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ferrara giuliano ppdi Giorgio Bongiovanni
Criticare una sentenza esprimendo dissenso anche in maniera “aspra” e con “veemenza” nei confronti dell’operato dei magistrati, è lecito. A dirlo è il giudice di Milano, Maria Teresa Guadagnino, che così si è espressa nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso dicembre ha assolto il giornalista e fondatore de “Il Foglio”, Giuliano Ferrara, dall’accusa di diffamazione nei confronti del magistrato Antonino Di Matteo. Dunque, a nostro parere, siamo di fronte ad una sentenza assolutamente errata.
Ferrara era stato assolto con la formula “il fatto non costituisce reato” e nelle motivazioni depositate oggi, in cui si cita la libertà costituzionale di manifestazione del pensiero, si ricorda che l’articolo oggetto della diffamazione “si tratta pacificamente di un editoriale, ovverossia di un articolo che ha la funzione di esprimere il punto di vista della testata su fatti di rilevante attualità. Il Foglio è un giornale di opinione che esprime un preciso orientamento politico e culturale, e nel caso dell'articolo in esame il direttore fa delle considerazioni critiche relativamente a tali fatti, così esprimendo delle idee non suscettibili di essere valutate come vere o false. Non si tratta di un articolo di cronaca giudiziaria ma di una riflessione sulle implicazioni del processo Stato Mafia".
Nelle motivazioni della sentenza del giudice Guadagnino è scritto che il diritto di critica “si concretizza dunque nella espressione di un giudizio o, più genericamente, di un'opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva" e che i limiti "della critica alle istituzioni giudiziarie sono preordinati a garantirne la difesa da attacchi sprovvisti di fondamento, ma tali limiti non sussistono qualora la critica" riguardi inchieste "giudiziarie aventi innegabile effetto politico". Per questo motivo non sarebbe censurabile nemmeno "il riferimento nell'ultima parte dell'articolo al 'rito palermitano' e alla ritenuta mancanza di serietà delle inchieste giudiziarie".
Per il giudice Ferrara non persegue "l'obiettivo di ledere l'onore e la reputazione" ma solo quello di "criticare e disapprovare alcuni fatti e comportamenti connessi al processo che ancora si sta svolgendo presso la Corte d'Assise di Palermo".
Ma è proprio questo il punto che evidentemente il giudice non ha colto. Le motivazioni specifiche che avevano indotto Di Matteo, titolare dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia ed oggi sostituto procuratore nazionale antimafia, a querelare Ferrara non riguardavano eventuali opinioni, a nostro parere più che discutibili, sull’indagine e sul processo in corso a Palermo.
Nell’articolo pubblicato sul quotidiano il 22 gennaio 2014 dal titolo “Riina, lo Stato come agente provocatore. Subito un’inchiesta” Ferrara aveva definito i colloqui tra il boss corleonese, Salvatore Riina, e il pugliese Alberto Lorusso, compagno nell’ora d’aria del Capo dei capi presso il carcere opera di Milano, come una “spaventosa messa in scena” architettata da “qualche settore d’apparato dello Stato italiano” per “mostrificare il presidente della Repubblica, calunniare Berlusconi e monumentalizzare Di Matteo e il suo traballante processo”.
Anche il Gip di Milano, Franco Cantù Rajnoldi, che aveva disposto per Ferrara l’imputazione coatta, aveva evidenziato che lo stretto collegamento creato tra il termine "messinscena" ed il relativo "obiettivo" determinava come risultato concettuale immediato "quello di indicare il pm Di Matteo quale soggetto processuale impegnato a confezionare prove 'ad arte', già predisposte nel loro contenuto e di perseguire finalità politiche. Conseguenze queste che danneggiano la reputazione del pm Di Matteo".
Il giudice monocratico, però, ha ritenuto che le gravissime affermazioni contenute nell’articolo fossero legittime e prive di intenti diffamatori. A ben vedere, però, quelle parole di Ferrara sono più simili a fucilate con cui si è sparato sulla professionalità ed all’onore del magistrato Antonino Di Matteo.
Come si fa a dire il contrario? Basta guardare i fatti che vanno oltre le opinioni.
Totò Riina, mentre era in carcere, pronunciò il 16 novembre 2013, contro Nino Di Matteo una vera e propria condanna a morte: “Questo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un’esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari…Vedi, vedi…si mette là davanti, mi guarda con gli occhi puntati, ma a me non mi intimorisce, mi sta facendo uscire pazzo… come ti verrei ad ammazzare a te, come a prendere tonni. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono. Ancora ci insisti? Minchia… perché me lo sono tolto il vizio? Inizierei domani mattina… organizziamola questa cosa… facciamola grossa, e non ne parliamo più".
Quelle conversazioni mobilitarono il Procuratore di Palermo, quello di Caltanissetta, l’allora Ministro degli Interni Angelino Alfano, ufficiali della Dia, il Comandante generale dei Carabinieri, il Comandante generale della Guardia di Finanza, il capo della Polizia, il capo del Dap (Dipartimento di amministrazione penitenziaria, ndr), i direttori dei servizi di sicurezza Aisi e Aise, nonché del Dis, il coordinamento tra il servizio segreto militare e quello civile. Così vennero decise misure straordinarie per la sicurezza del magistrato che oggi, dopo le rivelazioni su un progetto di attentato nei suoi confronti, è diventato il pm più scortato d’Italia. E la Procura di Caltanissetta ha fatto delle indagini, poi archiviate, mettendo nero su bianco che “l’ordine di colpire Di Matteo resta operativo".
Come è possibile dunque definire quell’attività investigativa come una “spaventosa messa in scena”? Non è questa un’affermazione oggettivamente falsa? Fino a che punto ci si può spingere con le parole (spesso più pericolose di un colpo di pistola) nell’insultare un’istituzione o un cittadino comune?
Far intendere che quei dialoghi intercettati in carcere tra Riina e Lorusso siano una farsa riporta alla memoria quel che accadde nel lontano 1989 quando, dopo il fallito attentato all’Addaura nell’abitazione di Giovanni Falcone, ci fu chi insinuò, non solo sulla stampa, che quella bomba il giudice se la era messa da solo. A quasi ventinove anni di distanza cambiano gli attori e, peggio, affermazioni simili diventano lecite, immerse nel “diritto di critica” sventolato ad uso e consumo.

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