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Al processo depistaggio il legale dei figli di Borsellino continua a mistificare i fatti con un solo obiettivo: colpire il magistrato

Ieri, davanti al Tribunale di Caltanissetta, era il giorno di repliche per il processo sul depistaggio della strage di via d'Amelio, che vede imputati i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di avere indottrinato il falso pentito Vincenzo Scarantino per accusare degli innocenti.
Prima è stata la volta della Procura con il pm Stefano Luciani, quindi è stata la volta delle parti civili.
Ed è qui che si è consumata l'ennesima ondata di mistificazioni e falsità volte a colpire e demolire un unico uomo: il magistrato Nino Di Matteo.
Un attacco diretto che è provenuto dall'avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Borsellino, che ieri ha anche sostituito la parte civile di Gaetano Murana, ovvero l'avvocato Rosalba Di Gregorio.
Se in passato, commentando l'arringa, avevamo solo pensato alla cattiva fede, oggi è chiaro ed evidente il livore che accompagna determinate considerazioni del legale.
In cinquantasei minuti di replica il nome di Nino Di Matteo è stato ripetuto quasi come un mantra.
E non è molto chiaro il motivo nel momento in cui le difese dei poliziotti, nelle arringhe, quando parlavano di "schizzi di fango" si riferivano in particolare a chi oggi non è più in vita come il Procuratore capo di allora, Gianni Tinebra, e l'ex capo della Squadra Mobile Arnaldo La Barbera. Su di loro, giustamente, non sono mancati gli appunti, ma è Di Matteo il "bersaglio grosso" da colpire.
E così ancora una volta si è tornati ad usare le dichiarazioni della riunione del 22 aprile 2009 davanti la Direzione nazionale antimafia, in cui i magistrati delle Procure di Firenze, Caltanissetta e Palermo erano stati convocati per una prima valutazione su quella collaborazione e per esprimere un parere sull’inserimento di Spatuzza nel programma di protezione.
Stavolta però sono state fatte considerazioni più infamanti, che il solito Riformista, quotidiano del “comunista” Piero Sansonetti, ha usato a proprio piacimento per colpire a sua volta il consigliere togato.


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Fabio Trizzino, avvocato dei figli di Paolo Borsellino



"La verità in questo paese è stata data a persone che a mio giudizio sono in conflitto di interessi. Il pm Antonino Di Matteo nel 2009 fece una dichiarazione sul collaboratore Spatuzza senza averne alcuna competenza - ha detto Trizzino - L'elemento incredibile è che in quell'anno Di Matteo da pm di Palermo non aveva alcuna competenza per entrare nei processi Borsellino uno e Borsellino bis, a meno che temesse qualcosa che potesse compromettere la sua carriera professionale. Bisogna avere il coraggio di dirle queste cose. Si doveva occupare di dare il proprio parere su Spatuzza? Cosa gli interessava del Borsellino uno e bis? Non è uno schizzo di fango al magistrato ma una analisi critica e non possiamo fare finta di niente. Solo perché uno fa il magistrato o il poliziotto non deve parlare? Non ci sto".
Nella replica si è nuovamente omesso che in quella riunione Di Matteo intervenne dando un momentaneo parere negativo al programma di protezione, solo perché ci si stava misurando con sentenze che comunque erano definitive.
Ed è stato gravemente taciuto che nel 2010 proprio Di Matteo si espose in più sedi proprio per difendere e promuovere il programma di protezione e l'attendibilità di Spatuzza, nel momento in cui la Commissione centrale del Viminale per la definizione e applicazione delle misure speciali di protezione, allora presieduta da Alfredo Mantovano, non stava ammettendo Spatuzza nel programma di protezione definitivo.
Se fosse stato responsabile del depistaggio si sarebbe opposto a Spatuzza in ogni sede. Così non è stato.
Perché la storia va raccontata per intero ed è ovvio che per i denigratori di Di Matteo è sconveniente parlare di certi argomenti.
Il direttore de "Il Riformista" Piero Sansonetti ne ha subito approfittato anche per tirare in ballo il processo trattativa Stato-mafia per poi chiedere addirittura un intervento del Csm. "C’è un pezzo di magistratura che ha scommesso tutta la propria credibilità e la propria carriera sull'ipotesi della trattativa stato mafia, ipotesi in contrasto con altre ipotesi, che erano quelle giuste, che però erano state oscurate dal depistaggio". E poi ancora ha aggiunto in un altro passaggio: "Lo stesso Csm può far finta che le parole di Trizzino non siano mai state pronunciate? La logica dice che o si dimostra che non è vero che Di Matteo chiese di levare la protezione a Spatuzza, e allora che Trizzino ha detto cose non vere, oppure occorre intervenire". La storia, raccontata per intero, ha già risposto sul punto. Dimostrando che Trizzino racconta il falso.
Ma tutto è utile per denigrare il magistrato ed il processo scomodo di cui attendiamo tutti di leggere le motivazioni della sentenza.
Al momento sappiamo solo che i fatti, cioè la trattativa, c'è stata e che gli unici che hanno commesso il reato di attentato a corpo politico dello Stato sarebbero stati i mafiosi. Capiremo il perché la Corte d'Assise d'Appello di Palermo ha assolto, diversamente dal primo grado, i rappresentanti istituzionali.


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Il consigliere togato del Csm, Nino Di Matteo © Deb Photo


Torniamo però alle repliche dell'avvocato dei figli di Borsellino. Perché se da una parte sull'Agenda Rossa di Borsellino ha correttamente bacchettato i difensori dei poliziotti, che si erano appellati alla sentenza della Cassazione del 2009, in cui si dichiara inammissibile il ricorso della Procura di Caltanissetta dopo il "non luogo a procedere" contro l'allora capitano Arcangioli, finito sotto accusa per il furto dell'Agenda, in cui viene messo in dubbio l'esistenza del documento, dall'altra ecco che è caduto nella solita ricostruzione maligna dei fatti.
Ed è sempre Di Matteo, in maniera sprezzante, a finire nel mirino: "Le indagini sulla scomparsa dell'agenda, mirate, si fanno nel 2006. Anche se la signora Agnese ne parla nel marzo 1995. Tutti fanno finta di niente. Il dottore Di Matteo dice che dell'agenda rossa si sono occupati quando si è riaperto il procedimento nei confronti di Contrada. Non è vero. Ricorda male. Era Canale che insisteva su quell'aspetto. Il procedimento su Contrada era incentrato sulla presenza di Contrada in via d'Amelio. Altro depistaggio fondamentale su cui andrebbero fatti i dovuti approfondimenti perché Contrada viene messo lì, ma non è lì e riesce a dimostrarlo. Ma non è vero che si occuparono dell'agenda rossa, la prima indagine la fa il pm Liguori. E non ci vengano a raccontare altro".
Ma cosa spiegò Di Matteo alla Corte quando fu sentito nel febbraio 2020?
Il magistrato raccontò proprio i motivi che portarono alla riapertura delle indagini su Contrada.
"Fu aperta un'indagine molto spinta sui Servizi Segreti - spiegò Di Matteo - Fui io a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell'attentato con una borsa, o dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende". "Vedendo quegli atti mi accorsi che c'era stato un ufficiale del Ros, Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l'esplosione aveva constatato la presenza di Contrada. E raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio e che poi sarebbe stata strappata in Questura - spiegò ancora -. Quel che mi fece trasalire è che quando fu sentito dalla collega Boccassini, nel 1992, mise a verbale quella circostanza dicendo di averlo saputo da un suo amico carissimo, non un confidente, di cui voleva tutelare l'identità. Andai a interrogarlo e ribadì le medesime parole. Quando io stavo per chiedere il rinvio a giudizio del carabiniere lui venne in Procura e depositò una memoria della quale avrebbe parlato con il colonnello Mori, facendo il nome della sua fonte: il funzionario di polizia Roberto Di Legami. Ricordo anche il momento dei confronti che fu drammatico. Di Legami negò tutto, fu anche rinviato a giudizio perché avevamo due militari contro uno. Dell'esito di quel processo appresi successivamente, quando già ero a Palermo e seppi che il funzionario fu assolto". E' nell'ambito di quelle indagini che, di fatto, si apriva il filone investigativo sull'agenda rossa prima ancora del rinvenimento della fotografia del capitano Arcangioli: "Il mio impegno - spiegò Di Matteo - era finalizzato a capire per mano di chi fosse sparita. Abbiamo fatto il possibile per accertarlo, anche scontrandoci con reticenze bestiali sulla presenza di esponenti delle istituzioni nel luogo dell’attentato. Da qui sarei voluto ripartire per tante altre cose".


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Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi © Imagoeconomica


Alfa e Beta (Berlusconi e Dell'Utri)
Del resto sempre Di Matteo, assieme a Luca Tescaroli, si era occupato delle indagini su Alfa e Beta, ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, indagati come mandanti esterni alle stragi. Un'inchiesta che traeva origine dalle dichiarazioni di Cancemi e che incontrò delle fortissime opposizioni. "Resistenze o no, io e i colleghi siamo andati avanti per la nostra strada - riferì Di Matteo in più occasioni - Sulle indagini su Contrada e la eventuale presenza di personaggi dei servizi nessuno mi disse mai nulla. Le indagini le facevamo noi e nessuno mi pose mai un freno. Per quanto riguarda invece i mandanti esterni alle stragi e il coinvolgimento di Berlusconi e Dell'Utri fu diverso: ci fu una riunione della Dda e fu imbarazzante. Già si sapeva che la riunione era stata convocata per valutare l'eventuale iscrizione di Berlusconi e Dell'Utri nel registro degli indagati. Il procuratore di allora Giovanni Tinebra dopo una lunga e animata discussione diede l'ok anche se non era d'accordo, ma disse anche che dovevamo procedere con nomi di fantasia e che lui non avrebbe sottoscritto nessun atto. Certamente nelle indagini sui mandanti esterni non ci fu vicino. Posso dire che può essere questo un modo di non sostenere e non partecipare, prendendo le distanze all'interno e all'esterno. Quando chiedevamo accertamenti alla Dia di Roma e alle altre Procure partivano le deleghe ma le sole firme erano la mia e quella del collega Tescaroli, ovvero di due sostituti. E questo certo non deponeva bene a favore dell'indagine".
E' noto che poi l'indagine su Berlusconi e Dell'Utri fu archiviata. Certo è che le indagini sui mandanti esterni sono in qualche maniera andate avanti anche con l'impegno di più procure italiane. Di queste indagini, del resto, Di Matteo si stava occupando alla Procura nazionale antimafia, prima di essere illogicamente estromesso dal Procuratore capo di allora Federico Cafiero de Raho, per poi essere reintegrato nel pool stragi il 23 settembre 2020 con “effetto immediatamente ripristinatorio”.


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Vincenzo Scarantino in uno scatto d'archivio


Proprio alla luce di questo costante impegno nella ricerca della verità e dei mandanti a volto coperto di quella terribile stagione di attentati si evince la differenza tra chi può essere responsabile del depistaggio, che certamente ha avuto luogo, o meno.
Ma Trizzino, con disonestà intellettuale, non sembra voler mai tener conto di questi elementi. Così dapprima ha parlato di "inesperienza" ed "incapacità professionale" poi ha alluso a qualcosa di ben peggiore.
Così ancora una volta si è parlato del ritardato deposito dei confronti tra Vincenzo Scarantino ed i collaboratori di giustizia Mario Santo Di Matteo, Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera che non furono immediatamente depositati.
Si è detto della trafila di denunce e contro denunce tra i pm e gli avvocati, Di Gregorio, Scozzola e Marasà nonostante il Gip di Catania, che archiviò l'inchiesta sugli allora sostituti procuratori di Caltanissetta, denunciati da parte di tre legali, valutò l'operato dei pm come privo di "comportamento omissivo".
Ormai l'intento dei figli di Borsellino, in particolare la dott.ssa Fiammetta Borsellino, e di Trizzino, è chiaramente quello di puntare il dito a priori contro il magistrato. Ed anche per questo viene ripresa la parte della sentenza del Borsellino ter, laddove si dice che Scarantino non può essere assolutamente preso in considerazione.
Ma non si sottolinea che proprio i pm Antonino Di Matteo ed Anna Maria Palma decisero di non far entrare nel processo il "picciotto" della Guadagna.
Carmelo Zuccaro, al tempo Presidente della Corte d'Assise ed oggi Procuratore capo a Catania, da noi intervistato qualche anno addietro disse in maniera chiara di non credere che "a Di Matteo si possano rimproverare errori importanti in questa vicenda" e che la "'costruzione' della falsa collaborazione dello Scarantino” fosse “espressione di gravi scorrettezze poste in essere da taluni investigatori per ottenere con mezzi illeciti dei risultati immediati nell'individuazione di alcuni dei responsabili della strage di via d'Amelio”.
Sempre sul punto si tralasciano le considerazioni del Borsellino quater che hanno messo in evidenza tutti i punti di contatto tra il dichiarato del falso pentito Scarantino e quello del collaboratore di giustizia di Brancaccio, Gaspare Spatuzza.


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L'ex boss di Brancaccio, oggi collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza


Il falso mescolato assieme a un po' di vero
Proprio la Corte d'Assise del processo Borsellino quater (presidente Antonio Balsamo) in primo grado aveva dedicato una cospicua parte delle motivazioni a quelle dichiarazioni dello Scarantino che, "pur essendo sicuramente inattendibili, contengono elementi di verità". "Sin dal primo interrogatorio reso dopo la manifestazione della sua volontà di 'collaborare' con la giustizia, in data 24 giugno 1994 - avevano scritto i giudici - lo Scarantino ha affermato che l’autovettura era stata rubata mediante la rottura del bloccasterzo, e ha menzionato l’avvenuta sostituzione delle targhe del veicolo. Nel successivo interrogatorio del 29 giugno 1994 egli ha specificato che, essendo stato rotto il bloccasterzo dell’autovettura, il contatto veniva stabilito collegando tra loro i fili dell'accensione. Nelle sue successive deposizioni, lo Scarantino ha sostenuto che la Fiat 126 era stata spinta al fine di entrare nella carrozzeria (circostanza, questa, che presuppone logicamente la presenza di problemi meccanici tali da determinare la necessità di trainare il veicolo). Egli, inoltre, ha aggiunto di avere appreso che sull’autovettura erano state applicate le targhe di un’altra Fiat 126, prelevate dall’autocarrozzeria dello stesso Orofino, e che quest’ultimo aveva presentato nel lunedì successivo alla strage la relativa denuncia di furto". Ebbene tutte queste circostanze sono "del tutto corrispondenti al vero ed estranee al personale patrimonio conoscitivo dello Scarantino, il quale non è stato mai coinvolto nelle attività relative al furto, al trasporto, alla custodia e alla preparazione dell’autovettura utilizzata per la strage". Queste circostanze, che saranno anche raccontate da Gaspare Spatuzza (l'ex boss di Brancaccio che si è autoaccusato del furto dell'auto, ndr), come potevano essere note dai cosiddetti suggeritori? Secondo i giudici "E’ del tutto logico ritenere che tali circostanze siano state a lui suggerite da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte".
Per questo motivo, dunque, si può giungere alla conclusione che le dichiarazioni di Scarantino non erano totalmente da buttare nella sostanza.


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L'ingresso di Salvatore "Totò" Riina nell'aula bunker del carcere Ucciardone © Shobha


Ciò che non si dice
Tornando al processo sul depistaggio e le false accuse mosse contro i magistrati, non si dice quasi mai che furono gli stessi pm di allora, Nino Di Matteo e Anna Maria Palma per alcuni degli ingiustamente condannati, a chiedere ed ottenere le assoluzioni per il delitto di concorso in strage. Parliamo di Giuseppe Calascibetta, Gaetano Murana e Antonino Gambino. Soggetti poi condannati in successivi gradi di giudizio. Si preferisce solo evidenziare che fu chiesta la condanna nei confronti di Vernengo, di La Mattina e di Gaetano Scotto oltre che di Natale Gambino.
E spesso si dimentica che i processi istruiti da Di Matteo sulle stragi hanno portato alla condanna definitiva di decine e decine di capomafia della Cupola di Cosa nostra tra i quali Riina, Provenzano, Santapaola, Biondino ed altri. Con sentenze e condanne mai messe in discussione e non interessate dal processo di revisione.
Trizzino, che accusa i magistrati di aver "difeso pervicacemente il depistaggio”, ha sostenuto di essersi limitato “a dati di fatto assolutamente incontestabili". Altrettanti dati di fatto sono stati sistematicamente boicottati o non considerati nelle sue ricostruzioni, dimostrandone la non buona fede.
Di Matteo viene tirato assurdamente in ballo anche quando lo stesso non è mai stato neanche indagato dalla Procura di Messina (che per competenza ha condotto l'inchiesta sui magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia. Un'indagine archiviata dal Gip in quanto venivano considerati "insussistenti gli elementi probatori certi e univoci tali da consentire la sostenibilità in un eventuale futuro dibattimento dell'accusa di calunnia a carico degli indagati".
In questi anni è stato chiarito di fronte più sedi (Commissione parlamentare antimafia, Csm, processo Borsellino quater ed anche in questo processo), carte alla mano, dallo stesso Di Matteo come fu valutata la vicenda Scarantino.
Ma l'attacco nei confronti del magistrato, la costante delegittimazione e denigrazione è proseguita in maniera costante.
A questo punto è evidente che vi è un altro scopo che supera la ricerca della verità.
Mentre risentimento ed accanimento pervadono mente e cuore del legale rappresentante dei figli di Borsellino, a godere sono le solite menti raffinatissime. Quelle stesse che non vogliono che magistrati come Nino Di Matteo indaghino su stragi, sistemi criminali e trattative Stato-mafia.
Una ricerca della verità sui generis da parte dell'avvocato Trizzino, e di eventuali suggeritori, che non potrà mai essere possibile e concreta se si è accecati da quei personalissimi desideri di vendetta per qualcosa che non ha a che fare né con la strage di via d'Amelio né con il caso Scarantino.
Un grande filosofo e saggio disse: “La vendetta e il fanatismo sono credere in ciò che non esiste”.

In foto di copertina: un momento del processo sul depistaggio della strage di via d'Amelio (foto tratta da blogsicilia.it)

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