Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

di Giorgio Bongiovanni

Il Consigliere togato del Csm intervenuto a "Non è l'Arena"

I numeri erano già noti. La scorsa primavera, durante l'emergenza Coronavirus, i giudici di sorveglianza, per un presunto rischio contagio dentro ai penitenziari, avevano concesso i domiciliari a 223 detenuti in regimi di Alta sicurezza e 41 bis. Una serie di scarcerazioni che erano state determinate anche dalla diffusione della famosa circolare del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), guidato in quel periodo da Francesco Basentini, diffusa il 21 marzo. Un tema già affrontato in una serie di puntate a "Non è l'Arena", il programma di Massimo Giletti in onda su La7, e che ieri è stato ripreso grazie al contributo di numerosi ospiti, su tutti il Consigliere togato del Csm, Nino Di Matteo.
Riprendendo un concetto ribadito anche da Sebastiano Ardita nella puntata dello scorso giugno il magistrato ha aggiunto: "Il dottor Ardita ha fatto una considerazione che condivido pienamente. D'altra parte lui è uno dei massimi esperti se non, a mio avviso, il massimo esperto di questioni di diritto penitenziario, soprattutto applicate ai detenuti mafiosi. Il segnale di resa dello Stato è nei fatti perché quei provvedimenti seguono di poco delle rivolte, organizzate in varie strutture penitenziarie in tutta Italia, e da quello che si evince anche da articoli di stampa sembrerebbe che, così come facilmente sospettabile, quelle rivolte siano state anche concepite e organizzate da Cosa nostra e dalle altre organizzazioni mafiose. Alle rivolte conseguono le scarcerazioni. Quantomeno a livello di segnale è veramente un segnale devastante perché evoca una resa, un'arrendevolezza".
Del resto, non si può dimenticare che proprio per avere benefici carcerari le mafie, ed in particolare quella siciliana, hanno compiuto le stragi.
il patto sporco alt 300 interna"Chi entra a far parte di un’organizzazione mafiosa mette nel conto di potere incappare in problemi con la giustizia e in una condanna detentiva - ha detto Di Matteo rispondendo alle domande del conduttore - Non ha paura del carcere. Temono il carcere a vita, una detenzione troppo lunga o una detenzione con modalità tali da interrompere i loro rapporti con il mondo esterno, da metterli in condizione di non poter più fare i mafiosi mentre sono detenuti. Ecco perché hanno ciclicamente condotto delle battaglie strategiche, anche a colpi di attentati, di ricatti, di rivolte organizzate per ottenere degli scopi precisi: da un lato l’abolizione dell’ergastolo, dall’altro lato l’abolizione o l’attenuazione del 41 bis, da un altro lato ancora l’ottenimento di arresti o detenzione domiciliare che consentissero ai mafiosi, anche durante l’esecuzione della pena, di tornare a casa, di tornare a comandare. E ciò è avvenuto, tante volte. È avvenuto anche in epoca relativamente recente".
Se Giletti ha ipotizzato l'esistenza di una possibile "trattativa occulta", mettendo in rapporto i fatti recenti delle violenze nelle carceri italiane e la circolare del Dap, Di Matteo ha ricordato come "nel nostro Paese è già difficile evocare una Trattativa tra Stato e la mafia, che intervenne ed è stata consacrata in una sentenza della Corte d'Assise di Palermo del 2018, che intervenne proprio negli anni delle stragi. Chi conosce il modo di agire di Cosa nostra di ieri e di oggi, sa che la questione carceraria è centrale. E che sulla questione carceraria si gioca una partita importante e fondamentale del contrasto alla criminalità organizzata. Ai vertici della criminalità organizzata".
Successivamente sono state mostrate le immagini delle intercettazioni in carcere tra Totò Riina, il Capo dei Capi, e la "dama di compagnia", Alberto Lorusso, con il primo che emetteva una vera e propria condanna a morte nei confronti dell'allora pm di Palermo. "Quando sentii per la prima volta quelle parole feci anche un ragionamento da pubblico ministero - ha spiegato Di Matteo - Riuscii anche ad astrarmi che quelle parole erano state pronunciate su di me. Quelle non erano minacce, ma era un invito, in qualche modo, a organizzare presto questo attentato come avevano fatto gli attentati nel 1992. Quell'uomo lì non era un mafioso qualunque, ma il soggetto che era stato già condannato per avere avuto la forza, la capacità di organizzare, eseguire o far eseguire decine di omicidi eccellenti in danno di magistrati, di politici, di esponenti delle forze dell’ordine. Quello era Riina, considerato da tutte le mafie mondiali il punto di riferimento più alto della capacità criminale. Quelle parole lì avrebbero potuto già costituire da sole la prova di un mandato omicidiario. Sarebbero state forse sufficienti per far condannare Riina".
Infine, quando il conduttore ha chiesto di raccontare il significato di una vita vissuta sotto scorta, non nascondendo l'emozione nella riflessione: "Da 27 anni vivo con la scorta, da circa dieci anni sono sottoposto al massimo livello di protezione. Non ho mai fatto, non ho mai potuto fare nella mia città a Palermo nella mia Sicilia, una passeggiata da solo con i miei figli". Poi ha aggiunto: "Non ha importanza parlare di me, ha importanza semplicemente che chi con troppa facilità, certe volte con superficialità, disinvoltura che lasciano interdetti, parla di scorte come status symbol, oppure di giudici protagonisti perché sono sottoposti a queste misure di protezione, riflettesse un attimo su questi dati che ho fornito. Per il resto sopportiamo tutto. Anche il fatto che in esito a queste intercettazioni qualcuno è arrivato a dire che Riina si era reso mio complice, aumentando la mia 'fama' e la mia reputazione".
Ed infine ha concluso in maniera amara: "Continuamente ci si mette in discussione e ci si interroga più volte sul senso che tutto questo ha. Soprattutto quando dura per una vita. E ci si fa sempre la domanda se ne è valsa la pena. Io personalmente rispondo a questa domanda, certe volte angosciante, dicendo che ne è valsa la pena perché comunque ho tentato, con mille difficoltà, mille sbagli e mille errori, di fare il bene per la collettività il lavoro che sognavo fare da ragazzo. Certe volte, a vedere le cose in maniera neutra e distaccata, vedere come ancora oggi certe volte l'approccio della politica e del potere nei confronti del problema mafia sia un approccio superficiale si pensa che forse non ne valeva la pena".





Il dibattito sulle scarcerazioni
Nel corso della puntata, anche grazie il servizio di Danilo Lupo che ha mostrato uno dei boss scarcerati la scorsa primavera, Gino Bontempo, tranquillamente a casa ai domiciliari con tanto di telefono cellulare in mano (ovviamente vogliamo sperare che siano inibiti i contatti con l'esterno) si è approfondito il tema delle carceri con la presenza in studio di ospiti come la giornalista Sandra Amurri, Gian Domenico Caiazza (Presidente Unione Camere Penali), Rita dalla Chiesa e, in collegamento video, Luigi de Magistris. Quest'ultimo ha parlato delle scarcerazioni avvenute in un momento particolare del nostro Paese definendole un "oggettivo favore alle mafie", Caiazza ha ribadito che i provvedimenti adottati non riguardavano solo l'emergenza Coronavirus.
Certo è che il Dap nella gestione Basentini ha avuto comunque delle responsabilità (tanto che vi sono state le dimissioni). Un dato che emergerebbe anche nelle deposizioni in Commissione antimafia dello stesso ex numero uno del Dap, di Romano e Caterina Malagoli, con quest'ultima che aveva evidenziato la "pericolosità" della circolare del 21 marzo. Una circolare che, secondo la Amurri, "ha triplicato le scarcerazioni in quanto si scaricava sul tribunale di sorveglianza ed i giudici la responsabilità di verificare e decidere se mandare a casa o meno un detenuto con certe patologie".
Anche Rita dalla Chiesa, figlia del generale ucciso in via Carini il 3 settembre 1982, ha espresso le proprie amarezze sia sull'argomento dei boss ai domiciliari ("Fermo restando che è sicuramente necessario che i criminali siano curati, ci si chiede il perché questo debba avvenire fuori dal carcere") che sull'isolamento vissuto dal padre prima di morire. "Mio padre è ucciso quando è lasciato solo anche nel fatto di tentare di screditare, ridicolizzare e minimizzare".

La testimonianza di Rino Germanà
Successivamente è stato intervistato Rino Germanà, oggi questore in pensione, che il 14 settembre del ‘92 si salvò dall’agguato ordito nei suoi confronti dai boss mafiosi Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano.
Sui motivi per cui il poliziotto dovesse morire si è investigato a lungo, ma la vicenda non è mai stata del tutto chiarita. "La mafia mi voleva morto - ha detto Germanà ricordando quei momenti - L'auto mi affianca, arrivano gli spari. Loro mi superano ed io, ferito, istintivamente non rimango impietrito. Scendo e sparo. Poi vado verso la spiaggia.
Io non ho mai dato loro le spalle e sono sempre stato di fronte a loro. Si dice che alla guida vi fosse Messina Denaro e poi Bagarella e Graviano. Io mi sono occupato di tante cose. Non so cosa diede fastidio delle mie attività. E Riina nelle intercettazioni parla lamentandosi col gruppo di fuoco perché 'Germanà non è morto'".
"Quante volte penso a quei momenti? - ha proseguito - Nell'arco della giornata a volte ci sono momenti in cui uno pensa al passato e penso anche questo. Mi rincuora che dopo l'attentato io e mia moglie abbiamo avuto un altro figlio".
Nel corso della trasmissione è stato ricostruito anche il rapporto tra Germanà e Paolo Borsellino, che lo voleva con sé a Palermo così come gli disse il 4 luglio durante il saluto alla Procura di Marsala, ed anche l'indagine condotta da Germanà su disposizione dei magistrati di Marsala Camassa e Russo. "Io sviluppai delle indagini che consegnai intorno al 20 maggio 1992, prima della strage di Capaci". Punto nodale della delega era identificare un parlamentare di nome Enzo, riconducibile a un’azione che tendesse a influenzare l’esito del processo per l’omicidio Basile, che si era risolto con un incontro promosso dal notaio Pietro Ferraro nei confronti di Scaduti. "Io - ha ricordato Germanà - Dovevo identificare questo parlamentare di nome Enzo”. Viene ricostruito dallo stesso Massimo Russo, intervistato da Giletti, che "nell'accertamento si evidenziò che questi sarebbe stato Enzo Inzerillo, politico di area manzoniana. Incredibilmente Germanà, la cui carriera era slanciatissima, tornerà a fare il Commissario a Mazara del Vallo. E noi diciamo che è stato mandato a morire a Mazara del Vallo. Una scelta criminale, se fatta in malafede, da incompetenti, se in buona fede".

ARTICOLI CORRELATI

L'arroganza del potere - Video-intervista
Il fallimento nella lotta alla mafia del ministro Bonafede
di Giorgio Bongiovanni

Stragi, Csm, Dap. Di Matteo intervistato a Non è l'Arena

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos