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Messina Denaro e gli “amici romani”
Non passa nemmeno un mese - è il 2 aprile 2013 - e per Di Matteo arriva una nuova lettera anonima.


“Amici romani di Matteo (Messina Denaro, ndr) hanno deciso di eliminare il pm Nino Di Matteo in questo momento di confusione istituzionale, per fermare questa deriva di ingovernabilità. L’Italia non può finire in mano a froci e comici (Vendola e Grillo, ndr). Cosa Nostra ha dato il suo assenso, ma io non sono d’accordo” / Lettera anonima


Il mittente si descrive come un “uomo d’onore della famiglia trapanese di Alcamo” e fornisce una serie di notizie sugli spostamenti quotidiani del magistrato e sui punti più deboli della sua protezione. Quindi indica una serie di depositi di armi ed esplosivi nascosti in una serie di luoghi nel palermitano, aggiungendo che l’eliminazione di Nino Di Matteo è stata decisa “in alternativa a quella di Massimo Ciancimino”. “Ho conosciuto altri affiliati della famiglia di Palermo (…) è stato deciso di fare il lavoro entro maggio. - prosegue - Di Matteo lo dovremo affrontare con un commando di due macchine e tre moto”. Tutto questo nel silenzio di (quasi) tutta la grande stampa nazionale e delle istituzioni. In particolare nulla perviene (e nulla perverrà) dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale aveva invece sollevato un tutt’ora inspiegabile conflitto di attribuzione nei confronti della Procura di Palermo sul caso delle intercettazioni che lo vedevano coinvolto con l’ex ministro Nicola Mancino, imputato al processo trattativa Stato-mafia per falsa testimonianza. E senza che Di Matteo fosse dotato del bomb jammer, sofisticato strumento che vanifica qualsiasi detonazione di esplosivo collegato ad un radiocomando. L’attesa durerà ancora due anni, fatti di innumerevoli passi avanti e indietro, prima che l’auto del magistrato più in pericolo d’Italia sia effettivamente fornita del jammer.

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L'ex ministro Nicola Mancino ed l'ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano


Ma il nuovo “corvo” di Palermo ha ancora molto altro da dire: poche settimane dopo sul tavolo dell’allora procuratore Francesco Messineo arriva una nuova lettera anonima per Di Matteo. L’autore lancia un allarme: la protezione assegnata al pm è insufficiente, deve evitare i “passaggi stretti’’. Perché la minaccia, spiega, stavolta arriva “da lontano”, e renderà l’agguato tecnicamente diverso da quelli orchestrati nel ’92 per Falcone e Borsellino.
“Ti spiano”, rincara la dose un’ulteriore missiva. È il 27 maggio 2013, giorno in cui si tiene la prima udienza del tanto contestato processo sulla trattativa Stato-mafia, per il quale Di Matteo è uno dei pubblici ministeri.


“Attenzione a quando parli, alle auto su cui viaggi, al telefono cellulare. È come se avessi vicino a te una microspia. Navighi su un’antica giunca a vela, insieme a persone sbagliate, e affinché tu non finisca in un quasar ti offro altre informazioni” / Lettera anonima


Di Matteo, secondo la lettera anonima, è controllato ovunque e a stretto giro. Ma nel frattempo il suo livello di sicurezza è solo apparentemente aumentato, con l'unica aggiunta di altri due uomini e una macchina non blindata. Sotto la casa del magistrato non c’è alcuna telecamera che sorvegli la zona, la bonifica dei tombini non impedisce la possibilità che qualcuno introduca un ordigno esplosivo. Non c’è nemmeno una zona di rimozione, così come non c'era in via d'Amelio, dove Paolo Borsellino si recò a casa della madre per l'ultima volta in quel 19 luglio 1992.
Ed è proprio a pochi giorni di distanza dal 21° anniversario dell’uccisione di Borsellino e degli agenti di scorta che torna lo spettro dell’attentato a Di Matteo. All'inizio di luglio 2013 un confidente svela alla squadra mobile di Palermo che Cosa nostra starebbe preparando un attentato nei confronti del magistrato. Il confidente parla di una riunione fra capimafia di città e alcuni "paesani", in cui qualcuno avrebbe addirittura sollecitato l'esecuzione dell'attentato. In quell'incontro, ha aggiunto, “si è anche detto che l'esplosivo è già arrivato”. Ora per Di Matteo si predispone il livello uno di sicurezza, il più elevato. Per il pm  arrivano tre auto blindate, più una quarta a fare da “staffetta”, mentre sotto l'abitazione del magistrato c'è una vigilanza fissa e altri carabinieri si occupano della bonifica delle strade e dei luoghi da lui maggiormente frequentati.

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I pubblici ministeri di Palermo Francesco Del Bene, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi © Castolo Giannini


L’accanimento nei confronti di Di Matteo, ma anche degli altri magistrati Francesco Del Bene, Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia, che rappresentano la pubblica accusa al processo trattativa (ugualmente destinatari di minacce e misteriose incursioni) è emblematico dell’astio nutrito per un dibattimento che a Cosa nostra (e forse anche a soggetti esterni) proprio non va giù. Senza contare che Di Matteo continua ad essere oberato di “processetti” (per abuso edilizio e quant’altro) che sottraggono tempo alle indagini sui dialoghi intercorsi tra Stato e mafia nel ‘92. A giugno 2013, tornando a casa, Tartaglia si accorge che la serratura è stata forzata: ignoti hanno impilato alcuni oggetti, presi dalla camera da letto, su un mobile all'ingresso, per poi rovistare tra i cassetti senza portare via nulla. A sparire, invece, la pen drive del magistrato dove erano memorizzati i verbali non ancora depositati dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Un inquietante modus operandi ordito da qualcuno che sapeva di quali documenti il pm si sta occupando. A ottobre, invece un vicino di casa del pm Francesco Del Bene segnala la presenza di uno sconosciuto davanti l’ingresso dell’abitazione. Circostanza da non sottovalutare alla luce delle intercettazioni emerse fra due mafiosi: in quei dialoghi si parla infatti di un progetto per eliminare il magistrato.

Terremoto Riina
Il 13 novembre 2013 la conferma che Cosa nostra ha scritto il nome di Di Matteo sulla sua lista nera, oggi e per sempre: giunge da dietro le sbarre del carcere di Opera, a Milano, dove il boss corleonese Totò Riina è detenuto al 41 bis.

“Di Matteo deve morire. E con lui tutti i pm della trattativa, mi stanno facendo impazzire” / Totò Riina


La tensione sale alle stelle, e per Di Matteo si valuta addirittura un trasferimento in una località segreta assieme alla famiglia. Lo stesso che accadde a Falcone e Borsellino quando furono portati all'Asinara per ultimare in sicurezza la stesura dell'atto d'accusa del maxiprocesso. Riina, inoltre, avrebbe indicato tra gli obiettivi da uccidere anche il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, che fino a qualche mese fa, a Caltanissetta, si è occupato della revisione del processo per la strage di via d'Amelio. Il silenzio proveniente dalle sfere istituzionali è sempre più compatto. Ma a Palermo duemila persone esprimono la propria solidarietà a Di Matteo durante la manifestazione organizzata pochi giorni dopo, seguita da altri eventi in diverse città d’Italia. Molte di queste, in segno di vicinanza, proclameranno il magistrato cittadino onorario di vari comuni del Paese, da Milano a Messina.
Da qui in avanti, però, le dure parole pronunciate da Riina in compagnia di Alberto Lorusso, esponente della mafia pugliese, rimbalzano a più riprese sulla stampa: “Questi cornuti... (i pm di Palermo, ndr), se fossi fuori gli macinerei le ossa”. E ancora bisbigliando: “Sono stati capaci di portarsi pure Napolitano” commentando la contestatissima richiesta all'allora Capo dello Stato di rendere testimonianza al processo trattativa. E riferendosi a Di Matteo: “Ma che vuole questo? Perché mi guarda? A questo devo fargli fare la fine degli altri. Fa parlare i pentiti, gli tira le cose di bocca è uno troppo accanito”. L'idea di intercettare Riina sarebbe arrivata grazie alla lettera dell'anonimo “trapanese” dello scorso aprile, il quale avrebbe parlato proprio dell'assenso di Riina, per tramite del figlio, ad un attentato contro Di Matteo.

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Totò Riina nelle riprese della Dia, insieme alla "dama di compagnia" Alberto Lorusso


Il giorno dopo la diffusione della notizia Riina rilancia: “Questo Di Matteo non ce lo possiamo dimenticare. Corleone non dimentica” dice il “capo dei capi” durante l'ora d'aria. E al mafioso pugliese che gli chiede come avrebbe fatto ad eliminarlo se l'avessero portato in una località riservata: “Tanto sempre al processo deve venire”.
Il monitoraggio continua, e gli inquirenti ascoltano un nuovo intervento del capomafia: “È tutto pronto - assicura Riina - e lo faremo in modo eclatante”. Per Di Matteo lo stato d’allerta è sempre più alto, tanto che il pm non può presenziare all’udienza milanese del processo trattativa, quella dedicata all’audizione del pentito Giovanni Brusca che nel ‘96 svelò i negoziati fra il Ros e Riina tramite Ciancimino. Avrebbe dovuto muoversi su un carrarmato Lince tipo Afghanistan, ma comprensibilmente il pm rifiuta una soluzione tanto estrema.
È Di Matteo stesso, intervistato dal Fatto Quotidiano, a correlare tra loro le minacce che ormai lo assediano da 15 mesi: “Sentire e vedere Riina pronunciare quelle parole rabbiose e quegli ordini di morte contro di me mi riporta al contenuto di una delle prime minacce che mi fu recapitata anonimamente” riferendosi alla lettera in cui in cui si parla degli “amici romani di Matteo” (Messina Denaro, ndr) per l’eliminazione del magistrato avallata dal carcere anche da Riina “tramite il figlio”.


“Ora che ho ascoltato la viva voce di Riina
ho capito il collegamento fra le due tipologie di minacce: quelle mafiose e quelle istituzionali o para-istituzionali. E ho colto la sottovalutazione che se ne fa” / Nino Di Matteo


Perché parlare di minacce è improprio e fuorviante, quando il boss stragista numero uno pronuncia vere e proprie sentenze di morte. Nel frattempo, al processo trattativa si è aggiunto un secondo troncone investigativo, che forse fa persino più paura del primo: “Non ci fermiamo certo a cercar di provare la colpevolezza degli attuali imputati. Vogliamo trovare chi li ha manovrati, li ha diretti e ha concorso con loro” annuncia il pm.

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