di Giorgio Bongiovanni
Colpevoli, ma tutti assolti!
Non stiamo a girare intorno ai cavilli da "azzeccagarbugli" con cui si cerca di tradurre terminologie giuridiche come "il fatto non costituisce reato" o "non ha commesso il fatto" con cui quasi un anno fa sono stati assolti dalla Corte d'Assise d'Appello di Palermo gli imputati istituzionali del processo trattativa Stato-mafia.
Sulle motivazioni della sentenza, depositata in un sabato di questa calda estate, abbiamo già pubblicato in questo giornale autorevoli commenti come quelli del consigliere togato Nino Di Matteo, i giornalisti Saverio Lodato, Lorenzo Baldo, Aaron Pettinari ed altri colleghi.
La trattativa ci fu, ma non è reato. E l'attentato a corpo politico dello Stato è reato riconosciuto, di fatto, solo per i mafiosi che, con le bombe del 1992-1993, avevano voluto piegare lo Stato.
Nel mezzo, però, ci sono stati dialoghi e accordi, alcuni dei quali persino riconosciuti come provati dagli stessi giudici della Sentenza.
Lo ha spiegato bene Saverio Lodato, elencando i fatti: “Cosa hanno scritto i giudici? Che la trattativa ci fu. Che Totò Riina ne fu dominuse partecipe. Che Mori e De Donno cercarono Vito Ciancimino per interloquire proprio con Riina dopo la strage di Capaci.
Che i due carabinieri coltivavano in solitudine l’ambizioso progetto di salvare l’Italia da altre stragi.
Che non obbedirono agli ordini di nessun uomo politico meno che mai esponente delle istituzioni.
Che non fecero quello che fecero per favorire la mafia. Dunque, assolti.
Il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro barbaramente assassinati su via Isidoro Carini a Palermo il 3 settembre 1982
Ma la sentenza, che pone le fondamenta del Nuovo Mondo, si spinge ancora più in là.
Con molta audacia, oseremmo dire.
Quando mette nero su bianco che Mori non ordinò la perquisizione del covo di Riina in via Bernini per lanciare un segnale di pace con Bernardo Provenzano che in quel momento era latitante.
Quando mette nero su bianco che Mori rallentò, per quanto in suo potere, la cattura sia di Provenzano, sia di Nitto Santapaola.
Troppa grazia, persino per lo stesso Mori che negli anni passati si era ritrovato assolto in quasi una mezza dozzina di processi sugli stessi argomenti. Mori, quasi per pudore, aveva negato tutti gli addebiti. Ma la Corte oggi sembra certificare che è sempre meglio dire la verità... Tanto si finisce comunque assolti”.
Ed allora è chiaro che, come ha scritto Lorenzo Baldo"la sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Palermo è a dir poco in sintonia con lo status di un Paese allo sfascio come il nostro. Un Paese nel quale da sempre viene negata la verità sulle stragi di Stato. Che non vuole processare se stesso. Che ostacola - fino alle estreme conseguenze - chi osa cercare quella verità, chi si azzarda ad aprire gli armadi della vergogna".
L'unica risposta che riusciamo a trovare di fronte ad uno Stato traditore che accetta di trattare con quella mafia che ha polverizzato, trucidato ed ucciso i suoi martiri è che siamo in uno Stato-mafia.
Il corpo assassinato dell'allora vice capo della Mobile di Palermo, Ninì Cassarà, accasciato accanto a sua moglie Laura il 6 agosto 1985
Un Paese infestato di mafia nei suoi gangli, a livello culturale, etico, sociale, economico e di pensiero.
E' inaccettabile vivere in un Paese che porti avanti "interessi di Stato" di fatto alleandosi con il boss stragista Bernardo Provenzano, garantendone una longeva latitanza, così come oggi magari avviene per l'altro stragista, Matteo Messina Denaro.
E' inaccettabile anche solo l'ipotesi di una, come scrive la sentenza del giudice Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania) "sollecitazione rivolta alla componente moderata a cooperare al ripristino di un clima di non belligeranza o di conflittualità sostenibile con le Istituzioni: un clima che lasciava intravedere, in prospettiva, la possibilità di un allentamento dell'azione repressiva dello Stato e di modifiche anche del quadro normativo; e, nell'immediato, un occhio di riguardo nello svolgimento delle indagini che investissero gli esponenti mafiosi disponibili a cooperare a quel progetto, o i loro affari".
Ad oggi, di fronte ad una Politica silente ed assente, pur non condividendo nulla o quasi del Movimento Cinque Stelle, dobbiamo dare atto che il Presidente Giuseppe Conte è stato, con una lettera al Fatto Quotidiano, l'unico leader politico che ha commentato con senso e discernimento la sentenza.
"D'ora in poi - ha affermato - se alcuni ufficiali o funzionari di apparati dello Stato, ispirati dall'obiettivo pur lodevole di evitare nuove attività criminali particolarmente efferate, dovessero intavolare negoziati con esponenti della criminalità organizzata, sarebbero pienamente giustificati e non punibili. Come si concilia la pretesa che rivolgiamo a imprenditori e negozianti di assumere un atteggiamento di massimo rigore nei confronti della mafia, se poi lasciamo liberi singoli ufficiali e funzionari dello Stato di venire a patti con i boss? Una classe politica non distratta da giochi di potere e balletti di poltrone dovrebbe rispondere a queste domande".
Come si è chiesto Saverio Lodato nel suo ultimo editoriale: "Cosa pensano di questa sentenza, che sembra giustificare l'alleanza dello Stato con la Mafia Buona contro la Mafia Cattiva, gli altri uomini politici?
Cosa ne pensano: Berlusconi, Salvini, Meloni, Letta, Calenda, Renzi, Bonino, Tabacci, Gelmini, Carfagna, Di Maio? Per far solo alcuni nomi.
Sin qui, non hanno detto una parola. Magari i loro rispettivi elettori sono interessati a conoscere il loro pensiero. Chissà".
Forse pensano esattamente ciò che in passato abbiamo sentito dire da politici come Pietro Lunardi (ministro di un Partito fondato da uomini della mafia, ndr), secondo cui "i problemi della mafia e della Camorra ci sono sempre stati e sempre ci saranno" per cui "bisogna convivere con questa realtà".
L'attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, mentre estraeva dall'auto il corpo assassinato di suo fratello, Piersanti, il 6 gennaio 1980 © Archivio Letizia Battaglia
Espressione che si ripete ormai da oltre centocinquant'anni di storia in cui la lotta alla mafia non viene mai messa ai primi punti dell'agenda politica. E chi promette di inserirla, tradisce i propri elettori.
Oggi voglio rivolgermi al Presidente Sergio Mattarella, perché forse, in quanto familiare vittima di mafia, può capire un tale sdegno.
Amo profondamente la nostra Costituzione.
Ma ci sono troppi uomini delle Istituzioni del passato e del presente che la stanno calpestando in ogni modo. Ed è anche così che lo Stato-mafia si rafforza.
In lei, Presidente Mattarella, ed in pochissimi altri uomini di Stato (tra questi quei magistrati che sono in prima linea e rischiano la vita, quei funzionari di polizia, dei carabinieri, della guardia di finanza che quotidianamente servono il Paese al servizio della collettività; gli uomini delle scorte che si sacrificano per proteggere, loro sì, le vite; e poi ancora pochissimi tra docenti, professori universitari e politici).
I corpi trucidati dell'Onorevole Pio La Torre e Rosario Di Salvo all'interno di una Fiat 131 mentre stavano raggiungendo la sede del partito Comunistra a Palermo il 30 aprile 1982
L'unica speranza sono i giovani, ma a loro devono essere dati i giusti strumenti per poter vivere con dignità e libertà in questo Paese.
Una libertà che non c'è se, in un complice silenzio, si giustifica l'esistenza dello Stato-mafia. In questo Stato traditore non si può più stare.
E forte è il desiderio di andarsene via.
Anche in un Paese lontano come l'Uruguay, da cittadino e residente, si può continuare a scrivere e far sentire la propria voce.
Mi verrebbe di chiederle, Presidente, di essere esule. Ma solo per amore per quei familiari che chiedono e pretendono la verità, per il popolo, per quei funzionari e uomini di Stato che si impegnano per cercare la verità, rimango.
Rimango qui anche se il desiderio di essere esule di una Patria che non sento più mia rimane forte.
In foto di copertina: i resti dei corpi delle vittime della strage di via D'Amelio coperti dai lenzuoli
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