A Palermo e Reggio Calabria parlano Berlusconi e Riina (nell'arringa del suo legale)
di Giorgio Bongiovanni
Non sono mancati in questi giorni gli ultimi colpi di coda di personaggi del potere ormai (quasi) caduti – Silvio Berlusconi – o defunti – le parole di Totò Riina nell’arringa del legale Luca Cianferoni. Il primo, al processo reggino scaturito dall’operazione Breakfast – sotto accusa l’ex ministro Claudio Scajola e l’ex deputato FI Amedeo Matacena – ha dichiarato al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e agli avvocati che per lui l’ex parlamentare oggi latitante a Dubai era un illustre sconosciuto. Non solo questione di difetto di memoria, a nostro parere, ma un messaggio ben preciso, i cui risvolti sono ancora ignoti. Che l’ex Cavaliere affermi di non conoscere Amedeo Matacena è un segnale - in un codice dal sapore tutto mafioso - per qualcuno. Ma per quale interlocutore? Certo è che, a dirlo è anche la sentenza definitiva che ha condannato l’ex deputato a tre anni per concorso esterno in associazione mafiosa, i legami tra il latitante e la ‘Ndrangheta sono stati più che acclarati. E questo nonostante Matacena padre e figlio siano storicamente legati agli ambienti "bazzicati" da Berlusconi, senza contare che fu proprio Matacena, insieme a Dell'Utri, ad avere un ruolo nella fondazione di Forza Italia in Calabria.
Nella “testimonianza” di Berlusconi c’è spazio anche per il suo braccio destro – lui, la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, se la sta già scontando – quando l’ex premier parla della “stupidità” di Dell’Utri, parlando della sua latitanza in Libano. Dove voglia arrivare l’ex Presidente del Consiglio con i suoi “non ricordo” non è dato sapere. Quel che è certo è il metodo delle cosche mafiose quando si tratta di rivendicare patti ed accordi con i propri interlocutori. Forse, allora, una risposta da parte loro non si farà attendere.
Spostandoci a Palermo, al processo trattativa l’avvocato Luca Cianferoni, legale del defunto boss di Corleone, ha ancora una volta ripetuto che Riina, capomafia fino al midollo senza possibilità di appello, è stato usato e sfruttato per le stragi come “parafulmine d’Italia”, come lui stesso si era definito, insieme a tutta l’organizzazione criminale Cosa nostra.
C’è poi una frase-chiave che oggi è emersa sul resto dell’arringa, nel momento in cui Cianferoni spiega di quando il suo assistito gli disse: “Ma da me che vogliono? Che parlo o che sto zitto?”. Parole che consentono di comprendere come Riina si fosse trovato tra due fuochi, o meglio, tra due stati. Uno, rappresentato dal pool antimafia, che voleva che dicesse tutta la verità, e un altro, lo Stato-mafia, quello di cui il Capo dei capi conosceva i nomi e i cognomi di coloro che hanno stipulato patti, che voleva il suo silenzio. Riina, dunque, si rendeva conto che lo Stato-mafia non era così potente come lo è sempre stato. Perché l’altro – quello vero – era pronto ad incalzarlo, e forse sarebbe anche potuto essere capace di strapparne una collaborazione.
Con la morte del boss, ma anche gli inquietanti segnali lanciati dalla politica durante la campagna elettorale – occasione in cui la lotta alla mafia è stata letteralmente relegata all'angolo nei programmi politici – l’ipotetica risposta che possiamo immaginare data a Riina, se fosse ancora vivo, è ancora una volta quella dello Stato-mafia: il silenzio è d’oro.
Foto originali © Ansa
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