di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari
Il 27° anniversario anche in memoria di Giovanna Maggiani Chelli
L'odore del gas, i calcinacci, le urla delle persone, l'incendio che divampava tra i palazzi. E' questa lo scempio che, forze dell'ordine, vigili del fuoco e soccorritori si sono trovati di fronte in via dei Georgofili, a Firenze, dopo lo scoppio di una bomba all'una e zero quattro, nella notte tra il 26 ed il 27 maggio 1993.
Quello scoppio danneggiò gravemente parte della Galleria degli Uffizi e del Corridoio Vasariano, distruggendo per sempre alcune opere d'arte, ma soprattutto stroncò la vita di Dario Capolicchio, 22 anni, bruciato davanti agli occhi della fidanzata Francesca Chelli, e della famiglia Nencioni: Fabrizio, la moglie Angela Fiume e le due bimbe Nadia, 9 anni, e Caterina, 50 giorni, oltre a una quarantina di feriti. Così Cosa nostra decise di colpire il cuore dello Stato in "Continente".
Duecentocinquanta chili di tritolo, piazzati all’interno di un furgone Fiat Fiorino, provocarono un cratere della lunghezza di 4 metri e 20, profondo un metro e 30.
Ventisette anni dopo quella che si vive nel capoluogo toscano è una giornata di memoria anomala. La prima senza la forza e la determinazione di Giovanna Maggiani Chelli, Presidente della Associazione Familiari Vittime dei Georgofili, ma prima ancora madre coraggiosa ed impavida che ha combattuto strenuamente fino al suo ultimo giorno di vita (è deceduta lo scorso agosto) nella pretesa di giustizia e verità sui mandanti esterni delle stragi del ‘93.
E proprio da quella sua lotta si riparte oggi. Perché le sentenze fin qui avute la restituiscono solo in parte. Si conosce il volto dei mafiosi responsabili dell'attentato. Il 6 giugno 1998 boss mafiosi del calibro di Bernardo Provenzano, Matteo Messina Denaro (tuttora latitante), Leoluca Bagarella, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Filippo Graviano, Cosimo Lo Nigro, Antonino Mangano, Gaspare Spatuzza, Salvatore Benigno, Gioacchino Calabrò, Cristofaro Cannella, Luigi Giacalone e Giorgio Pizzo sono stati condannati all'ergastolo per le stragi di Firenze, Roma e Milano. Le posizioni di altri due imputati di primo piano, come il capo dei capi, Totò Riina e il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, vennero invece stralciate (nel 2000 entrambi vengono condannati ugualmente all'ergastolo). Il 27 luglio del '99 venne depositata la motivazione della sentenza del primo processo nella quale le inquietanti “trattative” tra Stato e mafia riaffiorano con tutte le loro ombre. Il 6 maggio del 2002 la Corte di Cassazione confermò le 15 condanne all'ergastolo per i boss di Cosa Nostra ritenuti mandanti ed esecutori delle stragi del ‘93.
Ma ancora oggi sono tanti i quesiti che girano attorno a quel cambio di strategia, da parte di Cosa nostra, che spostò l'obiettivo dalla Sicilia (dove nel 1992 morirono Falcone e Borsellino nello spazio di 57 giorni) fino al cuore dell'Italia.
Perché è difficile credere che dietro quella scelta sui luoghi da colpire vi fosse solo l'idea dei boss di Cosa nostra.
Salvatore "Totò" Riina © Barbara Rizzo/Epa
Le parole in carcere di Riina
Sul punto persino il Capo dei capi corleonese, Totò Riina, quando fu intercettato in carcere assieme al compagno d’ora d’aria Alberto Lorusso ha contribuito ad aumentare i dubbi. Perché in quelle conversazioni, sfogandosi, da una parte si assume la piena responsabilità di decine di assassini eccellenti (Falcone, Chinnici, dalla Chiesa, Borsellino), dall’altra sembra prendere le distanze da quella strategia che fu condotta dai suoi sodali, dopo il suo arresto. “Se io sono siciliano perché devo andare a fare cose fuori dalla Sicilia?” si domandava "u'curtu" il 18 agosto del 2013, intercettato dalle cimici della Dia mentre passeggiava nel cortile del carcere milanese di Opera. Quindi aggiungeva riferendosi al cognato Leoluca Bagarella: “Hai fatto quello che ti ha detto lui, 'te ne devi andare fuori a farli'... e se n’è andato a Firenze... Gli ho detto: Che ci vai a fare a Firenze, a Firenze ci devi mandare a lui, a Binnu Provenzano... (...) Binnu Provenzano è cresciuto nelle mie mani, è cresciuto con me, perciò poteva essere un personaggio come me, purtroppo...”. In un'altra conversazione parlava anche dei fratelli Graviano, capimafia di Brancaccio ("I Graviano per me non contano, non ha mai contato né contano... Devi dirigere a me che me ne devo andare a Firenze? Io me ne vado nella piazza di Palermo, incomincio a cercare chi di dovere!") e in un ulteriore passaggio alzava il tiro ("Non è che voglio offendere le idee degli altri, per l’amor di Dio, però debbo dire che fa parte di essere un carabiniere - il riferimento è per Provenzano, ndr - Al governo gli devo vendere morti gli devo vendere, al governo morti gli devono dare”).
Le stragi del 41 bis
In questi giorni in cui l'argomento carceri è tornato alla ribalta, con le clamorose scarcerazioni di boss mafiosi e il regime "41 bis" che viene messo in discussione da sentenze della Cedu e della Consulta, si dovrebbero ricordare proprio quel che avvenne in quell'anno terribile. In un'intervista al nostro quotidiano Giovanna Maggiani Chelli aveva lanciato l'allarme che sul regime di carcere duro si potesse aprire un grave dibattito. "Noi - diceva la Chelli - notiamo che c'è un lavoro molto forte che sta andando in questa direzione con tante persone che sono pronte ad abolire il 41 bis. In alcuni processi è emerso che i mafiosi in carcere, tra detenuti, avevano fatto delle collette proprio per far abolire il regime carcerario e sono note le proteste di Cosa nostra. Le stragi del 1993 avvengono per questo. Il compianto magistrato, Gabriele Chelazzici ha sempre detto che quella dei Georgofili 'è stata la strage del 41 bis'. Noi questo non lo possiamo dimenticare".
E poi ancora aggiungeva: "Di 41 bis non ne può più Giuseppe Graviano.E per evitare che parli diventa una questione urgente da affrontare. Ecco dove si gioca la partita. C'è quella promessa fatta a Riina ed ai suoi compagni in quella notte in via dei Georgofili che va rispettata. Va pagata la "cambiale" della trattativa. E' quello che Cosa nostra ha sempre voluto ed il rischio è tornato alto".
Giovanna Maggiani Chelli
Le sentenze
Le sentenze spiegano proprio come quelle stragi del 1993 servivano per condizionare il funzionamento degli istituti democratici e lo svolgimento della vita civile del paese e ottenere un allentamento del regime del 41 bis. Alle inchieste che ricostruirono ciò che accadde e il movente della strage lavorò un pool di magistrati fiorentini che era composto da Chelazzi, Giuseppe Nicolosi e Alessandro Crini, sotto la guida dell'allora procuratore capo della Repubblica Pier Luigi Vigna, coadiuvato dal procuratore aggiunto Francesco Fleury. Poi c'è stata anche la sentenza a carico del boss Francesco Tagliavia, condannato all'ergastolo.
E' nelle motivazioni della sentenza di primo grado di quel processo che nero su bianco si scriveva che la trattativa “indubbiamente ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des” e addirittura scrissero che “l’iniziativa fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia” “l'obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno con Cosa nostra per far cessare la sequenza delle stragi”.
Il 20 aprile 2018 si è concluso il processo sulla trattativa Stato-Mafia con la Corte d'Assise di Palermo che ha condannato il boss mafioso Leoluca Bagarella a 28 anni di reclusione, il boss mafioso Antonino Cinà a 12 anni, l'ex senatore Marcello Dell'Utri e gli ex vertici del Ros Antonio Subranni e Mario Mori a 12 anni, l'ex colonnello Giuseppe De Donno a 8 anni. Condannato a 8 anni per calunnia Massimo Ciancimino mentre per quello di "falsa testimonianza" è stato assolto l'ex ministro Nicola Mancino. Per il pentito Giovanni Brusca è diversamente intervenuta la prescrizione. E nelle 5000 pagine di motivazioni della sentenza firmata dal Presidente della Corte d'Assise Alfredo Montalto, dal giudice a latere Stefania Brambille e da sei giudici popolari vi sono nuovi elementi di verità. “E’ ferma convinzione della Corte - scrivono i giudici - che senza l'improvvida iniziativa dei Carabinieri e cioè senza l'apertura al dialogo sollecitata ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla minaccia al Governo sotto forma di condizioni per cessare la contrapposizione frontale con lo Stato, la spinta stragista meramente e chiaramente di carattere vendicativo riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina, si sarebbe inevitabilmente esaurita con l'arresto di quest'ultimo nel gennaio 1993”. Purtroppo non fu così. E i giudici ribadiscono che “in assenza del precedente segnale di cedimento dello Stato percepito dai mafiosi (percezione determinata unicamente dall'azione dei Carabinieri che dicevano - o facevano credere - di essersi mossi a nome del Governo), non avrebbe trovato terreno fertile la speranza di potere ottenere benefici dall'azione stragista che sino quel momento aveva prodotto soltanto l'inasprimento del regime carcerario e, appunto, l'arresto di Salvatore Riina”. Per poi sottolineare con forza: “E, invece, al contrario, è stata proprio la constatazione che le stragi del 1992 avevano smosso qualcosa nell'apparentemente granitica fermezza che da qualche tempo, grazie all'impulso incessante di Giovanni Falcone, il Governo della Repubblica aveva manifestato e stava attuando, che ha reso possibile ipotizzare che qualche altro ‘colpo’ (cioè qualche altra strage, quali quelle che, poi, furono effettivamente realizzate nel corso del 1993) avrebbe potuto fare crollare la resistenza statuale”.
Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi © Imagoeconomica
Il volto dei mandanti esterni
E' noto che la Procura di Firenze ha riaperto una nuova inchiesta sui cosiddetti 'mandanti occulti' dell'attentato. All'esame degli investigatori della Dia ci sarebbero ore e ore di conversazioni, intercettate per circa un anno e mezzo proprio nell'ambito dell'inchiesta dei pm di Palermo sulla 'trattativa Stato-Mafia', avute in carcere dal boss Giuseppe Graviano durante l'ora d'aria.
"Berlusconi mi ha chiesto questa cortesia, per questo c’è stata l’urgenza... Lui voleva scendere... però in quel periodo c'erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa" diceva il boss di Brancaccio al camorrista Umberto Adinolfi. Così è stato riaperto il fascicolo (affidato al sostituto Luca Turco e al pm Angela Pietroiusti, ndr) contro l'ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e l’ex senatore Marcello Dell’Utri (già condannato a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa) nuovamente indagati nell'inchiesta sui mandanti occulti delle stragi mafiose del 1993, che colpirono Firenze, Roma (chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro) e Milano (via Palestro).
Sia Berlusconi che Dell'Utri già per due volte sono indagati e archiviati in mancanza di riscontri sufficienti.
Oltre vent’anni fa li aveva indagati, sotto le sigle “Autore 1” e “Autore 2”, in un'inchiesta che partiva dalle stragi del 1993 fino ad arrivare alla mancata strage dello Stadio Olimpico di Roma del ‘94. Per gli inquirenti quei fatti di sangue rientravano “in un unico disegno che avrebbe previsto una campagna stragista continentale avente come obiettivo strategico (anche) quello di ottenere una revisione normativa che invertisse la tendenza delle scelte dello Stato in tema di contrasto della criminalità mafiosa”. “Nel corso di quelle indagini - si leggeva ancora nel decreto di archiviazione del ‘98 - erano stati acquisiti diversi elementi che avvaloravano l’ipotesi di un’unitaria strategia dell’organizzazione mafiosa finalizzata a condizionare le scelte di politica criminale dello Stato e a ricercare nuovi interlocutori da appoggiare nelle competizioni elettorali”. Dal canto suo il Gip aveva evidenziato che le indagini svolte avevano “consentito l’acquisizione di risultati significativi solo in ordine all’avere Cosa nostra agito a seguito di inputs esterni, a conferma di quanto già valutato sul piano strettamente logico; all’avere i soggetti (cioè gli indagati Dell’Utri e Berlusconi, ndr) di cui si tratta intrattenuto rapporti non meramente episodici con i soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista realizzato, all’essere tali rapporti compatibili con il fine perseguito dal progetto”. Il giudice concludeva affermando che, sebbene “l’ipotesi iniziale abbia mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità”, gli inquirenti non avevano “potuto trovare - nel termine massimo di durata delle indagini preliminari - la conferma delle chiamate de relato e delle intuizioni logiche basate sulle suddette omogeneità”. Anche a Caltanissetta, dal '98 al 2001, su quegli stessi personaggi avevano indagato il pm Luca Tescaroli e Nino Di Matteo. Ma anche in quel caso l'indagine fu poi archiviata.
A Firenze il fascicolo è stato poi riaperto una seconda volta nel 2008, dopo le confessioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. Quest’ultimo, giudicato attendibile in molte Corti d’Assise e da ultimo dalla Corte di Cassazione che ha confermato alcune ulteriori condanne per la strage di Capaci, ha raccontato di un dialogo avuto con Giuseppe Graviano che gli riferì chiaramente che “con Berlusconi e Dell'Utri c'avevamo il Paese nelle mani”. Nonostante ciò l’inchiesta fu archiviata.
Oggi il nuovo capitolo.
Elementi da approfondire
Altri fronti investigativi si sono riaperti con la Procura nazionale antimafia e la Commissione parlamentare Antimafia. Nuovi elementi sono emersi nel corso del lavoro istruttorio svolto dal II Comitato, quello presieduto da Mario Giarrusso, e nuove testimonianze e documenti sono stati acquisiti durante un sopralluogo a Firenze fatto dai consulenti dell’organismo parlamentare il 13 dicembre 2019: si tratta di materiale relativo a “fatti e circostanze connessi alla strage di Via dei Georgofili del 27 maggio 1993”.
Testimoni che sono stati risentiti dopo anni e che hanno ricordato alcuni episodi avvenuti la notte della strage di via dei Georgofili, raccontando di "strani movimenti", della presenza di una donna "con i capelli corti a caschetto e bruni, alla guida di un Fiorino", e di una "cartina di Firenze, a colori, dove erano cerchiati due punti della città in rosso".
La ricerca della verità riparte da tutti questi elementi. Una verità da pretendere anche per rendere onore e giustizia a Giovanna Maggiani Chelli, a sua figlia Francesca, e a tutte le vittime di quell'ennesima strage.
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