Prova del nove: da D'Amico...
A corroborare le dichiarazioni di Galatolo, a febbraio 2015, è il neopentito Carmelo D’Amico, ex mafioso di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Il collaboratore racconta che nell'aprile 2014 alcuni boss siciliani rinchiusi nel carcere milanese di Opera si aspettavano "da un momento all'altro" la notizia del nuovo attentato a Di Matteo. "Me lo disse il capomafia Nino Rotolo” dice ai pm, “che Di Matteo doveva morire a tutti i costi”. Rotolo, in carcere, ne parlava proprio con Vincenzo Galatolo, padre di Vito.
Ad aumentare il clima di tensione al palazzo di giustizia ci sono però anche altri episodi. Nei giorni scorsi alcuni bambini che frequentano il “Tc2” (il circolo del tennis di via San Lorenzo, nel mandamento di Girolamo Biondino) raccontano di aver visto due uomini con un fucile appostati di fronte all’ingresso secondario. I ragazzini sarebbero tutti concordi nel descrivere la presenza di un mirino di precisione tra le armi avvistate. Un elemento chiave che induce a pensare all'esistenza di un nuovo piano di morte che ha nell'utilizzo di un “cecchino”, capace di colpire anche da lontano il magistrato, il suo punto di forza.
Un'elaborazione grafica del collaboratore di giustizia Carmelo D'Amico
I giovani raccontano anche della presenza di un furgone, per cui è stata fornita persino una targa. Ed è dall'approfondimento di questo dato che emerge un'inquietante coincidenza. Il furgone risulta appartenere ad una società edilizia ed il proprietario dello stesso sarebbe un soggetto che qualche tempo addietro era stato segnalato, durante un semplice controllo autostradale, in compagnia con il figlio minore di Riina, Giuseppe Salvatore, che tuttora vive a Padova.
Intanto il processo trattativa Stato-mafia, che inesorabilmente va avanti (dopo aver addirittura ottenuto la testimonianza “eccellente” dell’allora Presidente Napolitano, seppur in trasferta al Quirinale e a porte chiuse) subisce nuovi colpi. A seguito del rigetto dell’istanza di rimessione, i difensori degli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Mauro Obinu e Giuseppe De Donno tornano alla carica con un esposto a causa di alcune sedicenti violazioni: lunghezza infinita delle indagini, al limite di quanto consentito dalla legge, deleghe di inchieste delicate affidate ad inquirenti che non sarebbero titolati, magistrati che indagano su questioni di mafia pur non facendo parte della Dda, fughe di notizie, intercettazioni illegittime di conversazioni con i difensori, dispendiose rogatorie internazionali e spese eccessive. Il riferimento è tutto per il pool trattativa. A questo si aggiunge la sonora bocciatura di Di Matteo, che aveva fatto domanda per andare alla Direzione nazionale antimafia, da parte del Csm, per la quale il pm presenterà ricorso al Tar (ricorso contro il quale si opporrà lo stesso Consiglio superiore della magistratura).
"La principale ragione che ha indotto il ricorrente a insorgere è di natura congiunta, morale e professionale. Per via della umiliante pretermissione del valore degli anni di sacrifici, rischi, impegno in cui si è articolata la carriera del ricorrente al servizio della giustizia” / Il ricorso al Tar
Nonostante i molteplici meriti e una carriera più che ventennale in inchieste di mafia, al posto del sostituto procuratore di Palermo sono scelti altri tre nomi per la Procura nazionale antimafia. L’ennesimo segnale mancato di vicinanza.
Il 7 maggio 2015, pochissimi giorni prima che il bomb jammer sia finalmente predisposto per Di Matteo, Vito Galatolo testimonia al processo trattativa davanti allo stesso pm che ha messo in guardia da un serio pericolo di vita. È in questa occasione che il pentito spiega che Di Matteo stava andando troppo oltre per le indagini “di questo processo” aggiungendo ulteriori dettagli sulla messa a disposizione da parte di Messina Denaro di un suo artificiere. “Avevamo l'ordine che non dovevamo presentarci con questa persona. - spiega il collaboratore di giustizia - Ci stupiva il fatto che non dovevamo sapere chi era questo uomo di Messina Denaro... Noi capimmo che era esterno a Cosa Nostra e che poteva essere qualcuno dello Stato che era interessato a fare questa strage”. Il latitante trapanese, tra l’altro, si era preoccupato di rassicurare gli affiliati.
“Facendo quell’attentato (a Di Matteo, ndr) non ci dovevamo preoccupare perché questa volta saremmo stati coperti” / Vito Galatolo
“Si doveva dare un segnale che la mafia era sempre pronta a reagire allo Stato, anche qui si parlava in maniera affettuosa. Oltre all'attentato a Di Matteo si parlava di eliminare anche i due pentiti, 'Manuzza', Nino Giuffré, e Gaspare Spatuzza, Se accettavamo di fare l'attentato avremmo dovuto dire tutto a Mimmo (Biondino, ndr) che lui sapeva come organizzare. Biondino nello specifico si doveva occupare dell'esplosivo. C'erano da raccogliere dei soldi anche. Ed ogni mandamento doveva mettere due persone”.
Tra i summit indicati dall'ex boss dell'Acquasanta ve ne è uno a Ballarò il pomeriggio del 9 dicembre 2012. In quel periodo su Girolamo Biondino pendeva un'indagine della Procura di Palermo. Dopo le verifiche degli inquirenti si è scoperto che proprio in quel pomeriggio la telecamera piazzata davanti casa del boss di San Lorenzo aveva smesso di funzionare per il maltempo. Da un’ulteriore verifica è emerso che il mafioso era uscito con un familiare, anche lui sotto controllo. La voce di quel familiare è rimasta registrata al telefono mentre parlava con la moglie di Girolamo Biondino.
...a Chiarello
Siamo a settembre 2015, e un altro pentito conferma l’esistenza del tritolo acquistato apposta per Di Matteo (sul quale più di un “benpensante” ha sollevato qualche dubbio). “L’esplosivo per l’attentato al pm Nino Di Matteo è stato trasferito in un altro nascondiglio sicuro” rivela l’ex boss di Borgo Vecchio, Francesco Chiarello. In particolare Chiarello riferisce di aver appreso dell'esistenza dell'esplosivo dal suo compagno di cella, Camillo Graziano, figlio di quel Vincenzo Graziano accusato dal pentito Galatolo di aver conservato l'esplosivo. “Mi disse che per fortuna suo padre era stato scarcerato, così aveva potuto spostare il tritolo” spiega Chiarello. Proprio dopo aver saputo della scarcerazione di Graziano, Galatolo aveva deciso di collaborare per “togliersi un peso dal cuore”.
Ma a seguito delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sono poche le voci che si levano in sostegno di Di Matteo, dentro e fuori la magistratura. All’indomani delle rivelazioni di Chiarello è il pm Domenico Gozzo, ex procuratore aggiunto di Caltanissetta (oggi sostituto procuratore generale a Palermo) a commentare quanto detto dall'ultimo pentito.
“Questo mi preoccupa molto, confermando quello che ho pensato in questi anni sui pericoli che corre Nino. Sarebbe giusto che l'Anm dicesse qualcosa sul punto. Dobbiamo fare di tutto, tutti, perché a Palermo non succeda di nuovo quanto è già accaduto" / Domenico Gozzo
Inutile dire che dall’Anm non giunge alcun “feedback”. Dalla Calabria il pm Lombardo, come Di Matteo scortato e tenuto sotto tiro dalla criminalità organizzata, aggiunge: “Nel momento in cui si pensa di colpire un magistrato simbolo come Nino Di Matteo, il messaggio che si vuole mandare è diretto a bloccarne tanti altri. Quando ci si trova di fronte a riferimenti puntuali come quelli fatti da un collaboratore di giustizia come Galatolo, una certezza deve accompagnarci: qualcuno ha riflettuto molto bene sui reali obiettivi da raggiungere. Un'azione di questo tipo è pensata e programmata in ambienti composti non solo dai vertici delle diverse organizzazioni criminali, a cui difetta la necessaria raffinatezza strategica”.
A voler compensare, per quanto possibile, l’assenza di una vera solidarietà istituzionale, è la manifestazione organizzata il 14 novembre 2015 per “rompere il silenzio” nei confronti dello stillicidio di minacce e condanne a morte, alla quale partecipano duemila manifestanti nonché varie personalità politiche e dello spettacolo. Proprio in questa occasione l’unica voce istituzionale a levarsi è quella del presidente del Senato Piero Grasso, che invia una lettera.
"Voglio dire che sono in piazza con voi a Roma a sostegno di Nino Di Matteo. L'occasione di oggi, che dimostra un affetto diffuso e sentito tra i cittadini, è ancora più utile per ribadire con forza che la mafia non è riuscita con le sue minacce, né tantomeno con le sue sanguinarie stragi, a fermare il lavoro della magistratura in passato, non ci sta riuscendo ora e non ci riuscirà in futuro” / Piero Grasso
Un nuovo tassello, a gennaio 2016, è rappresentato dall’arresto dell’avvocato Marcello Marcatajo. Il legale, che acquistava e vendeva appartamenti e ville dei costruttori Graziano, è ritenuto dagli inquirenti il braccio imprenditoriale del clan all’Arenella, per una serie di operazioni volta ad evitare in particolare i sequestri ai beni della stessa famiglia. A lui era stato dato il mandato di vendere 30 box auto al prezzo di 500mila euro e la metà di quella somma sarebbe appunto stata utilizzata per acquistare il tritolo per uccidere Di Matteo. A svelare il particolare della vendita dei box era stato nei mesi scorsi proprio Vito Galatolo. Marcatajo, nei giorni in cui si parla dell'attentato, commenta le notizie: “Questi per ora (parlando dei pm) hanno altre cose da spiare, e figurati: tritolo, cazzi, mazzi”. In un colloquio con un altro indagato (Francesco Cuccio) emerge la loro preoccupazione. “Marcello, stai attento che ti fregano se avverrà quello che ti ho detto, perché sei diventato tu la condanna”, gli dice. E Marcatajo ribatte: “Io mi sono allontanato”. Ma l'altro aggiunge: “Per prima, i famosi box che sono spuntati sul giornale…”.