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di Giorgio Bongiovanni

C'era da aspettarselo. Nei giorni successivi alla sentenza d'Appello sulla trattativa Stato-mafia, radio, tv e “giornaloni” hanno dato voce e fiato alla solita pletora di negazionisti e giustificazionisti, sempre in prima fila per sostenere le ragioni degli imputati eccellenti (da Mori a Dell'Utri, passando per i vari Subranni, De Donno, Mancino e Mannino).
E si sta facendo la “gara” a chi tira la bordata più grande contro il processo.
Nel mirino ci sono i pm di primo grado, su tutti Antonio Ingroia, oggi avvocato, e Nino Di Matteo, consigliere togato del Csm, che assieme agli altri membri del pool hanno “osato” istruire processi contro gli alti livelli di mafia e Stato per far luce su una vicenda scabrosa per il potere di ieri e di oggi quando, durante le stragi, ha avuto luogo un dialogo tra pezzi delle istituzioni e i boss.
Magistrati immancabilmente presi di mira. E al contempo si attacca quella stampa libera (la nostra testata di ANTIMAFIADuemila ha cercato di dare un suo piccolo contributo raccontando l'intera evoluzione delle indagini e dei processi) che in questi anni non si è accontentata delle versioni precostituite o giuridiche, appoggiando quella ricerca della verità, senza se e senza ma.
Sembra di essere tornati indietro di secoli, ai tempi della rivoluzione francese.
Nel XVIII secolo c'erano i libellisti (una sorta di “giornalisti del tempo”) pagati profumatamente da Re e Cardinali per scagliarsi contro e screditare quei pensatori illuministi e filosofi che, come Voltaire, stavano portando avanti una vera e propria rivoluzione culturale e filosofica.
Lo stesso oscurantismo che nel XVII colpì Giordano Bruno, tra i tanti, colui che determinò una vera e propria rivoluzione copernicana, inneggiando alla libertà di pensiero e alla giustizia contro una Chiesa già corrotta dal potere, e che, prima di essere arrestato, processato e condannato al rogo, finì nel mirino degli “pseudo giornalisti” di allora.
Ecco quella dei libellisti, servi del potere, è una categoria che sembra non avere mai fine.
Oggi come allora, scrivono per mestiere menzogne volte a ridicolizzare e perseguitare personaggi sgraditi al potere.
E la sensazione che si ha nel leggere ed ascoltare i commenti di certi squallidi personaggi è alquanto sgradevole. Perché anziché rispondere nel merito dei fatti, preferiscono dar spazio al dileggio e all'insulto, senza neanche misurarsi con sentenze passate in giudicato che lasciano intravedere proprio ciò che il processo Stato-mafia di Palermo aveva messo in luce.
Certo, non ci si può meravigliare dei vari Facci, Sallusti, Sottile, Porro e altri mercenari di turno, da tempo al servizio del “Re” e vicini a quell'universo di centrodestra che oggi a gran voce spinge per avere Silvio Berlusconi (un pregiudicato) come Presidente della Repubblica.
Da Libero a Il Foglio, da La Verità a Il Giornale, tutti questi quotidiani servi del potere sono “risorti”, dopo aver innalzato un “muro di gomma” sulle 5000 pagine con cui i giudici di primo grado avevano messo in fila una serie di fatti che non appartengono al passato, ma continuano a ripercuotersi pesantemente anche nel tempo presente, alla luce della sentenza d'appello sono tornati a riproporre una rappresentazione mediatica dell'assurdo, fatta di travisamenti, falsità e nascondimento dei fatti.
Una campagna a cui si affianca anche l'impegno di quei giornalisti, un tempo “comunisti”, come Tiziana Maiolo o Piero Sansonetti che su “Il Riformista” arrivano addirittura a proporre Mario Mori come senatore a vita.
Un'idea subito sposata persino dal leader della Lega, Matteo Salvini. Un partito che ai suoi albori seguiva il progetto federalista dell'ideologo Gianfranco Miglio, che proponeva la suddivisione del Paese in tre aree geografiche con caratteristiche di sviluppo omogenee, Nord-Centro e Sud, così come avrebbero voluto anche le organizzazioni criminali che nei primi anni Novanta si stavano organizzando creando dei movimenti indipendentisti come Sicilia Libera.
Lo stesso Miglio che in un'intervista a “Il Giornale arrivò ad affermare che "non tutto era male di quello che ruotava attorno alle mafie. E che quasi quasi era il caso che alcuni aspetti andassero costituzionalizzati”.
Tornando a “Il Riformista” certo, non c'era bisogno di leggere il quotidiano di questi giorni per sapere come Sansonetti la pensasse su certi temi. E' uno di quelli che sostenne apertamente che "la trattativa Stato-mafia fu sacrosanta" perché "salvò vite umane" nonostante sia un dato di fatto che dopo quel dialogo, avviato tra i carabinieri del Ros ed il sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, non furono salvate vite, anzi, morirono vittime innocenti con gli attentati di via d'Amelio, Firenze, Milano e in Calabria.
Il dipinto di Mario Mori come “eroe del terzo millennio” viene ormai proposto da ogni luogo nonostante le stesse sentenze di assoluzione rimarchino delle gravissime responsabilità su certe azioni che si sono consumate, sia rispetto alla mancata perquisizione del covo di Totò Riina, che per il mancato blitz a Mezzojuso, dove si nascondeva Bernardo Provenzano, nel 1995.


luigi XIV corte francese galleria specchi wikipedia


Quale eroe?
Anche in questi due casi fu assolto “perché il fatto non costituisce reato”. Eppure nella sentenza per la mancata perquisizione del covo di Riina, la Corte non fu per niente leggera nell'analisi della sua condotta, ritenendo la sussistenza di una erronea valutazione degli spazi di intervento da parte degli imputati (Mario Mori e Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo) e di gravi responsabilità disciplinari per il fatto di non aver comunicato alla Procura di Caselli la propria scelta di sospendere la sorveglianza, sancendo che l'omessa perquisizione del covo del capo di Cosa Nostra e l'abbandono del luogo fino a quel momento sorvegliato “hanno comportato il rischio di devianza delle indagini, che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato, stando alle manifestazioni di sollievo e di gioia manifestate da Bernardo Provenzano e da Benedetto Spera”.
Anche la Corte d'Appello di Palermo, nell'altro processo che lo vedeva imputato assieme a Mauro Obinu, non fu leggera sull'operato dei due ufficiali.
“Rimane davvero inspiegabile - né gli imputati lo hanno spiegato in qualche modo - perché tutte le attività di indagine susseguenti all'incontro di Mezzojuso furono compiute in modo tardivo, non coordinato e soprattutto burocratico, mediante l'invio di note a vari reparti, che fino a quel momento erano rimasti estranei alle indagini, assolutamente burocratiche e, soprattutto senza che da parte degli imputati fosse dedicata l'attenzione che la particolare delicatezza del caso senza ombra di dubbio richiedeva. […] La scelta investigativa, discutibile ed in definitiva rivelatasi vana e dunque errata, di puntare tutto solo sulla prospettiva di un nuovo incontro dell'Ilardo con il Provenzano, l'approccio sostanzialmente burocratico e sicuramente censurabile sul piano della solerzia investigativa nelle indagini per l'identificazione dei due favoreggiatori del Provenzano indicati dall'Ilardo, ed infine il ritardo con cui il rapporto 'Grande Oriente' è stato inoltrato alla competente Procura, risultano indubbiamente essere condotte 'astrattamente idonee a compromettere il buon esito di un'operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Bernardo Provenzano'”.
E' tutto scritto nero su bianco, ma questo è il Paese dalla memoria corta dove le motivazioni delle sentenze vengono scientemente taciute al grande pubblico, anche quando sconvenienti (la sentenza Andreotti docet).
E fa ancor più male e rabbia constatare che anche alcuni parenti di vittime di mafia, per cui si prova rammarico e pena pur restando il rispetto per il grande dolore che hanno subito, si lasciano coinvolgere dai mercenari in questo vortice negazionista.
Così facendo dimostrano di non avere discernimento. Un errore grave che espone ed isola quei pochi magistrati che vogliono davvero raggiungere la verità sui mandanti esterni delle stragi.
Ma questo è un mondo alla rovescia.
Per fortuna c'è anche chi con coraggio, come Salvatore Borsellino e Luciano Traina (fratello di Claudio, uno degli agenti di scorta trucidati in via d'Amelio), ha espresso la propria indignazione per una sentenza che rende impuniti i solidi potenti.
E' il mondo in cui, come scriveva Giorgio Gaber, “il falso è quello che credono tutti è il racconto mascherato dei fatti il falso è misterioso e assai più oscuro se è mescolato insieme a un po' di vero”.
E sulla trattativa il “racconto mascherato” sta nella sua negazione. I giornaloni e gli opinionisti lo fanno con forza sapendo di mentire. Perché dalla lettura del dispositivo della sentenza del giudice Pellino è chiaro che la trattativa c'è stata, ma è reato solo per i mafiosi.
Eppure solo pochi giornali hanno evidenziato il dato, ricordando che i fatti restano fatti.
E certa stampa fa finta di ignorare le parole dello stesso Mori al processo sulle stragi del 1993. “Ma signor Ciancimino, ma cos'è questa storia qua? - aveva raccontato il generale - Ormai c'è muro, contromuro. Da una parte c'è Cosa Nostra, dall'altra parte c'è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente? La buttai lì convinto che lui dicesse: 'cosa vuole da me colonnello?' Invece dice: 'ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo'. E allora restammo... dissi: 'allora provi'. E finì così il secondo incontro, per sintesi ovviamente”. (…) “Lui capì a modo suo, fece finta di capire e comunque andò avanti. E restammo d'accordo che volevamo sviluppare questa trattativa”.
Basterebbero queste parole per condannare sul piano etico quella sporca operazione di dialogo con la mafia.
Toccherà ai giudici di appello spiegarci come sia stato possibile condannare i boss e gli ufficiali dell'arma no. E se ne dovranno assumere la responsabilità di fronte alla storia.


ricev versailles dopo battaglia seneffe luigi XIV wikipedia


Dell'Utri uomo della mafia
Un'altra assoluta castroneria l'abbiamo sentita raccontare dai libellisti di turno anche sul conto dell'ex senatore Marcello Dell'Utri, divenuto santo dopo questa assoluzione, nonostante una sentenza definitiva dica che lo stesso può essere considerato come un uomo della mafia in quanto condannato per concorso esterno in associazione mafiosa a 7 anni (pena scontata).
Perché il giudizio di giovedì, su un altro reato, non cancella affatto il precedente, come vorrebbero far credere alcuni avvocati parlando dei propri clienti.
Anche loro mentono sapendo di mentire.
Noi non dimentichiamo che Dell'Utri per diciotto anni, dal 1974 al 1992, è stato il garante “decisivo” dell'accordo tra Berlusconi e Cosa nostra con un ruolo di “rilievo per entrambe le parti: l’associazione mafiosa, che traeva un costante canale di significativo arricchimento; l’imprenditore Berlusconi, interessato a preservare la sua sfera di sicurezza personale ed economica”. Inoltre nelle motivazioni della sentenza viene sottolineato come Silvio Berlusconi pagasse la mafia. E' scritto nero su bianco che “la sistematicità nell'erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell'Utri a Cinà (Gaetano Cinà, boss mafioso, ndr) sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all'accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”.
Sono sempre i giudici della Suprema corte a parlare, più che di una polizia privata assunta per proteggere sé e la sua famiglia, di un “patto di protezione andato avanti senza interruzioni”. Dell’Utri era il garante per “la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa, in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore”.
Tutto questo però i libellisti del Re lo hanno volutamente omesso.
Così come mai si ricorda l'indagine, con l'accusa di favoreggiamento nell'ambito del depistaggio delle indagini sul delitto di Peppino Impastato, archiviata per prescrizione nei confronti del generale Antonio Subranni. Secondo il Gip dietro a quella prima inchiesta sulla morte del militante di Democrazia proletaria, assassinato a Cinisi il 9 maggio 1978, vi fu “un contesto di gravi omissioni ed evidenti anomalie investigative". Ed in quel contesto “aprioristicamente, incomprensibilmente, ingiustificatamente e frettolosamente escluse la pista mafiosa”. Una vicenda opaca anche secondo la Commissione parlamentare antimafia presieduta da Beppe Lumia che nella relazione conclusiva scriveva: "Giuseppe Impastato sfidò la mafia in un territorio in cui si era stabilito un sistema di relazioni tra segmenti degli apparati dello Stato e mafiosi molto potenti. Un sistema di relazioni che, in quegli anni, può essere rinvenuto anche in altri territori, teso, spesso illusoriamente, alla cattura, per via confidenziale, di alcuni capimafia, all’apporto che queste relazioni potevano dare ad alcuni filoni di indagine o, comunque, ad una pacifica convivenza per un tranquillo controllo della zona”.
Ma tutto questo ai nuovi libellisti, servi del Re, non interessa. Molto meglio mentire e manipolare od omettere.
E' iniziata una nuova stagione oscurantista.
Come ha scritto il nostro vice-direttore Lorenzo Baldo probabilmente questo è il tempo narrato in quel vecchio proverbio arabo in cui si dice che “sui cadaveri dei leoni festeggiano i cani credendo di aver vinto. Ma i leoni rimangono leoni e i cani rimangono cani”.
Un tempo che non durerà a lungo.
Nino Di Matteo, gli altri pm che componevano il pool di Palermo (Antonio Ingroia, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) o ancora magistrati come Giuseppe Lombardo, Luca Tescaroli, Roberto Scarpinato, Sebastiano Ardita, Nicola Gratteri, Domenico Gozzo ed altri, sono come gli “eretici” che il Sistema criminale vuole eliminare perché hanno l'ardire di credere che “tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge”.
E' quella la stella polare per tutti quei magistrati che non hanno timore di scoprire anche le verità indicibili.
Finanche scoprire che dietro le stragi ed i grandi delitti c'è uno Stato-mafia.
I segreti di Stato stanno dietro a Portella della Ginestra, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, il caso Moro, Ustica, la strage di Bologna, Capaci, via d'Amelio, e le successive stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano.
I mercenari, senza idee e senza discernimento, su questi fatti non vogliono la verità.
“Il tribunale di Palermo non può processare lo Stato” diceva qualche anno fa “l'opera d'arte” più bella di quella categoria di libellisti e mercenari. Uno che di arte se ne intende e che non poteva mancare all'elenco. Il suo nome? Vittorio Sgarbi.


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