Di Matteo, Lodato, Guarnotta e Luana Ilardo ospiti di "Atlantide", condotto da Andrea Purgatori
Pietro Riggio, il pentito nisseno ed ex agente della polizia penitenziaria che dal 2018 racconta una serie di circostanze sulla strage di Capaci, nella sua deposizione al processo trattativa Stato-mafia ha fatto ulteriori roboanti rivelazioni.
Di fronte alla Corte d'Assise d'Appello di Palermo ha raccontato del possibile ruolo nelle stragi del 1993 di Marcello Dell'Utri, già condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa; ha parlato del possibile ruolo di pezzi deviati dello Stato nelle stragi; ed ha raccontato dettagli nuovi che potrebbero spiegare la strana morte di Antonino Gioè (ritrovato morto, la notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993, impiccato con i lacci delle scarpe nella cella in cui trascorreva la detenzione nel carcere di Rebibbia - e l'uccisione dell'infiltrato e confidente Luigi Ilardo il 10 maggio 1996.
Che contributo è quello del collaboratore di giustizia Pietro Riggio? Può offrire davvero il giusto quadro di lettura su quanto avvenuto nei primi anni Novanta, tra stragi, delitti e trattative? Siamo di fronte a un “Nuovo Buscetta”?
A questi interrogativi, ieri sera, ha provato a rispondere la trasmissione Atlantide, condotta da Andrea Purgatori, in una puntata che ha visto la partecipazione in un'intervista esclusiva del consigliere togato Nino Di Matteo (già pm del processo Trattativa Stato-mafia); del giornalista, scrittore e nostro editorialista Saverio Lodato; di Leonardo Guarnotta, con Falcone, Borsellino e Di Lello ex componente del pool coordinato da Antonino Caponnetto e che istruì il Maxi Processo, già presidente del tribunale di Palermo (oggi in pensione); e di Luana Ilardo, figlia dell’ex boss e infiltrato Luigi Ilardo.
Una puntata che, partendo proprio dalle rivelazioni di Riggio, ha evidenziato quegli elementi che dimostrano come dietro le stragi non vi fosse solo la mano mafiosa. Perché, come evidenziato da Purgatori ad inizio trasmissione, di esse “conosciamo quasi tutti gli esecutori, ma non conosciamo i complici ed i mandanti”.
Lo Stato dietro le stragi
A 28 anni di distanza dalle stragi la sensazione è che qualche elemento nuovo stia emergendo, come ha espresso chiaramente Saverio Lodato, dando un titolo che sintetizza chiaramente il quadro: “Titolerei 'Un gran pezzo dello Stato dietro le stragi del 1992 e del 1994' e preciserei poi che le stragi di Capaci e via d'Amelio mettono in evidenza la mafia e lasciano intravedere sullo sfondo la manina dello Stato. Le stragi del '93-'94 hanno una caratteristica diversa: mettono in evidenza la presenza dello Stato e lasciano intravedere sullo sfondo la manina della mafia. Ma attenzione, è un'illusione ottica. Perché la catena stragista che parte dal 1992 al 1994, che perlomeno è la catena stragista esaminata dal primo processo, attualmente in appello, sulla trattativa Stato mafia, ci dimostra che Cosa nostra e lo Stato agirono da comprimari, scambiandosi ruoli, interessi, obiettivi e le divise”. “Io - ha proseguito Lodato - credo che siamo giunti a un punto in cui dobbiamo farci una domanda. Questa sera, ed è merito di questa trasmissione che ha rotto il silenzio asfissiante di parecchi media, torniamo a interrogarci, 28 anni dopo, sul periodo stragista. Tra altri trent'anni saremo ancora ad interrogarci? Io credo di no. E credo di no perché ormai siamo giunti alla conclusione di questa storia e siamo in condizione di tirare il bandolo della matassa. Sarà compito della magistratura dire e dare una risposta definitiva di verità agli italiani, perché gli italiani ne hanno diritto. E perché gli italiani, ancor prima che le conclusioni giudiziarie, sono giunti alla conclusione che Cosa nostra non fece tutto da sola”.
Ed è da questo dato che si deve partire se si vuole davvero andare fino in fondo senza timori reverenziali.
Andrea Purgatori intervista Nino Di Matteo
Riggio come Buscetta?
Le novità emerse negli ultimi mesi, con le inchieste aperte da più procure e coordinate dalla Procura nazionale antimafia, vanno in questa direzione. E proprio la testimonianza di Pietro Riggio al processo Stato-mafia, offre nuovi spunti investigativi.
Di Matteo, senza entrare nel merito delle dichiarazioni del collaboratore nisseno, ha espresso alcune considerazioni: “La prima è che Riggio essendo stato un uomo al servizio dello Stato e della mafia appartiene a quella ristretta categoria di soggetti che possono ben avere informazioni dirette sui rapporti criminali tra mafia e pezzi dello Stato. La seconda considerazione è di ordine ancor più generale. E' sufficiente conoscere i processi celebrati per capire e sottolineare come già in quelle carte troviamo elementi concreti per ritenere che la strategia stragista (1992-1994) è stata caratterizzata dalla sempre più probabile presenza e protagonismo di soggetti estranei a Cosa nostra, anche negli aspetti operativi delle stragi. Mi pare che le deposizioni di Riggio vadano in quella direzione anche se, naturalmente, devono essere verificate”.
Secondo il consigliere togato del Csm, seppur i piani sono completamente diversi, possono esservi delle analogie tra Buscetta e Riggio, partendo dal presupposto che “Buscetta fu il primo a spiegare la realtà di Cosa nostra, a rompere il muro dell'omertà” ed oggi “ci sono collaboratori, e Riggio potrebbe rientrare tra questi, che provano a fare un salto di qualità, provano a parlare dei rapporti osceni che Cosa nostra ha avuto con il potere”. Argomento non facile da affrontare per i collaboratori di giustizia, in particolare quando si respira un clima generale e politico ostile, fino a diventare “taboo, soprattutto quando incrocia la storia delle stragi”.
Sull'eventuale paragone tra Riggio e Buscetta è tornato anche Saverio Lodato: “La sensazione è che se c'è una cosa che Riggio ha in comune con Buscetta, che rimane un personaggio unico nella storia del pentitismo mafioso se non altro perché ne fu il pioniere, la cosa che ha in comune è che viene messo sotto torchio dalle procure di mezza Italia e che non gli sarà risparmiata nessuna domanda, soprattutto, legittimamente e giustamente, dai collegi difensivi degli imputati che cercheranno di farlo cadere in contraddizione. E' presto per esprimere un giudizio di veridicità o meno rispetto alle dichiarazioni di Riggio, ma quello che mi colpisce è il curriculum di questo signore”. “Emerge un quadro horror di questa storia - ha poi aggiunto - questo stesso curriculum misura il fatto che sono esistite in questi anni delle camere segrete sconosciute all'opinione pubblica e alla capacità di comprensione dell'opinione pubblica per cui oggi Riggio ha già parlato in 27 interrogatori, senza cadere in contraddizione”.
Attentato allo Stato: le rivendicazioni della Falange Armata
Seguendo il filo della trasmissione, un focus importante ha riguardato proprio le stragi in Continente, consumate tra il 1993 ed il 1994. “Quella - ha ribadito Di Matteo nell'intervista - è una stagione che costituisce un 'unicum' nella storia delle mafie tradizionali, perché ci sono tante anomalie che fanno capire che quella strategia è stata assecondata quanto meno da organi e soggetti diversi da Cosa nostra”. “La prima grossa anomalia - ha proseguito - è che gli attentati furono realizzati fuori dalla Sicilia (5 realizzati a Roma, Firenze e Milano). Ancora più singolare è il fatto che quelle stragi non sono state fatte, come nelle tradizioni di Cosa nostra, per colpire un obiettivo specifico e per uccidere un nemico, ma sono state fatte in un'ottica completamente diversa: per gettare panico nella popolazione accettando anche di eliminare dei cittadini inermi che si trovavano per caso in quei luoghi. La terza anomalia riguarda la particolarità di quei luoghi che erano importanti anche sotto il punto di vista storico, artistico e simbolico”.
Come ricordato da Di Matteo a “legare” in maniera inquietante gli attentati vi furono le rivendicazioni e gli annunci di nuovi attentati, effettuate con una sigla particolare: quella della Falange Armata.
Di essa si è parlato anche nel processo trattativa Stato-mafia con la Corte d'assise presieduta da Alfredo Montalto che vi ha dedicato un capitolo intero nelle motivazioni della sentenza. “Ricordo sempre cosa disse Gaspare Spatuzza alle nostre domande al processo Trattativa - ha ricordato ieri Di Matteo - Spatuzza ci disse che poco prima di recarsi a Roma nel luglio 1993 ricevette l'incarico di imbucare delle lettere che dovevano arrivare alla redazione romana del Corriere della sera e all'agenzia Ansa. Gliele diede un uomo d'onore vicino a Giuseppe Graviano ed erano caratterizzate da un linguaggio forbito e da una struttura argomentativa completamente estranea rispetto alle capacità culturali dei mafiosi. Spatuzza spedisce delle lettere concepite da altri, da soggetti non mafiosi. Erano delle lettere che si concludevano con il preannuncio di altri attentati e con la sigla di Falange Armata. Anche in quel processo sulla Trattativa è venuto fuori l'esistenza di indizi molto forti sull'origine della Falange Armata. La corte d'Assise conclude che molto probabilmente questo fenomeno si formò all'interno dei servizi di sicurezza”.
Il Capo dei Capi, Salvatore 'Totò' Riina
La logica che non appartiene a Cosa nostra, l'attentato all'Olimpico
“La mente di Riina non era tanto raffinata da poter concepire da solo la rivendicazione di tutti quegli attentati con la sigla Falange Armata - ha proseguito il magistrato - Erano gli stessi mafiosi che giravano l'Italia per mettere le bombe che percepivano anomalie e disagi. Spatuzza ci ha raccontato che a un certo punto quando si delineò la possibilità di fare un ultimo attentato allo Stadio Olimpico di Roma disse a Giuseppe Graviano: 'Ci stiamo portando delle morti appresso che non ci appartengono'. Disse che quelle morti erano 'innocenti', non erano nemici che uccidevamo senza problemi. Questo è il motivo per cui a un certo punto Spatuzza si rivolge ai suoi capi perché 'dobbiamo fare così', e Graviano gli avrebbe risposto: 'Gaspare tu ne capisci di politica? Dobbiamo fare questi attentati perché chi si deve dare una mossa si dia effettivamente una mossa e vedrai che queste bombe porteranno benefici non solo ai carcerati ma a tutta Cosa nostra'”. Parole lapidarie così come quelle di Riina che ai suoi diceva sempre "dobbiamo fare la guerra per poi fare la pace".
Una logica che portò dei frutti.
“Nella storia giudiziaria relativa ad altre stragi ed episodi precedenti - ha ricordato Di Matteo - è venuto fuori un intento di parte deviate dello Stato di concepire e assecondare una strategia stragista per destabilizzare e quindi stabilizzare. Destabilizzare per evitare che il corso della storia politica vada in una strada già intrapresa e torni invece per una strada diversa".
Rispetto al fallito attentato allo Stadio Olimpico, avvenuto nel gennaio 1994, il consigliere togato del Csm ha evidenziato come nelle motivazioni della sentenza della Trattativa si afferma che se quell'attentato fosse riuscito lo Stato sarebbe stato messo definitivamente in ginocchio. “Quell'attentato - ha spiegato rispondendo a Purgatori - avrebbe cambiato la storia del nostro Paese. Quindi dobbiamo chiederci perché non è stato ripetuto quel tentativo dopo il 23 gennaio. Dobbiamo tenere presenti che quattro giorni dopo vengono catturati a Milano Giuseppe e Filippo Graviano, due partecipanti a tutti gli effetti alle bombe in Continente. Bisogna capire se questo arresto dei fratelli Graviano è stato in qualche modo favorito. In questo senso perfino Giuseppe Graviano ha detto in maniera lapidaria 'se volete capire cosa c'è dietro le stragi dovete verificare le circostanze del mio arresto'".
Le fasi della trattativa
Certo è che mentre Cosa nostra metteva le bombe, pezzi dello Stato avevano avviato un dialogo con la mafia. “La trattativa - ha spiegato sempre Di Matteo - ha varie fasi. Certamente, per come si è sviluppato il processo, c'è una prima fase del '92 che si sviluppa a cavallo tra Capaci e via d'Amelio e il protagonista mafioso è Totò Riina. Dopo l'arresto di Riina continua con altri protagonisti mafiosi e forse istituzionali. Le bombe del 93-94 hanno diverse finalità. Tra le più importanti per Cosa nostra c'è quella di costringere lo Stato ad accettare quelle condizioni per smettere con quella strategia. Lo Stato in qualche modo aveva iniziato a piegare le ginocchia nel 1992, quando Riina venne cercato da esponenti delle istituzioni tramite Vito Ciancimino. Le bombe hanno questa finalità terroristica: più lo Stato dimostra di cedere, più Cosa nostra ritiene che quella strategia sia appagante. Proprio perché lo Stato ha mostrato debolezza. Tutto inquadrato anche nella finalità più ampia che era quella di trovare, attraverso questo meccanismo, nuovi referenti politici che potessero sostituire quelli vecchi che non erano riusciti ad evitare che l'impianto d'accusa del pool Falcone e Borsellino diventasse sentenza definitiva”.
Guarnotta e quel progetto di attentato ai tempi del processo Dell'Utri
E' in questo punto che si inserisce la testimonianza del giudice Leonardo Guarnotta, intervenuto in video collegamento. Lo stesso magistrato, a detta di Riggio, sarebbe stato oggetto di un progetto di morte nei primi anni del Duemila.
Sul punto lo stesso Guarnotta ha provato a dare una chiave di lettura: "Mi sono chiesto come mai, perché in fin dei conti erano passati 8 anni dal '92. Se si fosse pensato alla mia eliminazione dopo quella di Falcone e Borsellino, avrebbe avuto un senso. Poi però, pensandoci meglio, sono venuto ad alcune conclusioni. L'attentato nei miei confronti avrebbe rappresentato tre cose: avrebbe fatto capire all'opinione pubblica che Cosa nostra persiste e insiste con la sua strategia stragista, uccidendo un altro uomo dell'antimafia. Ma perché farlo? Il collaboratore ha dichiarato di avere appreso da Peluso che si trattava di un favore alla politica. Ebbene, ripensandoci, in quel periodo c'era davanti alla sezione del tribunale di Palermo da me presieduta il processo penale a carico di Dell'Utri. Se fosse stato portato a termine l'attentato nei miei confronti si sarebbe ottenuta l'interruzione del processo, perché nel settore penale un magistrato non può essere sostituito durante il percorso del procedimento e deve iniziare da capo. Ed essendo passati 4/5 anni dal momento in cui il procedimento era iniziato questo avrebbe significato far cadere il processo in prescrizione, perché il collega che avrebbe preso il mio posto non avrebbe avuto tempo di entrare a conoscenza di tutti gli atti. La terza e ultima conclusione è che un attentato nei miei confronti avrebbe avuto un'influenza anche nei confronti del collega che mi avrebbe sostituito. Come si sarebbe comportato? Perché il messaggio che sarebbe emerso sarebbe stato: 'Attenzione chi tocca i fili muore!'. Ecco cosa ho pensato quando ho sentito la riflessione del collaboratore Riggio".
In maniera estremamente lucida e puntuale, l'ex membro del pool ha invitato a chiedersi il perché "in Sicilia la mafia è presente da 150 anni mentre altri fenomeni come il terrorismo nero, rosso o altro, sono stati 'spazzati via'. E la spiegazione è una sola: il terrorismo riguarda qualcosa di "esterno", mentre "Cosa nostra è interna allo Stato, un antistato dentro lo Stato. Ecco perché esiste da tantissimi anni".
Quindi l'ex Presidente del Tribunale di Palermo ha espresso un rimpianto, ai tempi del Maxi Processo, che mette comunque in evidenza come anche il pool di Falcone e Borsellino aveva elementi per ricostruire gli scandalosi rapporti tra mafia e potere. "Ricordo che dopo aver depositato il Maxi quater (prima ci furono le 3 sentenze) fui intervistato da un giornalista il quale mi chiese se 'non avessimo rammarico e non fossimo riusciti a fare tutto il possibile' - ha detto Guarnotta - Io risposi di sì, non essere riusciti a varcare la soglia per svelare gli intrecci perversi tra istituzioni, tra stato, massoneria e mafiosi. Forse non era il periodo, infatti anche Buscetta si dovette fermare. Noi al momento avevamo solo illazioni e dichiarazioni e non saremmo potuti arrivare molto lontano".
Anni dopo i rapporti tra mafia e politica emersero con sempre più forza, fino ad arrivare al processo sulla trattativa Stato-mafia, ma già al tempo il pool di Palermo seppe puntare in alto, andando contro tutto e tutti.
Il giudice, Leonardo Guarnotta
Quando Buscetta parlò dei Salvo
Ed è stato Saverio Lodato, senza nascondere l'emozione nel sentire la testimonianza di Guarnotta, a ricordare “le difficoltà che attraversò quel pool antimafia nel momento in cui tentò di salire di livello arrestando due signori, che rispondevano ai nomi di Nino e Ignazio Salvo, due cugini imprenditori di Salemi, e che erano i due imprenditori più ricchi della Sicilia. Loro in Sicilia avevano l'agio delle esattorie, con agi triplicati rispetto al resto d'Italia e che, lo dobbiamo dire, avevano in tasca la tessera della Democrazia Cristiana”.
Lodato ha ricordato come quei nomi emersero grazie all'ingegno di Falcone che “costrinse Tommaso Buscetta a rivelargli i nomi dei Salvo”. “Buscetta si rese conto fino in fondo con chi aveva a che fare. Fece i nomi dei Salvo, che furono arrestati, e in Italia si scatenò l'ira di Dio. Cosa si era messo in testa di fare il pool antimafia che arrestava due ricchi imprenditori con la tessera Dc? Quello che si seppe poco tempo dopo, però, è che i due cugini, oltre alla tessera della Dc, avevano prestato giuramento a Cosa nostra. E ricordiamo anche che Falcone, in una certa fase, dichiarò abbondantemente ai giornali che 'esistono uomini di Cosa nostra prestati alla politica'. Questo solo per dire che il pool di Palermo quarant'anni fa, il famoso problema dei rapporti se lo poneva”.
Gioè e Ilardo morti di Stato?
Nel corso della trasmissione un capitolo è stato dedicato alle morti di Antonino Gioè e Luigi Ilardo. Due figure chiave che avrebbero potuto dare un contributo fondamentale nella lotta contro il Sistema criminale.
Se su Antonino Gioè resterà il dubbio se stesse o meno iniziando a intraprendere un percorso di collaborazione con la giustizia, su Ilardo la via era già segnata da tempo. Lo stesso Di Matteo ha ricordato come “alla fine del '93, dopo aver scontato una lunga pena detentiva, Ilardo decide di cambiare vita e mette a disposizione dello Stato i suoi trascorsi criminali importanti offrendo allo Stato la possibilità di infiltrarsi all'interno di Cosa nostra. Fino al maggio 1996 Ilardo è un infiltrato di Cosa nostra, partecipa alle riunioni di vertice e riferisce confidenzialmente al colonnello Michele Riccio cosa avviene all'interno della mafia. Ilardo fa arrestare in questo modo 7 importanti latitanti di Cosa nostra tra cui alcuni capi provincia, un risultato mai prima conseguito in nessun'altra indagine. Ilardo, in quel momento, è il primo a portare agli inquirenti le lettere di Provenzano e riesce ad avere un'interlocuzione continua e scritta con Provenzano e porta questi pizzini al Ros e alla magistratura palermitana tramite Riccio. Stiamo parlando del vertice della mafia nel momento immediatamente post strage. Ilardo spiega che l'ala provenzaniana non vuole più continuare con la strategia delle bombe perché riteneva di aver trovato una mediazione con la politica. Ilardo si incontra con Provenzano a Mezzojuso e offre allo Stato la possibilità di catturare Provenzano. Lo Stato non sa, o non vuole, sfruttare quella occasione. A quel punto, siamo nella primavera del '96, Ilardo decide di collaborare ufficialmente con i magistrati”.
Luigi Ilardo, la figlia Luana e Andrea Purgatori
Di Matteo ha anche ricordato come, in occasione dell'incontro a Roma del 2 maggio 1996 alla presenza di ufficiali dei carabinieri e di magistrati “Ilardo a un certo punto dice che 'alcuni omicidi eccellenti ci sono stati chiesti dalle istituzioni'. Preannuncia quindi l'importanza devastante della sua collaborazione”. Secondo Di Matteo quella collaborazione “sarebbe stata devastante non solo per Cosa nostra e per quei politici che in quel periodo avrebbero raggiunto accordi con la fazione provenzaniana, ma sarebbero stato devastanti anche per parti deviate delle istituzioni. Sarebbe stata, ne sono convinto, la collaborazione più importante dopo quella di Buscetta. Perché Ilardo era un personaggio che sarebbe stato in grado e aveva già detto di voler riferire su rapporti tra mafia e 'Ndrangheta da una parte, e dei rapporti tra esponenti della massoneria e l'eversione di destra dall'altra. Questo è il target della collaborazione che sarebbe iniziata. Una bomba ad orologeria che è stata disinnescata il 10 maggio 1996 a Catania. Ecco perché ritengo che per capire bene questa vicenda dobbiamo ricollegarla a un quadro più grande che si ricollega a sua volta a quella delle stragi. Ed ecco perché ritengo che non dobbiamo archiviare definitivamente, in maniera minimale, quell'omicidio come un omicidio di mafia. Perché non è la storia di un pentito che viene ucciso per vendetta dalla mafia. E' molto di più ed è molto altro”.
Considerazioni, quest'ultime, condivise anche dalla figlia dell'infiltrato, Luana Ilardo, che da tempo chiede verità e giustizia proprio sulle responsabilità di Stato che si nascondono dietro al delitto: “Penso in generale che dietro l’omicidio ci siano dei personaggi importanti, collusioni tra Stato e mafia. Stiamo parlando di poteri forti e poltrone importanti e quindi c’è una fortissima volontà affinché queste realtà non vengano scaricante del tutto. Sono le stesse figure che hanno tracciato il filo rosso della trattativa. Mio padre abbandonato dallo Stato? E’ esattamente quello che hanno fatto. Mio padre con Riccio e la Dia fece arrestare 50 persone, ma la cosa più importante è stata quella a Mezzojuso con Provenzano. Quel giorno si aspettava un ok per il servizio dell’arresto del superlatitante che per 43 anni abbiamo cercato”. Quindi la figlia di Ilardo ha concluso con amarezza: “Con tante persone con cui mi confronto ragioniamo sul dato che oggi non abbiamo un pentito e collaboratore dei cosiddetti colletti bianchi. Questo punto dovrebbe farci riflettere. Oggi non abbiamo nessuna figura istituzionale, né prima né dopo, che abbia dimostrato l’intenzione di fare delle dichiarazioni”.
Luana Ilardo
Un riferimento a quel pentito di Stato, la cui assenza pesa come un macigno nella ricerca della verità su quegli anni.
Sul perché Ilardo fu ucciso resta ancora oggi un mistero ma, come ribadito anche da Saverio Lodato, vi sono due fattori che devono essere ricordati: “Uno è quello descritto da Di Matteo, quando afferma che Ilardo disegna un perimetro all'interno del quale avrebbe parlato. I temi che annunciava avrebbe approfondito erano devastanti perché non si trattava solo di mafia, ma di mafia e il rapporto con la 'Ndrangheta. Una 'Ndrangheta che in questi ultimi anni è venuta sotto la luce dei riflettori, ma che per decenni è rimasta all'oscuro per la sua capacità di non commettere due errori commessi da Cosa nostra: il primo quello di evitare i delitti eccellenti, la stagione di escalation criminale che portò Cosa nostra ad ammazzare, magistrati poliziotti, carabinieri, giornalisti, uomini di chiesa, delle banche, semplici testimoni. La seconda, che la famiglia di appartenenza calabrese, a differenza di quella mafiosa, non prevede l'immissione di componenti estranee, ma è una famiglia di sangue. Quindi molto più chiusa alle infiltrazioni. C'è questo, c'è la massoneria, ma anche altro. Ilardo è uno che ha dimostrato di poter portare le istituzioni sin dentro al casolare dove in quel momento stava il ricercato numero uno in Italia: Bernardo Provenzano. Quindi, secondo me c'è una sommatoria tra quello che ha già fatto, o meglio non gli hanno fatto fare, perché poi quel blitz a Mezzojuso salta per volontà dall'alto che impediscono alla squadra dei carabinieri del colonnello Riccio, che è a due passi dalla porta del casolare dove c'è Provenzano, con l'altro aspetto che riguarda ciò che avrebbe potuto dire".
Lodato ha quindi ricordato come “tra la mancata cattura di Provenzano e la cattura effettiva trascorrono 10 anni in cui Provenzano totalizzerà una latitanza durata 40 anni. In quei dieci anni, dopo quel chiamiamolo fallito, mancato, annullato blitz dei carabinieri lui resta capo di Cosa nostra. E guarda caso in quei dieci anni in Sicilia non si verifica più un delitto eccellente, ma si realizza qualcosa come un delitto ogni 3-4 mesi in una regione dove c'erano centinaia di omicidi all'anno”.
Estromissione e riabilitazione
Nel corso dell'intervista all'ex pm della trattativa Purgatori ha anche affrontato temi attuali come la decisione del Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, di revocare il provvedimento con cui, proprio in seguito ad un'intervista rilasciata ad Atlantide alla vigilia delle commemorazioni di Capaci, si estrometteva Di Matteo dal Pool della Direzione nazionale antimafia che si occupava delle indagini sulle stragi. Ancora una volta Di Matteo ha evidenziato come quel provvedimento fosse immotivato “sia nella sostanza che nella forma”, tanto che sollevò delle osservazioni al Consiglio Superiore della Magistratura.
Il magistrato, che ha preferito non rispondere alla domanda se dietro alla decisione del Procuratore nazionale antimafia vi potesse essere anche Pietro Riggio, ha poi aggiunto: “Probabilmente, se non ci fosse stata quella estromissione io avrei continuato il mio lavoro alla Procura nazionale antimafia e non mi sarei candidato al Csm. Ora il procuratore nazionale antimafia ha revocato quel provvedimento di esclusione con effetto ripristinatorio. Naturalmente questo provvedimento non potrà avere immediato effetto perché dovrò terminare il mio mandato al Csm. Però, nel momento in cui sarà terminato il mandato, io tornerò nel mio ufficio alla Procura nazionale antimafia continuerò a cercare di dare il mio contributo alla ricerca della verità nelle stragi”.
Messina Denaro e l'input per eliminare Di Matteo
Altro argomento riemerso nelle cronache nelle ultime settimane è quello del progetto di attentato nei confronti di Di Matteo che le cosche palermitane stavano portando avanti su richiesta diretta del superlatitante di Castelvetrano, Matteo Messina Denaro. Alle già note dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vito Galatolo, negli ultimi mesi si sono aggiunte anche quelle di un nuovo collaboratore, Alfredo Geraci, che di fatto conferma l'input giunto dal boss trapanese.
E Di Matteo non si è sottratto alla domanda di Purgatori sul punto, facendo un'analisi generale che deve far riflettere: “Se è vero, come ritengono molti magistrati, che solo pochi anni fa Cosa nostra voleva uccidere con auto bomba un magistrato; se è vero che l'input veniva da Matteo Messina Denaro, allora forse dovremmo essere tutti un po' più cauti nel momento in cui affermiamo che Cosa nostra ha definitivamente abbandonato la strategia di attacco frontale alle istituzioni e che Matteo Messina Denaro è un capo di Cosa nostra che ha definitivamente abbandonato il passato stragista che lo ha caratterizzato e che lo ha portato a una condanna definitiva per le stragi del 1993 e una condanna in primo grado per quelle del 1992”. E poi ancora ha aggiunto: “Si dice che ormai Cosa nostra è finita, pensa soltanto agli affari, ma se è vero che qualche anno fa voleva fare questo attentato allora forse non è vero che la partita è definitivamente chiusa e che in Cosa nostra sia definitivamente tramontata l'idea dell'attacco frontale alle istituzioni. Io penso sempre che lo Stato ha fatto enormi passi nel contrasto a Cosa nostra soprattutto negli aspetti militari, ma la guerra non è finita e non sapremo mai come si potrà evolvere”.
Su questo argomento, riprendendo quanto espresso in un suo recente editoriale, Lodato ha evidenziato come “Matteo Messina Denaro è l'espressione più alta e significativa di quella parte dello Stato che è stata protagonista da convitato di pietra di questa serata e che non vuole arrendersi. Questa la spiegazione del perché, 28 anni dopo, continua ancora la latitanza di Matteo Messina Denaro. Lui è il custode dei segreti più reconditi di tutta la stagione stragista del periodo che va dal 1992 al 1995 e di quello che è accaduto dopo. Non so se sia ancora o meno il capo di Cosa nostra, ma sicuramente è il custode più geloso di quei segreti. E abbiamo visto che fine fanno tutti coloro i quali di segreti ne avevano, certamente meno di Matteo Messina Denaro e questo spiega la sua latitanza”.
“Io - ha concluso il giornalista - non credo che bisogna essere pessimisti, ma credo che dobbiamo avere pazienza e forse, cercando bene Matteo Messina Denaro, gli investigatori riusciranno anche a trovare i 150 kg di tritolo destinati al giudice Di Matteo, che ancora oggi non si trovano. E con ogni probabilità cercando quei 150 kg di tritolo si troverà Matteo Messina Denaro. Entrambi introvabili non perché sono inesistenti, ma perché qualcuno non vuole ancora oggi che saltino fuori. Perché molti dei protagonisti di quella stagione stragista sono ancora vivi e accanto a noi”.
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