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Il consigliere togato: "La mediazione significa resa alla violazione dei principi costituzionali". Anche Ardita contrario

Al termine di un'accesa discussione il Consiglio superiore della magistratura, riunito oggi in seduta plenaria, ha approvato con 16 voti favorevoli - 3 contrari e 4 astenuti - il primo parere sulla riforma della giustizia firmata da Marta Cartabia.
Una decisione storica che ha provocato, in virtù delle tematiche trattate, profonde spaccature e divisioni.
"O si sta da una parte, nel senso che si è convinti della difesa di certi principi oppure, legittimamente ma assumendosene la responsabilità e la paternità delle opinioni, si pensa diversamente" ha detto il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo, il quale, durante il suo intervento ha elencato i punti critici della riforma, a cominciare dal regime di improcedibilità, causa dell'estinzione dei processi se dovessero superare le tempistiche di due anni in Appello e uno in Cassazione.
"L'entrata in vigore del regime dell'improcedibilità a mio avviso rappresenterà la causa di un aumento esponenziale dell'impunità anche per reati molto gravi" inoltre "costituirà la causa di un'aumento esponenziale delle mortificazioni dei diritti e delle aspettative delle parti offese dei reati" e "costituirà un motivo per alimentare ulteriormente un già diffuso senso di sfiducia dei cittadini nei confronti di una giustizia incapace di arrivare ad un accertamento nel merito della colpevolezza o dell'innocenza dell'imputato". Per Di Matteo questi fattori trasformerebbero l'apparato giudiziario in "una macchina di denegata giustizia" poiché il regime di improcedibilità "così come congegnato provocherebbe anche il conseguimento di evidenti vantaggi per le organizzazioni mafiose" poiché i procedimenti giudiziari riconducibili agli imputati per mafia molto spesso sono "particolarmente complessi" sia per "numero degli imputati e gravità delle accuse a loro mosse". Questi fattori vanno quindi obbligatoriamente ad incidere sulla durata media dei procedimenti, soprattutto quelli in Appello, garantendo un regime di sostanziale impunità. Inoltre per Di Matteo, "non si è considerata la particolare struttura dei processi di mafia e la prevedibile fase di riapertura dell'istruzione dibattimentale in Appello". E poi ancora, nei processi di mafia non si è tenuto conto "dell'acquisizione della prova" che, ha detto il magistrato, "nella maggior parte dei casi avviene anche in itinere, attraverso nuove acquisizioni: ad esempio per mezzo dei collaboratori di giustizia o di nuove intercettazioni telefoniche ed ambientali".
Come si comporteranno le Procure quindi, in previsione di un procedimento 'morto in partenza'?
Per Di Matteo non ci sono dubbi: "Le Procure della Repubblica tenderanno prudenzialmente a limitare l'esercizio dell'azione penale" soprattutto se porta alla celebrazione dei "cosiddetti maxi processi, che più degli altri, ovviamente, rischierebbero di andare in fumo nei gradi di Appello e Cassazione".
Questo smembramento dei maxi processi porterà inevitabilmente "ad una moltiplicazione di processi diversi in cui in ciascuno di essi sarebbero imputati solo pochi soggetti e per poche imputazioni" e questo andrebbe anche a ledere "quella visione di insieme e complessiva che il giudice deve avere" soprattutto per quanto riguarda "fenomeni, reati e imputati la cui posizione e strettamente connessa".
In altre parole, ha continuato il magistrato "chiuderemo per sempre il capitolo dei grandi processi di mafia che è stato aperto negli anni '80 a Palermo per volere di Giovanni Falcone".

Criticità multiple
La riforma, che dovrebbe ridurre il numero dei processi e garantire la ragionevole durata degli stessi, si rivelerebbe invece un vero e proprio 'processificio' in quanto, come spiegato da Di Matteo, "produrrà una moltiplicazione degli Appelli" dal momento che "anche i condannati in primo grado in base a prove schiaccianti o alla loro confessione, si appelleranno e poi andranno a ricorrere in Cassazione in attesa e nella speranza nell'eventuale dichiarazione di improcedibilità".
Ma la critica più dura del magistrato ha riguardato il punto inerente ai criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale, la quale, come scritto nella riforma, dovrà essere indicata dal Parlamento: "La mediazione su questo punto significa resa alla violazione dei principi costituzionali" ha detto Di Matteo, rimarcando come questo rappresenti "un vulnus evidente. Uno squarcio che si può allargare anche in futuro", il quale porterà ad una "violazione del principio di separazione dei poteri, della indipendenza della magistratura" e del "principio altrettanto importante sancito dall'articolo 112 della Costituzione e della obbligatorietà dell'azione penale".
Motivo? "E' una norma che tende a orientare la delicata fase delle indagini preliminari" verso la "persecuzione di specifiche fattispecie di reato riconducibili ad aree di criminalità la cui individuazione rispecchierà inevitabilmente le maggioranze politiche del momento di qualunque colore esse siano".

Questione di libertà ed uguaglianza dei cittadini
A questo punto è palese che con la riforma si ha l'intenzione di minare le basi stesse dell'indipendenza della magistratura, ma qual è stato il principale cavallo di battaglia dei consiglieri e dei personaggi (sia dentro che fuori dal Csm) pro-riforma? I soldi. Precisamente quelli che l'Unione Europea avrebbe promesso al nostro Paese. Infatti il consigliere forzista Lanzi durante la seduta ha parlato di 'Realpolitik', anteponendo la necessità di accaparrarsi il denaro di Bruxelles alla Carta Costituzionale. A tal proposito il consigliere Di Matteo ha voluto sottolineare che "a proposito delle esigenze di Realpolitik sottolineate dal consigliere Lanzi e della esigenza più volte richiamata di poter ottenere i fondi europei, personalmente continuo a pensare che i principi costituzionali come quello dell'uguaglianza di tutti i cittadini innanzi alla legge, della obbligatorietà dell'azione penale e il principio di una pretesa punitiva dello Stato esercitata a tutela della libertà dei cittadini non possano arretrare nemmeno a fronte ad esigenze di questo tipo".

Il rischio della discovery obbligatoria
I punti trattati dal magistrato hanno toccato anche ambiti di natura tecnica come la discovery obbligatoria degli atti di indagine che imporrebbe la desecretazione "di tutti gli atti di indagine nel caso in cui il pm non abbia nei tempi previsti esercitato l'azione penale o chiesto l'archiviazione del procedimento". Di Matteo ha detto di non arrivare "a comprendere perché a fronte di una situazione in cui nessun indagato viene formalmente accusato" o "soggetto all'azione penale" si debba procedere ad una "discovery obbligatoria di tutti gli elementi" poiché "la prova può emergere anche a distanza di molti anni e "la discovery anticipata di elementi di prova, che in quel momento non sono tali da poter far determinare al pubblico ministero l'esercizio dell'azione penale, può pregiudicare l'efficacia di indagini future".
Sempre nell'ambito tecnico il consigliere togato ha parlato anche della questione legata al controllo giurisdizionale sull'iscrizione delle notizie di reato nel registro da parte del pm, affermando che "al di là del senso di sfiducia delle attività del pubblico ministero che traspare dall'impianto normativo, c'è una conseguenza che voglio far risaltare in questa sede. Le questioni legate al tempestivo o intempestivo esercizio del dovere da parte del pm di iscrivere la notizia di reato verranno certamente sollevate nelle diverse fasi processuali" e "verranno a costituire un oggetto di giudizi incidentali molto complessi e molto complicati" i quali "potrebbero portare" anche all'inutilizzabilità "della prova da parte dei giudici anche a distanza di anni dal momento in cui è stata acquisita. Si persegue un intento di abbreviazione dei tempi processuali ma si rischia di dilatare all'infinito invece i giudizi, gravandoli anche di una risoluzione incidentale difficile e complessa" poiché è chiaro che "l'iscrizione della notizia di reato non si può ancorare a termini tassativi, indicati tassativamente come se ogni situazione non fosse diversa dall'altra".
A queste parole ha fatto eco il consigliere togato Sebastiano Ardita il quale ha ricordato che "nei procedimenti di maggiore complessità il pm è spesso nella impossibilità di procedere all'iscrizione dell'indagato e contestualmente alla ricezione della notizia di reato" poiché possono accadere casi particolari, come ad esempio "un collaboratore di giustizia che riferisce dei reati non conosciuti o accusa dei personaggi di cui non fornisce le generalità" oppure "potrebbe essere il caso di un'attività investigativa già in corso" in cui "emergono reati ulteriori". "Tutto questo, ha spiegato Ardita, presuppone la valutazione preliminare del materiale investigativo" che poi andrà eventualmente all'iscrizione di un soggetto nel registro degli indagati.
In conclusione, Ardita ha sottolineato che, visto il contesto normativo riguardante l'iscrizione delle notizie di reato, "è ben comprensibile come la individuazione di un tempo fisso o di una data fissa rispetto alla quale operare non è semplice. E alle volte potrebbe comportare delle grosse problematicità" come la violazione delle garanzie di cui "godono gli indagati" perché "a fronte del rischio di una inutilizzabilità degli atti di indagine" il pm "potrebbe prudenzialmente procedere ad una iscrizione nel registro degli indagati".

Foto d'archivio © Imagoeconomica

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