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di Giorgio Bongiovanni
Immigrazione, caso Siri, caso Russiopoli (quello sui presunti fondi russi alla Lega), Tav, Flat tax. E' un'estate calda per il governo Conte che, immerso nella continua bagarre tra Lega e Cinque Stelle rischia davvero di capitolare. Da diversi mesi a questa parte il ministro degli Interni Matteo Salvini tira la corda. Ieri ha minacciato il ritorno al voto se non verrà effettuata una "manovra di decine di miliardi” per riuscire a “tagliare le tasse per tanti e investire tanti soldi”.
Parole, paroline e parolone continuamente usate dal "Cazzaro Verde" (così come lo ha battezzato in un editoriale Marco Travaglio nel maggio 2018) tronfio del risultato delle ultime europee.
La crisi di governo è praticamente alle porte e l’annuncio del premier Conte che di fatto ha dato il via libera alle gare d’appalto per il Tav Torino-Lione disintegra quasi completamente quel che rimaneva del Movimento Cinque Stelle che ora si lecca le ferite e cerca un modo per "salvarsi dalla disfatta".
Il Movimento è stato sconfitto in uno dei suoi baluardi storici creando anche una spaccatura tra gli stessi membri del Movimento. Poco importa se il vice premier penta stellato Luigi Di Maio si giustifica dicendo che "siamo e resteremo sempre contrari al Tav perché è un’opera inutile che sarà un regalo alla Francia per 2,2 miliardi di euro. Ma siamo minoranza. Abbiamo seguito logicamente quello che abbiamo sempre detto. Ma noi al Governo ci stiamo col 33%, non col 51%. Chi ci volta la faccia lo dice senza memoria e senza avere mai avuto una faccia".
E' vero che in questa partita il Cinque Stelle si trova solo contro lobby di potere e gli altri partiti, ma la sensazione, così come ha scritto Travaglio nei giorni scorsi, è che la sconfitta sia arrivata senza neanche giocare la partita. Il Movimento era No Tav ancor prima di esistere, quando Beppe Grillo con i Meet Up portava avanti con forza la battaglia della gente della Val di Susa contro un'opera assolutamente inutile, e proprio per questo si sarebbe dovuto andare avanti ad oltranza, senza tradire le proprie origini, anche a costo di sfidare i "compagni" di governo, ma mostrando agli italiani chi agisce contro i reali interessi del Paese.
Purtroppo gli errori si pagano e il premier Conte, da noi stimato ed apprezzato per la sua grande capacità professionale ed etica, sul punto può averne commesso uno.
Certo è che il Presidente del Consiglio si trova sempre più spesso tra due fuochi, una volta da una parte ed una dall'altra più isolato che sostenuto.
Ma non è la Tav l'unico problema. Perché la sfida di Salvini, come detto, è molto più ampia e va a toccare anche altri temi.
Ieri c'è stato l'incidente probatorio davanti al Gip con le audizioni di Vito e Manlio Nicastri. Il primo è un imprenditore in odore di mafia (per lui la Procura di Palermo ha chiesto una condanna a 12 anni per concorso in associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni), considerato dagli inquirenti come uno dei finanziatori della latitanza del boss trapanese e stragista, Matteo Messina Denaro (ovvero colui che è al vertice di Cosa nostra). L'ex deputato di Forza Italia ed ora vicino alla Lega Paolo Arata smentisce gli incontri con Siri e Nicastri ma sullo sfondo vi è l'intercettazione ambientale in cui Arata, parlando con Manlio Nicastri (figlio di Vito, ndr), alla presenza anche del figlio Francesco, riferendosi a Siri afferma: “Lui è amico del capo gabinetto… molto amico del capo gabinetto delle attività produttive… perché lui non è lì… E… (incomprensibile)… guarda Paolo… gli ho detto… Armando questo… l’ha conosciuto anche tuo papà è venuto a pranzo anche a casa mia…”. E Manlio Nicastri replica: “Sì… sì… lo so…”.
I Nicastri dicono e non dicono. Confermano di fatto la volontà di Arata di promettere un compenso a Siri se l’emendamento sul minieolico fosse passato ma non sanno dire se Siri fosse informato sul punto. Spetterà alla magistratura effettuare tutte le verifiche su questi fatti ma sul piano politico non dimentichiamo la strenua difesa di Salvini sul caso Siri tanto da costringere ancora una volta il premier Conte ad assumersi ogni responsabilità sulle dimissioni (che in un Paese normale sarebbero state dovute) del sottosegretario.
Ed è proprio il tema mafia che a questo Stato, salvo che per alcuni stoici rappresentanti, va indigesto.
In questi mesi abbiamo letto i tweet e i messaggi social di Salvini & co. dopo ogni arresto. Così come ieri abbiamo letto il commento di Salvini dopo l'approvazione, alla Camera, del decreto Sicurezza bis: "La Camera approva il decreto Sicurezza bis: pene più dure contro gli scafisti e i trafficanti di esseri umani, centinaia di assunzioni per combattere Mafia, Camorra e 'Ndrangheta, tolleranza zero per chi aggredisce le Forze dell'ordine. Ora entro i primi di agosto tocca al Senato. Dalle parole ai fatti".
Dati che contrastano apertamente con quanto denunciato dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, in una lettera scritta a La Repubblica, in occasione delle commemorazioni per la strage di via d'Amelio: "Per lo Stato italiano la lotta alla mafia non è prioritaria perché richiede una volontà politica che superi gli sbarramenti generati dalla mancanza di adeguate coperture finanziarie, argomento strumentalmente utilizzato per giustificare le drammatiche vacanze di organico della magistratura, del personale amministrativo e delle forze di polizia". E poi ancora ha aggiunto: "Mi chiedo, se questo è vero, che senso abbia gioire dei risultati giudiziari raggiunti, visto che siamo comunque costretti a giocare una partita che non possiamo vincere. Che senso ha sbandierare arresti e condanne come fossero vittorie. Sono risultati importanti generati dal lavoro quotidiano, per i quali non vogliamo applausi. È il nostro lavoro ed il nostro lavoro, tra mille difficoltà, lo sappiamo fare. Punto e basta".
A ben vedere come dare torto al magistrato di fronte al continuo silenzio politico sui miliardi che la 'Ndrangheta "fattura" grazie al traffico internazionale di stupefacenti per poi reinvestirli nell'economia legale, oppure di fronte al continuo crescere di fenomeni come quello della corruzione, tanto che si vuole tornare ad intervenire sulle intercettazioni telefoniche (in particolare i trojan) capaci di svelare fatti e misfatti compiuti.
Ma basta guardare alla storia della Lega per comprendere la direzione presa nel corso del tempo e che prosegue ancora oggi. Sono ben lontani, infatti, i tempi in cui urlava "Roma ladrona" e, soprattutto, con articoli apparsi sulla Padania veniva apostrofato Berlusconi come un "mafioso" e un "pregiudicato" con tanto di domande al Cavaliere sulla provenienza del suo patrimonio e sui suoi contatti mafiosi.
Quello stesso Berlusconi che, con Forza Italia (il partito fondato assieme a Marcello Dell'Utri, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa) poi è diventato compagno di Coalizione e di governo già nel 1994.
Una Lega che nasce seguendo il progetto federalista dell'ideologo Gianfranco Miglio, che proponeva la suddivisione del Paese in tre aree geografiche con caratteristiche di sviluppo omogenee, Nord-Centro e Sud, così come avrebbero voluto anche le organizzazioni criminali che nei primi anni Novanta si stavano organizzando creando dei movimenti indipendentisti come Sicilia Libera. Un tema che di recente è stato anche ricordato dal pm della trattativa Stato-mafia, Roberto Tartaglia, oggi consulente per la Commissione parlamentare antimafia.
Sulla nascita della Lega non dimentichiamo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Leonardo Messina - contenute nell’inchiesta sui Sistemi Criminali, ma anche emerse al processo trattativa Stato-mafia - su un “crescente interesse di Cosa Nostra nei confronti del movimento leghista”. Fu l’uomo d’onore Borino Miccichè, si legge nelle carte, a spiegare a Messina “che la Lega Nord, e all’interno di essa non tanto Bossi, che era un ‘pupo’, quanto il senatore Miglio, era l’espressione di una parte della Democrazia Cristiana e della Massoneria che faceva capo all’On. Andreotti e a Licio Gelli. Il Miccichè spiegò ancora che dopo la Lega del Nord sarebbe nata una Lega del Sud, in maniera tale da non apparire espressione di Cosa Nostra, ma in effetti al servizio di Cosa Nostra; ed in questo modo ‘noi saremmo divenuti Stato’”. Dichiarazioni alle quali si aggiungono quelle dell’altro collaboratore, Giovanni Brusca, che ha raccontato di aver saputo dallo stesso Riina che tra i soggetti che nel tempo avevano mostrato interesse a dialogare con Cosa nostra vi sarebbe stato anche Umberto Bossi. “Ma in quel momento Riina non mostrò interesse”, indicando però che quantomeno ci sarebbe stata un’apertura nei confronti degli ambienti di Cosa nostra. Anche il pentito Tullio Cannella, da parte sua, ha riferito più di una volta di una riunione, in cui fu presente, a Lamezia Terme dove vi erano “esponenti di ‘Sicilia Libera’ e di altri movimenti leghisti o separatisti meridionali, riunione alla quale erano presenti anche diversi esponenti della Lega Nord”.
Pian piano il silenzio della Lega sul fronte mafia si è fatto sentire anche nel 2010 quando scoppiò una polemica feroce tra Roberto Saviano, che in un suo monologo, ospite di Fabio Fazio, parlò delle infiltrazioni della 'Ndrangheta anche al Nord in Lombardia, e l'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni, che chiese addirittura una puntata "di riparazione". E pensare che Maroni fu uno di quei ministri che nel primo Governo Berlusconi denunciò, di fatto, i contenuti pro mafia del decreto Biondi (anche noto come "salva ladri") - Eppure all'epoca si scagliò apertamente contro il giornalista nonostante inchieste e processi dimostravano la strutturazione di "locali della 'Ndrangheta" in diverse aree lombarde.
Oggi il silenzio sulla mafia è divenuto ancora più assordante e il Decreto legge Sicurezza bis lo manifesta apertamente perché, al di là degli slogan, non fornisce reali e concrete risposte alle vere emergenze nel nostro Paese - come lo sono sempre più le mafie ed i fenomeni di corruzione e malaffare - evidenziate nell'ultima relazione della Direzione investigativa antimafia e nelle recenti inchieste giudiziarie.
Un decreto che interviene pesantemente sull'immigrazione, abbassando il grado di umanità del Paese, nonostante lo stesso Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati aveva rilevato che il decreto si pone in contrasto con il principio di non respingimento previsto dalle Convenzioni internazionali.
Già Saverio Lodato in precedenti editoriali su questo giornale aveva evidenziato come Salvini "è uno che tiene in caldo il fascismo". Un allarme che oggi anche Gianpaolo Pensa, nel suo libro, "Il Dittatore", riprende evidenziando come l'autoritario leader leghista stia facendo le prove per trasformare la nostra Repubblica in "una dittatura che si svela giorno dopo giorno". Dal caso "Diciotti" a quello "Sea Watch", che ha visto protagonista Carola Rackete, abbiamo assistito a una vera e propria escalation dell'ideologia razzista e fascista.
Del resto già le amicizie politiche di Salvini come la francese Marine Le Pen e l'ungherese Viktor Orban, dimostravano apertamente la deriva verso cui il nostro Paese si sta dirigendo.
Farebbe bene il Movimento Cinque Stelle a "staccare coraggiosamente la spina", il prima possibile, con Salvini e la sua arroganza. Quel coraggio che non ha avuto in principio, imponendo la scelta di un altro ministro degli Interni, quale sarebbe potuto essere Antonino Di Matteo. Le voci erano insistenti ed è probabile che lo stesso magistrato, visto il ruolo istituzionale che riveste, si sia anche messo a disposizione dello Stato. Una disponibilità che avrebbe dato anche se fosse stato indicato come ministro della Giustizia.
In quei ruoli avrebbe sicuramente compiuto atti concreti nel contrasto a mafia e corruzione, potenziando la ricerca dei latitanti e facendo di tutto per desecretare ogni atto documento su stragi e delitti di Stato che ancora attendono una verità completa. Insomma l'azione contraria rispetto a quanto effettuato fino ad oggi.
Il risultato finale, però, è noto. Agli Interni è stato scelto Salvini, alla Giustizia il ministro Alfonso Bonafede che oggi propone una riforma della giustizia e del Csm scandalosa, con misure che favoriscono le criminalità organizzate anziché contrastarle.
Già l'Anm (Associazione nazionale magistrati) ha lanciato l'allarme evidenziando come "la norma che regola la durata delle indagini preliminari mette a rischio la lotta alla mafia, alla corruzione e al terrorismo". Stupidaggini clamorose che vengono promosse da questo governo del "non cambiamento".
Ci sono ovviamente delle eccezioni.
Ad esempio abbiamo apprezzato l'iniziativa della Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Nicola Morra, nella desecretazione degli atti che vanno dalla sua nascita al 2001 (auspichiamo che vi siano atti più importanti di quelli fin qui ascoltati, ndr) così come la scelta di avvalersi della consulenza di figure preparate e competenti come il magistrato Roberto Tartaglia e la volontà di aprire inchieste sulla trattativa Stato-mafia, le stragi ed i depistaggi.
Adesso, però, è il tempo di sfidare Salvini a far cadere il governo proponendo ddl seri e giusti, sulla giustizia, sulla lotta alla mafia, contro la Tav, a favore dell'inclusione sociale, per il diritto all'abitare, alle accoglienze e al lavoro giusto. Solo così si potrà riacquisire il consenso perduto, prima che sia troppo tardi.
Altrimenti non basterebbe il disperato, seppur positivo, ritorno in campo di Alessandro Di Battista. Una mossa paragonabile all'ingresso di Gianni Rivera a pochi minuti dalla fine, nella storica finale del 1970 tra Italia e Brasile. Una mossa disperata, appunto, ma inutile, con l'Italia di Valcareggi che uscì sconfitta 4-1.
Per giocarsi il tutto per tutto, ed evitare di consegnare il Paese nelle mani di Salvini, servono azioni coraggiose partendo proprio dal serio contrasto a mafia e corruzione che, fin qui, è stato gravemente latitante.

Foto © Imagoeconomica

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