Il consigliere togato sentito su caso Bonafede, mancata nomina Dap, scarcerazioni e molto altro
C'era attesa per l'audizione del consigliere togato Nino Di Matteo davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Da quel 3 maggio in cui il magistrato raccontò per la prima volta pubblicamente, durante la trasmissione di La7, Non è l'Arena, la vicenda della sua mancata nomina al vertice del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), con tanto di proposte e clamorosi ripensamenti in appena 24 ore da parte del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. E' passato poco più di un mese, ma il rumore su quanto avvenuto, così come per le scarcerazioni dei detenuti al 41 bis ed in Alta sicurezza, si è tutt'altro che attenuato.
Perché ad oggi ci sono risposte che il Guardasigilli non ha ancora dato, in particolare sui motivi oggettivi che lo portarono a preferire al pm che indagò sulla trattativa Stato-mafia il magistrato di Potenza, Francesco Basentini. Prima o poi si troverà a dover dare ulteriori spiegazioni su tutta la vicenda (anche oggi è stata chiesta una nuova audizione dopo quella dello scorso 21 maggio), intanto i fatti raccontati da Di Matteo hanno offerto ulteriori particolari rispetto alle telefonate e agli incontri che si susseguirono tra il 18 ed il 20 giugno 2018 ricordando che già nei primi giorni di quel mese, in alcuni articoli di giornale, era comparsa l'indiscrezione di una sua possibile nomina a capo del Dap.
A colloquio con Bonafede
"A giugno del 2018 ricevetti una proposta per assumere la direzione del Dap. Ricordo la telefonata, alle 13, del ministro Bonafede. Fino a quel momento, lo avevo incontrato solo 2-3 volte in occasione di alcuni dibattiti. In quel momento, il 18 giugno 2018, ero un magistrato della procura nazionale Antimafia ed io quel giorno ero a Palermo. Bonafede mi disse che aveva pensato a me o come capo del Dap e mi fece capire che la nomina avrebbe prodotto effetti immediati o come direttore degli Affari penali. Già al telefono, il ministro mi specificò che poiché il ministro uscente (Andrea Orlando; Ndr) - cito le parole Bonafede - aveva scorrettamente nominato, dopo l'esito delle elezioni, la dottoressa Donati, questo secondo incarico mi sarebbe stato attribuito solo in un secondo momento, a settembre-ottobre, se la dottoressa Donati avesse rinunciato a questo incarico per un altro. Mi disse che per lui quella nomina aveva un significato simbolico perché incarico ricoperto prima dal dottor Giovanni Falcone. Mi propose, sostanzialmente, o di fare il generale subito e certamente, oppure di accettare un ruolo futuro di capitano se avesse convinto la Donati ad abbandonare il ruolo che le era stato attribuito"."Quella telefonata secondo me è importante - ha aggiunto - Io chiesi al ministro 48 ore di tempo per dare una risposta, il ministro mi disse che voleva una risposta veloce perché voleva inoltrare subito al Csm la richiesta di collocamento fuori ruolo, perché avrebbe voluto sfruttare il plenum del mercoledì successivo. '48 ore sono troppe, mi dia una risposta prima'. Presi atto dell'urgenza e dissi che lo avrei incontrato la mattina dopo, ma nel corso della telefonata "accennai alle reazioni di alcuni detenuti delle sezioni del 41 bis appena saputo dai giornali della possibilità di una mia nomina. Accennai al ministro i contenuti di una nota del Gom in data 9 giugno e mi sembrava corretto chiedere se ne fosse a conoscenza.
Lo feci senza alcun timore di violare alcun segreto perché avevo avuto modo di leggere quella nota che avevo visto essere indirizzata, oltre che a tutta la scala gerarchica del Dap, e quindi al ministero, anche ad alcune procure della Repubblica, come quella de L’Aquila e Roma. Il ministro mi disse che aveva avuto una qualche contezza. Dalla risposta telefonica del ministro non sono stato in grado di capire quanto fosse informato dei contenuti di quella nota. Mi disse sì sì, sì, ma non scendemmo nei particolari".
Di Matteo ha ribadito più volte nel corso dell'audizione che "nel corso della telefonata il ministro Bonafede", riferendosi alle alternative prospettate, "mi disse: scelga lei, ripetuto tre volte ed al termine della telefonata".
Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede
Nessun dubbio sul Dap
"Io - ha continuato Di Matteo - non ho avuto nessun dubbio. Già lo stesso pomeriggio ho riferito la telefonata a familiari ed amici. Stavo lavorando con il giornalista Saverio Lodato alla redazione di un libro pubblicato a settembre 2018 e gli dissi che non potevo lavorare e che non avevo alcun dubbio per accettare il Dap. Io sono venuto a Roma il giorno dopo, il 19 maggio, non per discutere con il ministro e per vedere quale delle due opzioni fosse preferibile, io ero sicuro. Sono andato dal ministro, visto che mi disse di scegliere, nell'intenzione di comunicare la risposta di accettazione dell'incarico di capo del Dap. Non avevo dubbi ad accettare quell'incarico perché molte indagini giudiziarie mi avevano fatto sempre più comprendere quanto, soprattutto negli ultimi anni, una gestione corretta ed efficiente del sistema penitenziario poteva contribuire agli obiettivi della lotta alla mafia e al terrorismo. Volevo dare un contributo nell'azione di contrasto complessivo alla mafia".
Quindi ha proseguito la ricostruzione di quell'incontro avuto nell'ufficio del Guardasigilli in via Arenula: "Alle 11 io e Bonafede ci incontrammo al ministero, ho un ricordo nitido. Dopo i convenevoli di rito gli dissi che accettavo l'incarico al Dap, meno di 24 ore dopo la sua richiesta al telefono. Ma il ministro cominciò a dire che l'incarico al Dap non era confacente alle mie attitudini, che in fondo ci si occupava di rapporti con i sindacati e di appalti. Mi permisi di dire che da molte indagini si capiva come i mafiosi stragisti detenuti che potenzialmente potevano decidere di collaborare, erano in realtà condizionati dalla controspinta di aspettarsi un alleggerimento delle condizioni del 41 bis. Il Dap si occuperà di appalti, ma nella mia prospettiva la direzione del Dap era fondamentale per un contrasto a 360 gradi alla mafia. Lui mi disse che non la vedeva questa possibilità e continuò a chiedermi di accettare gli affari penali, ma prima doveva convincere Donati ad accettare altro incarico. Mi ricordò che era l'incarico avuto da Falcone. Io risposi al ministro che l'assetto organizzativo dal '91 al 2018 era cambiato. Falcone aveva una interlocuzione diretta con Martelli mentre quello attuale dipende dal Dag".
"Ero rimasto stupito dal ridimensionamento che il ministro faceva del ruolo del Dap - ha proseguito - ed anzi in quella occasione mi disse che aveva pensato al dottor Basentini, dopo meno di 24 ore dall'avermi fatto la proposta. Quando vado lì per portare la mia risposta positiva, nello stesso giorno il ministro aveva fatto la richiesta al Csm per il collocamento fuori ruolo del dottor Basentini".
Poi ha anche ribadito di non aver mai chiesto "né direttamente né indirettamente al ministro o altri esponenti politici alcunché. Io sono stato cercato, non ho contattato nessuno, ed ho ricevuto una precisa proposta. E' chiaro che ci sono rimasto male, ma non per me, ma per quell'improvviso dietrofront".
Una volta uscito dal ministero, ha raccontato ancora Di Matteo, "presi il telefono, richiamai il ministro e gli chiesi di potergli parlare di nuovo il giorno dopo, lui mi disse di sì e quando andai, la mattina del giorno successivo, gli dissi di non tenere assolutamente in conto la mia disponibilità per gli Affari penali, che era inutile che mi ricontattasse a settembre". Bonafede, ha aggiunto il togato del Csm, "insistette più volte, e al momento di congedarci mi disse 'ci sto rimanendo male, la prego di rifletterci, per quest'altro incarico non ci sono dinieghi o mancati gradimenti che tengano'. Non chiesi - ha continuato Di Matteo - chi o cosa avesse rappresentato il problema che lui mi prospettava di diniego o mancato gradimento. Mai mi sarei sognato di chiedere al ministro cosa fosse accaduto". "Io - ha proseguito il consigliere togato - ho ritenuto di dover raccontare la verità e non me ne sono pentito. Perché a questo punto la vicenda non è più personale ma è diventata istituzionale nel momento in cui il ministro Bonafede fa dietrofront in 22 ore facendomi intendere che per il ruolo di capo Dap aveva ricevuto dei dinieghi. A chi si riferisse io non lo so, lo può dire solo Bonafede".
Di Matteo aveva già dato alcune spiegazioni in un'intervista al quotidiano La Repubblica. Una volta riferito i fatti Di Matteo ha anche precisato come "fare passare il tutto per percezioni non è corretto".
L'ex capo del Dap, Francesco Basentini
Il perché della telefonata da Giletti
Il consigliere togato del Csm ha spiegato i motivi che lo hanno portato a parlare di questa vicenda a due anni di distanza spiegando di non averlo fatto prima "per ragioni istituzionali". "Nonostante avessi giudicato gravemente incomprensibile la decisione, non volevo comunque delegittimare il lavoro del ministro Bonafede e del Capo del Dap Basentini" ha proseguito rispondendo ad alcune domande dei parlamentari della Commissione sui motivi che lo portarono ad intervenire alla trasmissione condotta da Massimo Giletti.
"Poi - ha spiegato - sono accadute alcune cose che mi hanno indotto a parlare: le rivolte dei detenuti, le scarcerazioni di detenuti per mafia, avevo letto sui media della circolare del 21 marzo, le dimissioni di Basentini e il fatto che iniziavano nuovamente a filtrare le voci di un incarico a me come capo del Dap".
Di Matteo ha ricordato anche gli articoli di giornali come "Il Riformista" che lo indicavano come possibile nuovo vertice del Dap immediatamente dopo la nomina a vice di Roberto Tartaglia, collega con cui condusse le indagini ed il processo sulla trattativa Stato-mafia. Poi vi fu anche la nomina di Dino Petralia al vertice del Dap e a quel punto non vi erano davvero ulteriori motivi per non intervenire su una vicenda che non era mai stata chiarita nonostante già nel 2018 proprio sulla stampa era emerso il clamoroso "niet" di Di Matteo al Dap.
Le scarcerazioni
"Era chiaro che ero preoccupato. C'erano state delle rivolte che, dall'esterno, ho pensato che potessero essere organizzate a un livello più alto di quelli che salgono sui tetti. Poi sono conseguite le scarcerazioni", tra cui alcune dal 41-bis. "In quel momento ero preoccupato e anche abbastanza arrabbiato - ha continuato Di Matteo - Confesso che quello che stava accadendo con le scarcerazioni a me faceva ricordare delle vicende processuali che a Palermo abbiamo vissuto e approfondito. Mi preoccupava sostanzialmente il dato di una sostanziale analogia tra quanto avvenne nel 1993, quando ci furono stragi in contemporanea a Roma e Milano tanto da far ritenere al presidente del Consiglio che era in corso un colpo di Stato. Sappiamo che vennero fatte in funzione di un ricatto allo Stato per alleggerire il 41-bis e far piegare le ginocchia alle istituzioni". "Effettivamente nel processo sulla trattativa Stato-Mafia - ha ricordato in Commissione antimafia - noi apprendemmo dai vertici dello Stato, e lo disse Giorgio Napolitano, che tutti i vertici dello Stato ritenevano che quelle bombe fossero un 'aut aut' per alleggerire il circuito penitenziario".
Una volta conclusa la propria ricostruzione di quei giorni è stata la volta delle domande fatte dai vari membri della Commissione antimafia. E proprio rispetto ad una domanda sulle scarcerazioni avvenute durante i mesi di emergenza Covid-19 ha aggiunto: "Penso che scarcerare 250-260 mafiosi sia stato un segnale devastante dal punto di vista simbolico e sia stato un segnale che dal punto di vista mafioso purtroppo sarà stato visto di cedimento, un segnale per loro di speranza. Per me il segnale è stato questo, perché non era mai accaduto che siano stati ammessi agli arresti domiciliari. Non era mai accaduto, neanche in situazioni di gravissima salute per Riina e Provenzano, che siano stati ammessi i domiciliari per i boss. I mafiosi detenuti con condanna all'ergastolo vivono di segnali e speranze che si legano anche all'alleggerimento del sistema carcerario".
A domanda rispondo
A chi gli ha chiesto se quella mancata nomina al Dap rientrasse in una nuova logica di trattativa Stato-mafia o se non fosse stato opportuno denunciare già allora certi fatti ha risposto con chiarezza che "se avessi avuto notizie di reato avrei avuto la sede per riferirle, ossia le procure della Repubblica, se avessi avuto elementi per ritenere che il ministro aveva cambiato idea perché indotto dai mafiosi lo avrei detto. Non ho timore delle conseguenze dei miei atti. In quel momento, l'idea che ho avuto è che il ministro non era in grado di valutare bene certe dinamiche della lotta alla mafia, visto che a proposito del Dap affermava che l'aspetto preponderante del Dap erano gli appalti ed i rapporti con i sindacati". E rispetto a quelle dichiarazioni dei boss che furono riportate dal Gom ha aggiunto: "Non ne ho parlato al ministro per farmi bello, ma perché avevo dubbi che non ne sapesse nulla, e lo volevo avvertire, per un senso di collaborazione istituzionale. Io continuo a non sapere se l'avesse letta in quel momento o meno. Quando parlammo non l'aveva nelle mani. Quella nota era rivolta a uffici ministeriali, non al ministro o al capo di gabinetto, quindi in quel momento ho pensato di essere leale con una persona che mi aveva scelto come capo del Dap".
A chi ha puntato il dito contro la sua scelta di intervenire nella trasmissione di La7, asserendo che così facendo si sia compromessa "la credibilità istituzionale", il magistrato ha risposto con nettezza che questa "era già compromessa nel 2018, non ora che si cerca di fare chiarezza".
E proprio per fare chiarezza Di Matteo ha anche escluso che il ministro Bonafede, nel fargli la proposta per un posto al Dag, possa avergli parlato della possibilità di ristrutturare e rimodellare l'ufficio.
La nota del Gom
Nel corso dell'audizione il magistrato ha spiegato anche i contenuti della nota del Gom (reparto di polizia penitenziaria), datato 5 giugno, laddove sono riportate delle reazioni anche di alcuni mafiosi detenuti al 41 bis: "Per quello che mi riguardava direttamente, alcuni esponenti di Cosa nostra, come Cesare Lupo e Alessandro Lo Piccolo ed altri. Si trattava di sostanziali proteste ad alta voce contro quelle ipotesi (la nomina di Di Matteo al Dap, ndr). Uno diceva che se viene Di Matteo siamo tutti consumati, l’altro che dobbiamo fare “l’ammuina” e cioè organizzare delle proteste e altri ancora dicevano che qui ci vogliono chiudere per sempre, perché vogliono riaprire Pianosa e Asinara. La cosa che mi colpì, non erano tante le esternazioni, ma che a quella nota era allegata un’altra nota proveniente dalla casa circondariale de L’Aquila nella quale sostanzialmente veniva riportato un episodio che un detenuto, da un piano all’altro del carcere, aveva ordinato a tutti gli altri del 41bis che per protesta dovevano mettersi a rapporto con il magistrato di sorveglianza". Di Matteo ha anche parlato di un'altra nota, del giorno successivo, in cui si dava conto di come "51 detenuti al 41bis di quel carcere si erano effettivamente messi a rapporto con il magistrato di sorveglianza. Quindi sostanzialmente, a me è rimasta la curiosità su cosa avessero scritto in quelle istanze e sentiti dal magistrato di sorveglianza e cosa dissero, ma queste non furono delle reazioni estemporanee, ma fu la contestualità di 51 detenuti che chiedono di parlare con il magistrato di sorveglianza per protestare".
Allontanamento pool stragi
Tra gli argomenti toccati nel corso dell'audizione anche la vicenda dell'allontanamento dal pool della Procura nazionale antimafia che indaga sulle "stragi ed i mandanti esterni". Una questione che è ancora oggetto di valutazione al Consiglio superiore della magistratura e che nelle scorse settimane è tornata di attualità in quanto rievocata nel corso della trasmissione di Non è L'Arena, con la telefonata del Procuratore nazionale Cafiero de Raho. "Se avessi raccontato qualcosa di segreto rispetto alle riunioni, penso che sarebbe stato obbligo denunciarmi all'autorità giudiziaria" ha detto Di Matteo rispondendo a chi gli chiedeva il perché era stata estromesso. Poi ha aggiunto: "L’intervista era stata resa prima della riunione e mandata in onda dopo. Per cui non potevo parlare di una riunione che ancora non c'era stata. De Raho ha dato una sua versione in Tv, io ho difficoltà a rispondere per non violare il segreto. Quando ho letto il provvedimento di immediata estromissione ho fatto delle osservazioni al Csm per contestare nel merito e nella legittimità e il Csm ha avviato una pratica attualmente pendente ed è secretata. Non posso dire altro".
E su quanto detto in merito alla figura di Luca Palamara, ha sottolineato: “In un’intercettazione ambientale una decina di giorni prima rispetto al provvedimento di esclusione dal pool, parlando con un altro magistrato della direzione nazionale antimafia, il dottor Cesare Sirignano, si era lamentato del fatto che il dottor Cafiero mi avesse inserito nel pool stragi”. “Nel momento in cui viene pubblicata per la prima volta dal sito La Repubblica la notizia dell’espulsione - ha ricordato - il dottor Palamara manda a Sirignano un messaggio ‘grande Federico (de Raho, ndr). E il dottor Sirignano risponde ‘noi siamo seri’. Perché non lo so”.
Palamara e la trattativa
Ricordando la serie di "attacchi virulenti" ricevuti durante il processo Stato-mafia, il magistrato palermitano ha riferito un episodio molto particolare che riguardava, ancora una volta, Palamara: "Se non ricordo male, a un certo punto, nel momento più aspro della polemica dovuta al conflitto di attribuzione Antonio Ingroia, che all'epoca era ancora alla Procura di Palermo e conduceva le indagini con noi, disse, a me e all'allora procuratore Messineo, una cosa buttata lì, anche perché noi l'abbiamo subito stoppato. Io all'inizio pensavo che scherzasse, disse che a Roma aveva incontrato un noto giornalista, il direttore di un noto quotidiano, che gli aveva detto che dal Quirinale volevano sapere se c'era la possibilità di un qualche contatto con la Procura di Palermo, per risolvere questa situazione, e in quel caso il punto di collegamento poteva essere sperimentato dal dottor Palamara". "Io pensavo che Antonio scherzasse - ha aggiunto - sia io sia Messineo, e Ingroia era d'accordo, 'stiamo scherzando, questi vogliono fare una trattativa sulla trattativa', questa fu una battuta. Fu una cosa estemporanea. Ricordo che fece il nome come possibile mediatore di Palamara. In quel momento - ha spiegato Di Matteo - non capivo cosa potesse entrarci con le vicende del procedimento sulla trattativa Stato-mafia e con le rimostranze del Quirinale. Questo è un dato di fatto. Non sono mai più tornato con Ingroia su questa cosa ma ricordo questo riferimento estemporaneo, credo che il direttore a cui aveva fatto riferimento Ingroia fosse l'allora direttore di Repubblica Ezio Mauro, Ingroia potrebbe essere più preciso. Io ricordo che eravamo nella stanza del procuratore, Ingroia tornava da Roma e fece questo riferimento che noi bloccammo subito anche Ingroia era convinto che andasse bloccato subito, la pensava esattamente come me". Tra gli interventi c'è stato anche quello del presidente Nicola Morra. Quest'ultimo ha ricordato una frase espressa da Matteo Renzi che, in occasione del dibattito sulle mozioni sfiducia al ministro Alfonso Bonafede in Senato, dopo che era stato richiamato in Aula il nome dello stesso Di Matteo, aveva rivolto un "pensiero affettuoso" al presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. Il consigliere del Csm ha semplicemente risposto che, pur avendo notato quel riferimento, non può sapere "perché in quel momento il senatore Renzi abbia sentito la necessità o l'opportunità di ringraziare il presidente Napolitano, non lo dovete chiedere a me".
L'ex consigliere togato del Csm, Luca Palamara
La circolare del 21 marzo
Tra le domande rivolte al consigliere togato anche una sulle valutazioni rispetto alla ormai famosa circolare del 21 marzo, oggetto di approfondimento di numerose audizioni della Commissione antimafia stessa, sospesa due giorni fa dai nuovi vertici del Dap. "Appena vidi la circolare saltai in aria e pensai ad un gravissimo errore. C'era già stato il Cura Italia, che prevedeva l'ammissione alla detenzione domiciliare per coloro che avevano un residuo di pena di un anno e sei mesi che rispondeva all'esigenza di sfoltire le carceri. C'erano già state le rivolte. E nel documento non c'era distinzione tra condannati per reati gravi e meno gravi. Si mettevano sullo stesso piano il ladro di polli ed il condannato per stragi". "In particolare mi colpiva il riferimento a considerare in particolare situazione di rischio contagio tutti gli ultra settantenni. Molti capi di Cosa nostra siciliana hanno oltre settant'anni. Ed ho anche il ricordo che tra i punti del papello di Riina, di cui ci parlano i pentiti ed anche scritto nel documento di Ciancimino, non asseverato come certamente veritiero ma neanche smentito, si parlava di affievolire il 41 bis, abolire l'ergastolo e di non dare il carcere a chi aveva oltre 70 anni. Questo ho pensato". Alla domanda su cosa avrebbe fatto se fosse stato capo del Dap Di Matteo ha risposto che "non solo non avrei mai fatto quella circolare, ma comunque avrei avvisato il ministro e il giorno dopo l'avrei revocata. Perché il diritto alla salute deve essere garantito a tutti. Ma se c'è un'esigenza di deflazionare il numero dei detenuti si comincia dai poveracci che ci sono nelle carceri".
Di Maio e la proposta per essere ministro dell'Interno
Altra rivelazione del magistrato è quella rispetto un incontro con Luigi Di Maio nel settembre 2017, a Palermo, e pochi mesi prima delle elezioni del 2018, a Roma: "Io sono stato cercato da Luigi Di Maio che mi propose di fare il ministro dell'Interno. In realtà la prima volta Di Maio mi parlò o del ministero della Giustizia o di quello dell'Interno. La seconda fu più preciso, e mi propose, sempre nell'eventualità che fossero andati al Governo da soli o con alleati che non avessero avuto nulla da dire su questo, il ministero dell'Interno. Io all'epoca avevo completato la requisitoria del processo trattativa, ma ancora non c'era stata sentenza. Di Maio mi disse: 'Non lo annunciamo prima, la metteremmo come magistrato nel mare magnum delle polemiche'". Dopo quelle interlocuzioni, ha continuato Di Matteo "nessuno mi ha più chiamato né io ho chiesto nulla, non ho mai cercato nessuno. Ho espresso le mie opinioni e i miei convincimenti in tema di giustizia in occasioni pubbliche. E in queste occasioni non ho chiesto 'perché non mi avete cercato più?'. Io leggevo i giornali e vedevo che si stava facendo il governo, ma quando vengo chiamato da Bonafede per fare il capo del Dap immagino che lui sappia che mi era stata proposta una cosa da far accapponare la pelle, il ministero dell'Interno. Quando mi si dice del mancato gradimento e del diniego non posso pensare ad un equivoco. Perché non sono quello che va a cercare il posticino o che viene chiamato per la prima volta. Chi mi chiama per fare il capo del Dap devo presumere conosca che c'è un pregresso, ma non so se avessero parlato tra di loro", Bonafede e Di Maio, di quell'offerta per il Viminale.
Il ministro degli esteri ed ex capo politico del M5s, Luigi Di Maio
Le domande per Bonafede
Proseguendo nell'audizione Di Matteo, rispetto alla vicenda specifica della mancata nomina al Dap ha fatto alcune considerazioni: "Nel momento in cui mi venne fatta la proposta non era un periodo di normale attività di un magistrato antimafia. Nell'ambito dell'inchiesta sul processo Stato-mafia era accaduto di tutto. Non fu un'indagine facile, né il processo fu facile. Avevamo come imputati ufficiali dell'arma, ex direttori dei Servizi, non c'erano solo Riina e Bagarella. Nel processo è emerso che un Capo dello Stato come Oscar Luigi Scalfaro aveva mentito e fu possibile dirlo sulla base di documenti messi a disposizione dallo stesso Quirinale nel periodo della presidenza Mattarella. Ci imbattemmo anche nelle telefonate tra Mancino ed il Presidente della Repubblica allora in carica, Giorgio Napolitano e vi fu una reazione particolare". Di Matteo ha così ricordato il conflitto di attribuzione sollevato dal Capo dello Stato nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo, ed anche il procedimento disciplinare che fu aperto nei suoi confronti nonostante avesse immediatamente dichiarato che le intercettazioni (poi distrutte su disposizione della Consulta) non erano penalmente rilevanti. Quindi ha ricordato gli attacchi della carta stampata, quando morì il consigliere giuridico del Quirinale Loris D'Ambrosio, che fu interrogato dai pm dopo le intercettazioni con Mancino, così come "le parole dei mafiosi e la condanna a morte di Riina".
"Anche per questo rimasi sorpreso del repentino dietrofront di Bonafede. Lui sapeva chi aveva chiamato per l'incarico. - ha proseguito Di Matteo - Bonafede sapeva che stava chiamando non un magistrato gradito a tutti, ma un magistrato che molti non gradivano".
E sempre rimanendo sul punto ha ancora una volta ribadito che per questo motivo "l'equivoco non esiste e non c'è nemmeno da fare una pace. Perché non c'è stata una guerra. Questa non è una tematica di invidiuzze e posti che si reclamano. Io non avevo bisogno, e non ho mai avuto bisogno di andare al ministero o di stare a rivolgermi a correnti e correntine".
Alla luce di tutto questo Di Matteo, rivolgendosi idealmente al ministro della Giustizia, ha posto alcuni quesiti non solo legittimi ed opportuni, ma determinanti: "Quello che io mi chiedo è: perché mi hai chiamato? Perché mi hai esposto ancora rispetto ai mafiosi che non mi volevano? Perché mi hai fatto fare la figura di quello che viene chiamato e poi, come si dice in gergo mafioso, viene 'posato'? Io ero alla procura Antimafia, ora sono al Csm. Io non avevo bisogno e non ho bisogno di andare al ministero. Io non ho chiesto niente a nessuno, non ho capito il motivo del dietro-front”. Di fatto, dunque, il magistrato Di Matteo, così come ha ripetuto più volte nel corso dell'audizione, per tutti gli incarichi (ministro della Giustizia, ministro degli Interni e Capo del Dap) non ha mai cercato nessuno, ma ha ricevuto proposte e voltafaccia per bocca del Capo politico del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio e, successivamente, dal Guardasigilli Alfonso Bonafede.
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Foto © Imagoeconomica
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