrati beni per oltre 3,5 miliardi di euro, ndr), il boss trapanese continua ad essere libero e ad intrecciare importanti rapporti con soggetti di altissimo livello nell'ambito politico ed imprenditoriale e ad accumulare infinite ricchezze.
Al di là del malcontento di qualche affiliato, ad oggi, il superlatitante di Castelvetrano gode di “...un’attuale e segretissima rete di comunicazione...”, e anche al di fuori del contesto trapanese sarebbe, come riporta la Dia, “... in grado di assumere decisioni delicatissime per gli equilibri di potere in cosa nostra, nonostante la sua eccezionale capacità di eclissamento e invisibilità”. 
"Eclissamento" ed "invisibilità" che fanno rima con quell'idea di inabissamento di Cosa Nostra che fu stabilito durante la "reggenza" di Bernardo Provenzano. 
Un atteggiamento che veniva criticato da Riina, così come emerge dalle intercettazioni registrate mentre parlava nel carcere “Opera” di Milano, mentre passeggiava con la “dama di compagnia” Alberto Lorusso. 
Il capo dei capi esprimeva chiari segni di insofferenza nei suoi riguardi: “A me dispiace dirlo questo... questo signor Messina (Matteo Messina Denaro, ndr) questo che fa il latitante che fa questi pali eolici, i pali della luce, se la potrebbe mettere nel culo la luce ci farebbe più figura se la mettesse nel culo la luce e se lo illuminasse, ma per dire che questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa luce, fa pali per prendere soldi ma non si interessa...”.
In quei colloqui Riina parlava delle stragi compiute ma anche di quelle da compiere, indicando il bersaglio da colpire, ovvero il magistrato palermitano Nino Di Matteo. 
Di quell'attentato ha parlato il boss dell'Acquasanta Vito Galatolo indicando proprio Messina Denaro come il soggetto che diede l'ordine di eseguirlo, inviando delle lettere, su input esterni a Cosa Nostra. 
Di questo progetto di morte ci siamo occupati più volte in questi anni e proprio nell'analisi complessiva dei fatti emerge in maniera chiara come, malgrado le accuse di Riina, tra il boss corleonese e quello trapanese vi fosse una sostanziale volontà comune di uccidere Di Matteo. 
"La prima lettera me la porta Biondino (Girolamo, capomandamento di San Lorenzo e fratello del più noto Salvatore, autista storico di Totò Riina e depositario dei segreti del boss corleonese) e c'era anche Graziano e iniziava così: 'caro fratello, spero che tu stia bene' - ha raccontato Galatolo durante il processo sulla trattativa Stato-Mafia - Messina Denaro voleva indicarmi come capomandamento di Resuttana e Biondino per quello di San Lorenzo. Lì si accenna all'attentato, chiedendo la disponibilità dei mandamenti ad eseguirlo, ma non si spiegano i motivi. La prima lettera scritta in corsivo e la seconda lettera in stampatello. Nella seconda invece si spiegano i motivi dell'attentato, poi la strappammo subito. Dell'attentato, mi disse Biondino, non dovevamo parlare a nessuno perché ci avrebbero ammazzato pure i bambini”.
Dell'attentato a Di Matteo si parlò poi anche nella seconda lettera. “Qui si spiegò il motivo e c'era il riferimento ai processi. Si doveva dare un segnale che la mafia era sempre pronta a reagire allo Stato - ha detto Galatolo - anche qui si parlava in maniera affettuosa. Oltre all'attentato a Di Matteo si parlava di eliminare anche i due pentiti, “Manuzza”, Nino Giuffré, e Gaspare Spatuzza. Se accettavamo di fare l'attentato avremmo dovuto dire tutto a Mimmo (Biondino) che lui sapeva come organizzare. Biondino nello specifico si doveva occupare dell'esplosivo. C'erano da raccogliere dei soldi anche. Ed ogni mandamento doveva mettere due persone”.
A detta di Galatolo a chiedere a Messina Denaro di uccidere il magistrato sarebbero stati dei mandanti esterni, "gli stessi di Borsellino".
Quel progetto di morte, forse anche grazie alle parole dell'ex boss dell'Acquasanta non è stato ancora eseguito ma, come hanno scritto i magistrati nisseni nella richiesta di archiviazione delle indagini, si tratta di un progetto di attentato "ancora in corso".
Ciò sta a significare che l'anima stragista della mafia è tutt'altro che sopita ed anzi è sempre pronta a riemergere in accordo con quel Sistema criminale che ha voluto e cooperato nella realizzazione di stragi e delitti eccellenti. 
Resta da capire perché una figura come Matteo Messina Denaro, attuale vertice di Cosa nostra, nel pieno della sua latitanza possa decidere di ritornare a quella strategia stragista chiedendo ai palermitani di adoperarsi.
La risposta forse è in un "nuovo patto" stabilito con le istituzioni perché, è certo, il boss gode tutt'oggi di una fortissima protezione.
Nel gennaio 2017, il magistrato Teresa Principato, oggi alla Procura nazionale antimafia, quando era procuratore aggiunto a Palermo diede a lungo la caccia al boss trapanese, spiegò in Commissione antimafia che "Messina Denaro è protetto da una rete massonica".
Ma forse c'è molto di più. E rivengono alla mente quegli interessi di Stato di cui parla la sentenza d'appello Stato-mafia ed i metodi utilizzati per favorire la latitanza "in modo soft" di Provenzano. 
A trent'anni dalle stragi cresce l'amarezza. Siamo nel tempo in cui anche le trattative "improvvide" vengono giustificate e in cui la politica marcia nel suo animo, evita di inserire scientemente e volutamente nei propri programmi politici la lotta alla mafia ai primi punti. E' il tradimento più grande che viene fatto al sacrificio dei martiri, alla sete di giustizia dei loro familiari e al diritto alla verità che tutti noi, come popolo, abbiamo. 

Rielaborazione grafica by Paolo Bassani

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