di Giorgio Bongiovanni e Luca Grossi
"La trattativa fra pezzi dello Stato e Salvatore Riina ci fu" e quella interlocuzione con il boss corleonese venne cercata "subito dopo il sangue sparso con la strage di Capaci" da "esponenti dello Stato. Con buona pace di quelli che hanno continuato a parlare di una fantomatica trattativa e di teorema del pubblico ministero".
È questa l’analisi congiunta del consigliere togato al Csm Nino Di Matteo rilasciata in due interviste a "la Repubblica" e al "Fatto Quotidiano" in merito alla sentenza di secondo grado del processo Trattativa Stato-Mafia.
Ricordiamo che i giudici di secondo grado avevano disposto l'assoluzione dell'ex senatore Marcello Dell'Utri (“per non aver commesso il fatto”), dell'ex capo del Ros, il generale Mario Mori, del generale Antonio Subranni e dell'ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato, con la formula “il fatto non costituisce reato”. Inoltre, avevano anche ridotto la pena a 27 anni per il boss corleonese Leoluca Bagarella e confermato quella per il medico-boss Antonino Cinà. Con la sentenza di settembre, la Corte dunque ha ribaltato il giudizio del maggio 2018 con cui in primo grado (cinquemila pagine) erano stati condannati a 28 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, a 12 anni Dell'Utri, Mori, Subranni e Cinà.
Al di là del rilievo penale quindi la trattativa resta comunque un fatto. Ma, ha detto il magistrato a Giuseppe Lo Bianco, la sentenza potrebbe "essere letta come una legittimazione a dialogare con la mafia, che faccia passare l’idea che con la mafia si può convivere". A tal proposito Di Matteo ha ricordato "le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che l’anno scorso, alla commemorazione per la strage di Capaci, disse: 'Nessuna zona grigia, omertà, o si sta contro la mafia o si è complici dei mafiosi, non ci sono alternative'".
"Noi continueremo - ha continuato il consigliere togato - a pretendere che gli estorti denuncino i loro estorsori, io continuo a pensare che il comportamento di uno Stato che cerca Riina in nome di una ragione di stato non dichiarata con un atto del potere politico è inaccettabile in una democrazia. Ogni qualvolta lo Stato ha cercato il dialogo con la mafia ne ha accresciuto a dismisura un potere di ricatto notevolissimo. E c’è anche un altro passaggio che leggo con preoccupazione": cioè che in sentenza si è affermato un "principio che sembra giustificare la possibilità che si possa trattare con i vertici di Cosa nostra per favorire una fazione piuttosto che un’altra con il dichiarato intento di far cessare le stragi". Il riferimento è alla "opportunità, nella strategia del Ros, che prevalesse una fazione moderata (Provenzano ndr) su quella stragista (Salvatore Riinandr). Questo è un passaggio preoccupante, sembra quasi distinguere una mafia con cui si può dialogare e un’altra da sconfiggere".
Inoltre l'intento di far cessare le stragi tramite una trattativa è un argomento già trattato in una “sentenza ormai definitiva della corte di assise di Firenze" in cui "si affermava che quella iniziativa del Ros di contattare Vito Ciancimino avesse rafforzato in Riina il convincimento che la strategia di attacco alle istituzioni pagasse inducendolo a fare altre stragi".
Durante l'intervista a 'Repubblica' il magistrato ha parlato anche della mancata perquisizione del covo di Riina, argomento ripreso anche nella sentenza di secondo grado: "È ulteriormente inquietante che, come io e i miei colleghi avevamo sostenuto nel processo di primo grado, la mancata perquisizione nel covo di Riina (15 gennaio 1993 ndr) sia stato un segnale per incoraggiare il dialogo a distanza. E quindi per rafforzare la trattativa in corso". "Oggi - ha continuato Di Matteo sul 'Fatto' la sentenza sottolinea la gravità evidente dell’omissione di un atto doveroso da parte di una struttura di polizia giudiziaria". Di Matteo ha inoltre affermato che"anche questa corte riconosce la valenza dei rapporti mafiosi di Dell’Utri anche dopo il ’92" ma lo assolve "perché non ritiene sufficientemente provata la veicolazione (della minaccia ndr) a Berlusconi".
"Mi chiedo con preoccupazione cosa penserebbero oggi di quelle parole le decine di esponenti delle istituzioni, non solo magistrati, ma agenti di polizia, carabinieri, anche politici che nel contrasto alle cosche mafiose per il rifiuto al dialogo e al compromesso hanno perso la vita". "Alla luce di questa sentenza - ha aggiunto il magistrato - che non condivido, e che spero venga impugnata, sono fiero di avere insieme ai miei colleghi Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e prima Antonio Ingroia contribuito a fare emergere fatti storici ritenuti dai giudici provati, fatti che hanno attraversato la storia opaca e ancora in parte da chiarire dello stragismo mafioso nel nostro Paese".
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