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Oggi inizia la discussione alla Camera

Politici, funzionari ed imprenditori corrotti, paramafiosi, favoreggiatori e complici, alzate i calici! Brindate! Perché in arrivo c'è una riforma pronta a regalare l'impunità.
Un disegno di legge "porcata" nella sua prima versione. Un disegno di legge "porcata" nella seconda, anche se appare un po' meno sporca, in cui viene sdoganato il principio secondo cui "la legge non è uguale per tutti".
Avvallarla, in qualsiasi forma si presenti, solo perché si sono raggiunti accordi, sarebbe l'ennesimo tradimento verso l'Italia onesta.
E' per questo che oggi alla Camera, dove avrà inizio la discussione sulla riforma Cartabia, sarà l'ultima occasione per il Movimento del “non cambiamento” Cinque Stelle per salvare veramente la faccia.
Più volte abbiamo evidenziato la caduta, l'inganno ed il tradimento portato avanti dai pentastellati ed in particolare dal suo comico-garante Beppe Grillo.
Quest'ultimo, appoggiando Draghi e trascinando i suoi negli inferi di un governo che li vede seduti accanto a Forza Italia (partito che ha tra i fondatori un uomo della mafia, Marcello Dell'Utri, ed un pregiudicato che pagava la mafia, Silvio Berlusconi) ha gettato definitivamente la maschera.
Questa legge forse non sarà più salva-mafiosi, ma (salvo la cancellazione dell'improcedibilità stessa) resterà una legge salva-ladri, salva-colletti bianchi, salva-potenti e, soprattutto, salva-politici.
Dal Csm è arrivata una sonora bocciatura così come dall'Anm, e da decine e decine di magistrati ed addetti ai lavori. I consiglieri togati Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita hanno ribadito i rischi che si nascondono dietro a questa riforma dell'ingiustizia Cartabia, tanto simile, secondo Di Matteo, a quella "riforma del processo breve dell’ultimo governo Berlusconi, che rappresentava un pericolo per la tenuta stessa del sistema democratico". "La peggiore riforma che abbia mai letto" l'ha definita il Procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri.
Ma non sono stati i soli ad esprimersi. Commenti duri sono giunti dal Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, dal Procuratore nazionale Antimafia De Raho, e tanti altri.
E la sostanza non cambia neanche dopo la lunga trattativa andata in scena giovedì, fuori dalle aule del Parlamento, tra i vertici dei partiti, il Premier Mario Draghi e la ministra della Giustizia Marta Cartabia.
E' vero. Nel primo testo della riforma si prevedeva l’improcedibilità dell’azione penale per tutti quei processi che duravano oltre due anni in appello e uno in Cassazione ed oggi, dopo l'intervento (tardivo) del nuovo “capo politico” Giuseppe Conte, per i processi di terrorismo e associazioni eversive, associazione mafiosa, scambio elettorale politico-mafioso, violenza sessuale e traffico di droga possono “essere disposte ulteriori proroghe”.
Ed i reati con l'aggravante mafiosa, cioè quelli commessi con lo scopo di favorire un’organizzazione mafiosa? In base all'accordo raggiunto con la trattativa i processi potranno durare fino a sei anni in Appello e tre in Cassazione. Ma fino al 2024: poi si passerà al regime di cinque anni in appello e massimo due in Cassazione. Il nuovo testo prevede anche che contro le proroghe che "dovranno sempre essere motivate", l’imputato può fare ricorso in Cassazione.
Inoltre è rimasta in pista quella gravissima norma in cui si dà al Parlamento la possibilità di indicare alle Procure i criteri generali da seguire per selezionare la priorità delle notizie di reato. Sul punto un magistrato come Di Matteo era stato chiaro: "L’approvazione di questa parte della legge comincerebbe ad aprire uno squarcio, limitato ma facilmente allargabile, alla possibilità che poi sia la politica a dettare l’agenda alle procure. Questo, oltre a contrastare con i principi fondamentali della Carta, segnerebbe un passo verso il sostanziale assoggettamento delle procure al potere politico".
Un attacco diretto all’indipendenza della magistratura e, di riflesso, uno schiaffo ai cittadini che hanno nella magistratura indipendente l'unica fiducia per una giustizia vera.
Resta la speranza che la Consulta bocci sul punto la riforma Cartabia, ma è chiaro che molto di più ci saremmo aspettati dalla politica, in particolare da quel Movimento Cinque Stelle che oggi canta vittoria e che, senza se e senza ma, dovrebbe avere il coraggio di far saltare il tavolo votando No alla riforma, uscendo così da questo governo.
Qualora non sarà così per l'ennesima volta Giuseppe Conte, della cui onestà non dubitiamo, si dimostrerà quantomeno debole.
I ministri pentastellati, in particolare quelli che nel primo Consiglio di ministri hanno votato sì alla riforma Cartabia, hanno dimostrato ancora una volta l'essenza dell'inganno e del tradimento verso gli elettori sulla lotta alla mafia.
Perché come sempre nella politica bisogna guardare tra le righe e nel groviglio di emendamenti già presentati in Commissione giustizia, e che saranno discussi in parlamento, ci sono elementi gravi.
Perché se in passato c'erano ministri che dicevano chiaramente che con la mafia "bisogna convivere" oggi chi ci governa, senza dirlo, trama sottobanco per ottenere il medesimo risultato.
E' evidente che la politica non vuole che si portino avanti le indagini più scomode, quelle che mirano a perseguire i livelli di vertice del Sistema criminale, che non è solo la mafia intesa come criminalità organizzata.
La prova di questa "volontà politica" la troviamo nell'emendamento che è stato approvato in Commissione giustizia (con parere favorevole anche di altre parti politiche) presentato da Pierantonio Zanettin, deputato di Forza Italia. L’emendamento prevede di inserire una lettera – la l-quinquies – all’articolo 3 comma 1 della riforma, quella che riguarda le indagini preliminari e l’udienza preliminare. Si chiede di “prevedere criteri più stringenti ai fini del provvedimento di riapertura delle indagini di cui all’articolo 414 del codice di procedura penale”. Il codice infatti prevede che dopo un decreto di archiviazione “il giudice autorizza con decreto motivato la riapertura delle indagini su richiesta del pubblico ministero” che deve motivare dunque il perché della necessità di proseguire le proprie investigazioni. Ma l'emendamento Zanettin vuole criteri ancora più stringenti, da decidere in un secondo momento.
Caso vuole che tra i soggetti sul cui conto le indagini sono state recentemente riaperte, dopo le archiviazioni negli anni Novanta e Duemila per mancanza di riscontri, vi sono l'ex premier Silvio Berlusconi (che come dicono le sentenze, da imprenditore pagava la mafia) e l'ex senatore Marcello Dell'Utri (quest'ultimo già condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa e in primo grado nel processo trattativa Stato-mafia).
Entrambi sono sotto inchiesta a Firenze come mandanti esterni delle stragi del 1993.
Ma evidentemente la ricerca della verità non è una priorità in Parlamento.
Che brindino, dunque, colletti bianchi e mandanti esterni delle stragi. Che brindino i Graviano, i figli dei Madonia, Leoluca Bagarella e il superlatitante Matteo Messina Denaro. Brindino in Calabria i De Stefano, i Piromalli, ed i membri della cupola "invisibile" (che esiste), della 'Ndrangheta. Perché già oggi sono pochi i politici condannati per reati connessi alla mafia (tra i più noti oltre Dell'Utri, Nicola Cosentino, Totò Cuffaro e Antonio D'Alì).
Ci sono poi quei politici che rubano, corrompono, si lasciano corrompere, fanno traffico di influenze, abusano del proprio potere, aiutano gli amici negli appalti, organizzano frodi fiscali e si fanno finanziare illecitamente. Ed è con questi che la nuova mafia, quella ricca soprattutto grazie al fluente traffico internazionale di stupefacenti, fa affari guardandoli negli occhi.

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