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borsellino scorta 1000 effdi Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari*
“Silenzi” e “depistaggi di Stato” sono stati al centro del dibattito nelle commemorazioni della strage di via d’Amelio, che quest’anno ha compiuto un quarto di secolo. Venticinque anni dopo il delitto in cui persero la vita Paolo Borsellino ed i cinque agenti di scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Claudio Traina) lo scorso 20 aprile, la Corte d’Assise di Caltanissetta, al processo Borsellino quater, oltre ad aver condannato all'ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino (imputati della strage) ha sancito per la prima volta l’esistenza di un depistaggio nella strage di via d’Amelio, condannando a 10 anni i "falsi pentiti" Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Con il dispositivo ha anche dichiarato il “non doversi procedere per pervenuta prescrizione in ordine al reato di calunnia pluriaggravata” nei confronti di Vincenzo Scarantino, il “picciotto della Guadagna” le cui dichiarazioni sono state sconfessate da quelle di Gaspare Spatuzza in tempi successivi. Scarantino, dicono i giudici, avrebbe quindi effettuato la calunnia solo perché "determinato a commettere il reato" dagli apparati di Polizia, che l’hanno “imboccato”, inducendolo a raccontare false verità. Inoltre la Corte ha disposto la trasmissione ai pm dei verbali d’udienza dibattimentale “per eventuali determinazioni di sua competenza”.
Sicuramente un atto di giustizia nei confronti dei familiari delle vittime, che da anni aspettano ancora di sapere la verità su quanto avvenuto, e nei confronti di chi è stato condannato ingiustamente per il delitto. Le riflessioni sul depistaggio (da chi è stato ordito? chi l’ha permesso? perché?), però, non devono distogliere l’attenzione sul quesito madre: chi sono i mandanti esterni della strage Borsellino?
Rispondere a questa domanda, forse, può anche aiutare a far capire i motivi che si nascondono dietro al depistaggio stesso.












I mandanti esterni che ci sono
Della presenza di mandanti esterni dietro le stragi ha parlato più volte il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e nei giorni scorsi gli stessi pm nisseni, ascoltati in Commissione antimafia, hanno affrontato l’argomento. Nella Procura nissena, tra i primi magistrati ad indagare sui mandanti esterni a Cosa nostra nelle stragi sono stati Luca Tescaroli e Nino Di Matteo, con quest’ultimo che è recentemente tornato chiedere la riapertura del fascicolo. Di Matteo, oggi pm del processo trattativa Stato-mafia, ha seguito parte del “Borsellino bis” (anche se quell’indagine lo ha visto tra i protagonisti solo a partire dall'ottobre-novembre del 1994) ed ha istruito interamente, insieme al pm Anna Maria Palma, il Borsellino ter che, diversamente dai primi due processi sulla strage di via d’Amelio, non è stato messo in discussione.

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Il pm Nino Di Matteo


Proprio in questo dibattimento emersero diversi elementi sui coinvolgimenti esterni alla mafia per le stragi. Un processo che ha portato alla definitiva condanna di boss del calibro di Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Michelangelo La Barbera, Cristoforo Cannella, Filippo Graviano, Domenico Ganci, Salvatore Biondo (classe '55) e Salvatore Biondo (classe '56). Nella sentenza di primo grado la corte scriveva: “Risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare” una “forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica”. Ricostruzioni basate sui pentiti Pulvirenti, Malvagna, Avola e, non da ultimo, Cancemi, il quale, si legge nella sentenza di primo grado, ha dichiarato come “Riina era solito ripetere che con quelle azioni criminose avrebbero messo in ginocchio lo Stato e mostrato la loro maggiore forza. E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia”. Cancemi disse anche che Riina era stato “accompagnato per la manina” nell’organizzazione di quelle stragi.
Ciò che viene accertato anche nelle sentenze definitive è che c’è stata un’accelerazione anomala dell’esecuzione della strage di via d’Amelio.












Il falso assai più oscuro se mescolato ad un po’ di vero
In molti hanno sostenuto che il “depistaggio” era stato messo in atto per mettere al sicuro dalle proprie responsabilità la famiglia mafiosa di Brancaccio che, in seguito alle rivelazioni dei pentiti Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina, vede invece un coinvolgimento diretto. Ecco però l’anomalia investigativa con Scarantino che nelle sue dichiarazioni ha anche riferito particolari poi confermati dallo stesso Spatuzza.
Il picciotto della Guadagna aveva dichiarato agli inquirenti che il mezzo era stato ricoverato per essere imbottito di esplosivo nella autocarrozzeria di tale Giuseppe Orofino. Al Borsellino (uno) Orofino, che aveva denunciato la sparizione delle targhe solo lunedì 20 luglio, era accusato di essersi procurato la disponibilità di queste e dei documenti di circolazione e assicurativi falsi che furono apposti sulla 126 per consentirne la sicura circolazione e la collocazione sul luogo della strage. Sarà il pentito di Brancaccio Gaspare Spatuzza, diversi anni dopo, a spiegare che in quell'officina andarono veramente a rubare le targhe di macchine che erano in riparazione e che tra queste vi era quella usata per metterla nella macchina dell'autobomba.
Come poteva Scarantino essere a conoscenza del luogo di provenienza della targa ritrovata in via d'Amelio? E del fatto che è stata rubata proprio una 126 per la bomba del 19 luglio ’92? Durante il dibattimento del Borsellino quater Scarantino ha raccontato ciò che avvenne durante il primo riconoscimento fotografico del luogo, il 29 giugno '94, davanti ai magistrati Petralia, Tinebra, Saieva e Boccassini. “Io non ho riconosciuto la carrozzeria, poi mi hanno fatto vedere le foto, dopo parlai con i magistrati, però se non vedevo le foto a loro non dicevo niente”.

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Il pg Roberto Scarpinato


Può essere dunque la vicenda Orofino uno di quei frammenti di verità fatti dire al pentito per rendere “credibile” il suo racconto?  Lo stesso si può dire per quelle accuse fatte da Scarantino contro esponenti della famiglia di Brancaccio, come i fratelli Graviano, Renzino Tinnirello, Fifetto Cannella e Francesco Tagliavia.
Se è stato imboccato, guidato parola per parola, istruito ad imparare a memoria falsi elementi, chi gli ha suggerito quelli giusti? Scarantino ha raccontato che in diverse occasioni alla fine degli interrogatori ispettori e funzionari di polizia come Michele Ribaudo, Fabrizio Mattei e Mario Bo andavano a casa sua per fare il punto sulle contraddizioni che c'erano nelle sue dichiarazioni. E poi ancora ha puntato il dito contro il Capo della Mobile, Arnaldo La Barbera (“La Barbera mi chiede dove era stata fatta la riunione, io indicai Calascibetta. Così lui mi fa vedere l’album chiedendomi chi c’era a quella riunione. E io rispondevo. Come sono infame per uno sono infame per 20 e io li ho accusati. Queste persone erano nelle sue indagini e lui me lo faceva capire”).
Sentito come teste nel 2015 al processo Borsellino quater, il pm Di Matteo ha spiegato il criterio usato nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino da parte dei magistrati: “Noi credevamo che Scarantino fosse a conoscenza di alcuni segmenti dell'organizzazione materiale e della preparazione dell'attentato e che avesse detto la verità nei primi tre interrogatori, quelli precedenti al 6 settembre '94 dove si parla della riunione nella casa di Calascibetta. Pertanto nel 'Borsellino Bis' avevamo chiesto di non utilizzarlo quando non era riscontrato”. Per questo, aveva aggiunto, “Quando Scarantino parlava di Scotto, ricollegando quanto dichiarato dai parenti di Borsellino, ecco che le perplessità venivano superate. Vi erano elementi di convergenza delle prove”. E parlando di Arnaldo La Barbera, uno dei protagonisti del depistaggio, aveva detto: “Con l'ex questore non ho mai avuto rapporti. Quelle volte che lo vedevo la sera con la dottoressa Boccassini il La Barbera nemmeno salutava. Casomai aveva buoni rapporti con Tinebra, la Palma e Petralia”.














Note e presunte “presenze”: la longa manus dei Servizi
Ma è il “nodo” dei mandanti esterni quello che appare impossibile districare con il bandolo della matassa che spesso riconduce verso una direzione, quella che porta ai Servizi di sicurezza. In merito alla collaborazione per la raccolta delle informazioni e notizie sulla strage di via d'Amelio vi è persino una nota del Sisde datata 13 agosto 1992, che apre uno squarcio che oggi la procura nissena definisce “inquietante”. In quel documento il Centro di Palermo comunicava alla Direzione del Sisde di Roma “a seguito di ‘contatti informali’ con gli investigatori della Questura di Palermo, anticipazioni sullo sviluppo delle indagini relative alla strage di via d’Amelio circa gli autori del furto della macchina ed il luogo ove la stessa ‘sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato'”. Sul punto i magistrati di Caltanissetta, nella richiesta di archiviazione per il depistaggio, avevano evidenziato come “non è dato agevolmente comprendere come a quella data, sia pur successiva alle intercettazioni dell’utenza della Valenti (Pietrina Valenti, la proprietaria della fiat 126 destinata alla strage, ndr), gli investigatori avessero acquisito notizie sul luogo dove la vettura rubata era stata custodita”. Ci sono poi da considerare le note del 17 ottobre '92, firmata da Lorenzo Narracci (vice capocentro del Sisde di Palermo), in cui venivano inseriti i nomi di Luciano Valenti, Roberto Valenti e Salvatore Candura e quella del 19 ottobre in cui il centro Sisde di Palermo informò gli uffici centrali del servizio e quindi la Questura di Caltanissetta circa le parentele mafiose “importanti” di Scarantino. Tra queste non vi era solo il cognato Salvatore Profeta, uomo d’onore della famiglia mafiosa di S. Maria di Gesù ma che con Scarantino non aveva alcun legame di collaborazione criminale. L'intelligence ipotizzava, infatti, una lontana, ma mai accertata, parentela con la famiglia Madonia di Resuttana.

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L'ex funzionario di Polizia ed agente segreto, Bruno Contrada


Elementi che ovviamente avvalorano la pista Scarantino ma su cui nessuno degli uomini delle istituzioni è riuscito a dare una spiegazione convincente. E’ una parentesi vergognosa la sequela di dichiarazioni pasticciate, per usare un eufemismo, da parte di uomini delle istituzioni e delle forze dell’ordine, di “non so”, “ho detto”, “non ho detto” che ha messo in piedi un vero e proprio teatrino su vicende cardine come la sparizione dell’agenda rossa e sulla presenza di Bruno Contrada in via d’Amelio. Di Matteo aveva scandagliato quella ipotesi incriminando l’allora funzionario di Polizia Roberto Di Legami che avrebbe rivelato quell’informazione a due suoi colleghi: Umberto Sinico e Raffaele Del Sole, al tempo in forza al ROS. A far emergere l’intera vicenda era stato il tenente dei Carabinieri Carmelo Canale, stretto collaboratore di Paolo Borsellino, processato e poi prosciolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Tuttavia la ricostruzione fornita da tutti questi ufficiali non è mai combaciata e tra “non ricordo”, ritrattazioni e smentite si è messa una pietra tombale sulla questione. Bruno Contrada ha sempre sostenuto di aver appreso della strage (circa un minuto dopo l’esplosione secondo i tabulati) mentre si trovava in mare aperto a bordo dell’imbarcazione dell’amico Gianni Valentino che ha sempre confermato il suo racconto. La presunta confidenza di Di Legami a Sinico raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio e che poi sarebbe stata stracciata negli uffici della polizia di Palermo. “Sulla relazione strappata vi furono anche conferme - aveva raccontato ancora Di Matteo al quater - e io predisposi pure dei confronti. Ognuno restò sulle proprie convinzioni ma Di Legami disse 'stanno mentendo ma io so pure perché stanno mentendo’’”. Restavano dunque “testimonianze opposte” sulla “presenza sospetta di un funzionario di alto livello del Sisde sul ruolo della strage”. “Io comunque - aveva continuato il magistrato - feci una richiesta di rinvio a giudizio per Di Legami perché erano due ufficiali contro uno. Questo contrasto tra le posizioni degli ufficiali ed il fatto che uno di loro ha pure affrontato un processo per questo era sintomatico che vi fosse qualcosa che non andava. Così come tanti altri elementi che riguardavano il protagonismo di Contrada in via d'Amelio che venivano riferiti e poi ritrattati o sminuiti”.












Questione Scotto
Ma ci sono anche altre figure ibride di cui non è stato possibile approfondire il ruolo. E’ il caso di Gaetano Scotto, boss dell’Acquasanta, prima all’attenzione degli inquirenti per quei misteriosi contatti con strutture deviate dei servizi segreti e oggi invece destinatario del processo di revisione della condanna definitiva all’ergastolo. Nel corso del suo esame al quater Di Matteo aveva raccontato di essere rimasto colpito dalla dichiarazione che Scarantino attribuiva a Gaetano Scotto: 'stavolta l'abbiamo fottuto con le intercettazioni’, parlando di Paolo Borsellino. Assolutamente singolare il fatto che proprio questo dettaglio andava a coincidere con le testimonianze dei familiari di Borsellino, che avevano raccontato di aver visto un operaio della ditta Sielte all'opera sulla cassetta dei fili telefonici sul pianerottolo dell'abitazione e di aver riscontrato da qualche tempo delle strane anomalie durante le telefonate. Non solo. Anche il “superconsulente” Gioacchino Genchi (che si occupò di indagini specifiche sull'attentato) riscontrò delle anomalie nel sistema telefonico di casa Fiore-Borsellino e nella sua relazione tecnica finale sostenne la possibilità di un'intercettazione abusiva rudimentale avviata tramite un circuito di derivazione poi opportunamente rimosso.

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Il “superconsulente” Gioacchino Genchi


Un dato, quello delle intercettazioni, emerso anche di recente con le esternazioni di Salvatore Riina colte da noi nell'agosto-settembre 2013.
Ulteriore punto di contatto tra le indagini di via d'Amelio ed i Servizi, secondo quanto riferito in aula da Di Matteo, è poi dato da un altro elemento, ovvero la presenza negli uffici della Procura di un appartenente del Sisde, Rosario Piraino. “Questo soggetto, di cui mi sono occupato a Palermo successivamente, era solito interloquire con i magistrati. Io non ne capivo il motivo. Lui aveva un rapporto di frequentazione assidua con un giudice supplente del primo processo Borsellino. Vedevo la presenza significativa di Piraino e poi, dopo aver acquisito le agende di Contrada, emerse che il giorno 20 luglio (Bruno Contrada, ndr) fosse venuto a parlare con Tinebra assieme a Piraino”.












Alfa e Beta, ovvero Berlusconi e Dell’Utri
La ricerca dei mandanti esterni delle stragi, però, non si esaurisce solo nell’ambito dei punti di contatto con i servizi segreti. I dati processuali emersi in questi anni puntano la lente di ingrandimento verso nord, ed in particolare su due figure di peso come l’ex premier Silvio Berlusconi e l’ex senatore (condannato per concorso esterno in associazione mafiosa) Marcello Dell’Utri. Entrambi furono iscritti nel registro degli indagati con i nomi in codice Alfa e Beta e vennero prosciolti nonostante un’archiviazione gravida di ombre.
Di Matteo, nel corso dell’esame innanzi alla Corte d’assise di Caltanissetta aveva raccontato di come “ci fu uno scollamento tra me e Tescaroli da una parte e il resto della procura di Caltanissetta dall'altra” nel momento in cui i due magistrati, insieme ad altri colleghi, insistettero “perché le indagini si svolgessero con un'ipotesi investigativa consacrata con iscrizione di notizia di reato 'Alfa e Beta' quindi Berlusconi e Dell’Utri. Ci fu una delega a me e Tescaroli della conduzione di quella indagine. Così alcune preliminari deleghe vennero conferite alla Dia di Roma, però già il fatto che la Dia di Roma vedesse arrivare sul proprio tavolo le deleghe a firma di due sostituti che erano i più giovani del pool della Dda di Caltanissetta probabilmente dava anche un po' il metro di quale fosse la convinzione dei vertici della Procura su quelle indagini”. Quella richiesta aveva preso il via “dopo le dichiarazioni di Cancemi”. L’ex membro della Cupola di Cosa nostra, sentito al “ter”, aveva dichiarato che “in quel momento’’, cioé nel ’92, Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri erano ''gli uomini importanti con i quali Riina in aveva contatti e 'diceva di avere nelle mani'''.

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Il pm Luca Tescaroli


Il collegamento con i mandanti esterni era per Cancemi chiaro: ''Riina per fare le stragi è stato guidato mano manina'', dichiarava il pentito, facendo i nomi di “Berlusconi e Dell'Utri”. “Non è una mia convinzione - aggiungeva - è Riina che ce lo ha detto nel corso delle riunioni per la preparazione della strage di Capaci''. Il pentito riferiva inoltre di aver ricevuto una confidenza da Raffaele Ganci, capomafia della Noce, al ritorno da una riunione preparatoria per l’eccidio del 23 maggio. Ci sono anche delle “persone importanti”, recitava la confidenza, che avrebbero assicurato a Totò Riina la revisione dei processi e una legislazione favorevole. “Ganci non mi fece i nomi – diceva Cancemi – ma una cosa deve essere chiara, queste persone non erano certo uomini di Cosa nostra, perché più importanti di Riina e Provenzano non ce ne sono all’interno dell’organizzazione, quindi i personaggi con cui Riina si è incontrato li dovete cercare fuori dell’organizzazione”. 
Per l’iscrizione di Berlusconi e Dell’Utri con gli pseudonimi “Alfa” e “Beta”, aveva spiegato ancora Di Matteo, “ci riunimmo” con il procuratore Tinebra, che “disse: 'io non sono d'accordo ma se voi lo siete iscrivetelo con la secretazione, ma su questa cosa non pretendete che io possa partecipare alle vostre indagini’”.
Due nomi, quelli di Berlusconi e Dell’Utri, che emersero con forza successivamente proprio con Gaspare Spatuzza, che indicò entrambi come i nuovi referenti politici di Cosa nostra. Nomi che gli furono riferiti dal suo capo Giuseppe Graviano quando, durante un incontro avvenuto a Roma al bar Doney, gli disse che grazie a “quello di canale 5” (Berlusconi, ndr) e un loro “paesano” (Dell’Utri, ndr) si erano messi “il Paese nelle mani”.
Dichiarazioni che si inseriscono all’interno della trattativa tra Stato e mafia che si è sviluppata in un dialogo a colpi di bombe tra il 1992 ed il 1994.












Trattativa e “tastate” di polso
Il primo a parlare di trattativa fu il collaboratore Giovanni Brusca, raccontando ai magistrati di un Riina entusiasta che, dopo l’omicidio Falcone, aveva annunciato: “Si sono fatti sotto… gli ho fatto un papello tanto”, alludendo ad una serie di richieste che tramite Vito Ciancimino aveva fatto pervenire ad interlocutori istituzionali. E alle rimostranze di preoccupazione avanzate da Brusca aveva persino aggiunto “… stai tranquillo è tutto sotto controllo, mi hanno messo dietro anche i servizi segreti…”. In un verbale Brusca, parlando con il pm Gabriele Chelazzi (deceduto per infarto nel 2003), rivela chi era il terminale della trattativa. “Si sono fatti sotto… ho avuto un messaggio. Viene da Mancino”. Un nome, quello dell’ex ministro degli Interni, che è stato fatto per la prima volta in aula proprio durante il Borsellino ter, su specifica domanda di Di Matteo.

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L'arresto di Giovanni Brusca


Le dichiarazioni dell’ex boss di San Giuseppe Jato confluirono anche nella sentenza del ter: “Riina voleva creare un ‘tavolo rotondo’ di trattativa con i politici” si legge. “Chi le dice questa frase: ‘Ci vuole un altro colpetto’ e in che contesto? - chiedeva Di Matteo all’interrogatorio del pentito - Perchè lei colloca questo invito alla trattativa di cui ha parlato?”. E Brusca rispondeva: “Mi si dice: ‘Ci vuole un'altra... un'altra botta’, per sollecitare a quelle persone con cui aveva a che fare per ritornare e riprendere il discorso”. Un “discorso” che il pentito Antonino Giuffrè - sentito anche al Capaci bis - collegava alla volontà della massoneria, sondata con una “tastata di polso”: “Anche la massoneria voleva fermare Falcone. Probabilmente anche la famosa P2 di Gelli" aveva rivelato il collaboratore, chiarendo che “contro Falcone ci fu un adoperarsi a più livelli perché con le inchieste andava a ledere rapporti professionali ed economici importanti, andava a colpire l'intrigo che c'era tra mafia ed organi esterni”. “C’erano contatti di Provenzano e Riina con la massoneria deviata. - aveva continuato Giuffrè - Potevano esserci anche rapporti tra Cosa nostra e la P2. Ricordo che Sindona stesso fosse legato a qualche massoneria deviata di questo genere". Due rivelazioni su tutte per comprendere che il disegno delle stragi andava molto oltre gli ambienti di Cosa nostra.
C’è poi quel dato, consacrato anche in sentenze definitive, su un’accelerazione anomala della esecuzione della strage di via d'Amelio rispetto al programma di attentati eccellenti per cui l'uccisione di Borsellino doveva essere successiva rispetto a quella di altri soggetti (come l’onorevole Calogero Mannino ed altri) così come riferito sempre dai collaboratori di giustizia.












Capitoli bui
Ma ci sono anche altri elementi, emersi in questi anni, su cui è necessario scavare per fare luce su uno dei capitoli più bui della nostra storia. Ad esempio il ruolo di personaggi come Elio Ciolini, il quale, con le sue lettere mandate alle varie agenzie giornalistiche e al governo, anticipava le stragi che avrebbero fatto saltare in aria le strade e i palazzi di Palermo, a Firenze, Roma, Milano. Quell'uomo non risulta appartenere a Cosa nostra. Come è possibile allora che fosse a conoscenza di questi avvenimenti, che lo stesso ministro Scotti apprese con considerevole allarme?
E perché nel 1993, quando ancora le stragi in Continente non erano avvenute, non venne dato peso alle dichiarazioni dell’ex boss di Trani, Salvatore Annacondia? Al processo trattativa il collaboratore di giustizia, sentito nel giugno 2015 ha dichiarato di essere venuto a conoscenza delle stragi grazie ad un certo Antonino Cucuzza, che all'Asinara era detenuto nella sezione napoletana, durante un trasferimento avvenuto a fine settembre 1992, e di aver poi allertato un funzionario della Dia di Bari: “A gennaio '93, quando non era successo ancora niente, ne avevo già parlato alla Dia di Bari, solo che non hanno dato peso alla notizia, non so cosa sia successo, parliamo di un funzionario… non fu fatto verbale, forse fu preso sottogamba".
Altra figura ambigua inserita nel contesto delle stragi è l’artificiere Pietro Rampulla, colui che preparò il sofisticato telecomando che poi Brusca ha premuto in esecuzione della strage di Capaci proprio perché Rampulla, che doveva svolgere questo compito, all'ultimo momento sparì dallo scenario adducendo un impegno familiare. Rampulla è uomo di Cosa nostra ma anche appartenente ai movimenti eversivi di estrema destra (implicato in alcuni episodi di terrorismo) che partecipò all'assemblaggio dei vari esplosivi ricavati dai residuati bellici che, opportunamente miscelati, vennero posti sotto l'autostrada di Capaci.
E poi ancora la “strana coincidenza” della presenza di un bigliettino, scoperto da Luca Tescaroli, rinvenuto intorno alla macchina distrutta del giudice Falcone, a Capaci. Quel bigliettino recava scritto un numero di telefono dei servizi segreti.

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Il pm Gianfranco Donadio


Parlando di “elementi che sono emersi e che possono ancora essere sviluppati” Gianfranco Donadio, magistrato della Procura nazionale antimafia e consulente per la Commissione Moro, alla conferenza di ANTIMAFIADuemila a Palermo, lo scorso 17 luglio, ha ricordato che “nel luogo della strage vennero trovati dei frammenti di plastica di un telecomando particolare. Gli investigatori riuscirono ad arrivare alla società che aveva prodotto quel telecomando, la Telcoma, che produceva sistemi di innesco radiocomandati che funzionavano anche oltre 30 km distanza, e che era in grado di sfuggire ad ogni tipo di interferenza”. “Thu era il modello del telecomando costruito in poche centinaia di pezzi – ha precisato Donadio – aveva subito alcune modifiche e quegli elementi stabilirono l’anno di costruzione: non erano tantissimi e si realizzò una mappa, qualcuno di quei telecomandi era stato venduto in Sicilia da un’azienda catanese’’. “Cosa nostra - ha quindi concluso Donadio - è stata rifornita da qualcuno di questi telecomandi”.
Non possiamo non tener conto, poi, dell’incredibile marcia indietro di Riina che, all’improvviso, interrompe il progetto di uccidere Falcone a Roma, dove era necessario un solo killer, prendendo la decisione di far saltare in aria un'intera autostrada a Palermo. Perché si scelse quella via più eclatante?
Domande a cui le nuove indagini delle Procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, anche alla luce delle intercettazioni che hanno visto protagonista Giuseppe Graviano con il camorrista Umberto Adinolfi, dovrebbero avviare.
E qualora si avessero ancora dubbi sul genere di potere che voleva morti Falcone e Borsellino basterebbe girare ulteriormente indietro le lancette dell’orologio del tempo, riportando al 1989 quando, all’indomani dell’attentato fallito all’Addaura, lo stesso Falcone disse in un’intervista a Saverio Lodato: “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”. Parole profetiche.
E’ vero. Il ruolo del magistrato è quello di trovare i riscontri, ma alla luce dei fatti la presenza di collegamenti “esterni” a Cosa nostra sono tutt’altro che apparenti.
Ecco la verità. A Caltanissetta ci sono stati magistrati che hanno cercato i mandanti esterni della strage di via d’Amelio e Capaci. E sono stati stoppati. Oggi più che mai è necessario andare oltre i depistaggi di queste stragi di Stato. Occorre continuare a cercare - ognuno nel proprio ruolo, che sia all'interno della magistratura, nell'ambito giornalistico o politico-istituzionale - quei mandanti dal volto coperto; prima che la voragine dell'oblio e dell'impunità inghiotta definitivamente la ricerca della verità.

* ha collaborato Miriam Cuccu

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