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Il nuovo allarme del Consigliere togato del Csm sul regime di carcere duro

"Il 41 bis resta uno strumento insostituibile per un contrasto veramente efficace alle mafie". A dirlo all'Adnkronos è il consigliere togato del Csm Antonino Di Matteo. Oggi, in un editoriale, l'ex Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ribadisce che il carcere duro per i boss non va cancellato. E che "tra le questioni più delicate che la nuova titolare del ministero della Giustizia dovrà ben presto affrontare c'è quella relativa al trattamento dei detenuti per reati di mafia". Parlando del 41 bis, senza fare un esplicito riferimento all'editoriale di Pignatone, Nino Di Matteo, che per molti anni è stato Sostituto procuratore di Palermo, ritiene che il carcere duro debba "essere applicato sempre nell'ottica della prevenzione e non in quella della ulteriore afflizione del detenuto". "Da molto tempo le più raffinate strategie mafiose mirano alla abolizione, o comunque all'affievolimento, del 41 bis - prosegue ancora il consigliere togato del Csm - Così come, per altro verso, della pena dell'ergastolo. Prima, per ottenere lo scopo, hanno adoperato la strategia delle bombe, oggi sperano di sfruttare a loro favore un preoccupante e generalizzato calo di attenzione per la lotta alla mafia". "Qualsiasi cedimento dello Stato costituirebbe oggi un errore difficilmente rimediabile", conclude il magistrato Di Matteo.
Sul punto il pm Di Matteo è sempre stato cristallino e inamovibile. Anche perché i tentativi di sfiancare lo Stato per avere una mano più “leggera” in tema carcere duro sono stati e sono tuttora continui. Ricordiamo bene ciò che è avvenuto appena un anno fa quando, nel pieno dell’esplosione della pandemia in Italia, i boss detenuti (tra questi anche alcuni reclusi al 41 bis) avevano prontamente presentato istanze di scarcerazione per rischi collegati al contagio da Covid-19. Istanze poi accolte dai magistrati di sorveglianza che hanno dovuto fare affidamento a una circolare fallace, emessa dal Dap allora diretto da Francesco Basentini (poi dimessosi). In quel periodo Nino Di Matteo aveva sottolineato a più riprese e in diverse sedi (anche non istituzionali) i pericoli che sarebbero derivati e il significato che quelle scarcerazioni (circa 223) hanno assunto. “Penso che scarcerare 250-260 mafiosi sia stato un segnale devastante dal punto di vista simbolico e sia stato un segnale che dal punto di vista mafioso purtroppo sarà stato visto di cedimento, un segnale per loro di speranza”, aveva detto in Commissione Antimafia Di Matteo. “Per me il segnale è stato questo, perché non era mai accaduto che siano stati ammessi agli arresti domiciliari. Non era mai accaduto, neanche in situazioni di gravissima salute per Riina e Provenzano, che siano stati ammessi i domiciliari per i boss. I mafiosi detenuti con condanna all'ergastolo vivono di segnali e speranze che si legano anche all'alleggerimento del sistema carcerario". Speranze, quelle dei boss irriducibili, che con il passare degli anni potrebbero andare via via concretizzandosi.


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L'ex Procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone


Sirene d’allarme
Dopo i fatti di primavera 2020, il tema carcerario è tornato sulle prime pagine giusto qualche giorno fa, quando Lirio Abbate ha scritto della decisione di Filippo Graviano, boss stragista di Brancaccio, di dissociarsi da Cosa nostra e sulla base di ciò richiedere permessi premio per lasciare il carcere. Sul punto Gian Carlo Caselli ha scritto ieri su il Fatto Quotidiano un ampio articolo in cui ha ribadito i pericoli di questa decisione sottolineando, anche lui, l’importanza del regime di carcere duro 41 bis nella lotta alla mafia. “Da sempre Cosa nostra è alle prese con il complesso problema dei rapporti fra i mafiosi ancora in libertà e quelli detenuti”, ha detto Caselli. “L’offensiva dello Stato dopo le stragi ha riempito le carceri, e il problema per i mafiosi è diventato una profonda ferita aperta che occorre sanare. Di qui il periodico riemergere di iniziative favorevoli alla “dissociazione”: una pedina fondamentale della scacchiera su cui ancora oggi gioca il gruppo dirigente dell’organizzazione. Il riconoscimento legale della “dissociazione” offre infatti varie prospettive: uscire dal 41 bis, qualche ergastolo in meno, qualche permesso in più e soprattutto salvare i propri beni dalla confisca. In sostanza, un progetto funzionale al riconsolidamento di Cosa nostra”. E oggi il rischio che si torni all'era della pietra (ovvero a prima delle stragi di Stato del 1992 e del 1993) della lotta alla mafia è altissimo. Specie se i boss possono “contare” - oltre che su casi straordinari come l’emergenza Covid che prevedono naturalmente altrettante misure straordinarie in tema detentivo - anche sui pronunciamenti di istituzioni nazionali come la Consulta e internazionali come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che sul punto negli ultimi due anni si sono espresse in maniere ostinata e contraria alle valutazioni dei magistrati più autorevoli. Rischiando di gettare al vento, in questo modo, decenni di lotte al crimine organizzato.

Foto originali © Imagoeconomica

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