Perché colpire il magistrato Nino Di Matteo? Le ripetute minacce e incursioni, i pedinamenti, le lettere anonime, fino ad arrivare agli “strali” di Totò Riina e alla rivelazione di un vero e proprio piano per ucciderlo hanno alzato fino ai massimi livelli l'allerta sulla sicurezza del pm più scortato d'Italia, tra i rappresentanti della pubblica accusa al processo trattativa Stato-mafia. Matteo Messina Denaro si giustifica, con i boss palermitani, dicendo che “Di Matteo si è spinto troppo oltre”. Parole che non sono però farina del suo sacco: qualcun altro avrebbe detto alla primula rossa di Castelvetrano di predisporre un piano di morte, con tanto di tritolo acquistato, per fermare Di Matteo costi quel che costi. Siamo a fine dicembre 2012 ma per comprendere l'escalation di pressioni ed episodi intimidatori è necessario risalire ad alcuni anni prima, per poi ripercorrere passo passo le mosse di una misteriosa “regia”, facente capo non a una singola organizzazione criminale ma a un complesso di poteri forti, che mira a bloccare l'operato di Di Matteo e non solo. Altri magistrati, giudicati “scomodi” o “pericolosi” per le carte scottanti da loro maneggiate, diventano bersagli di incursioni, scritte minacciose e strane “consegne” di ordigni esplosivi. Sono anni di fuoco tra Palermo e Reggio Calabria, che vale la pena ricordare per comprendere in quale contesto matura la volontà di eliminare un magistrato, Di Matteo, con il chiaro proposito di colpirne uno per educarne cento.
Stillicidio
Già tra ottobre e novembre 2008 i pm della Procura di Palermo subiscono una vera e propria escalation di intimidazioni. Il sostituto procuratore Laura Vaccaro riceve pesanti minacce telefoniche, non per la prima volta. L’ultimo episodio, però, risulta ancora più preoccupante perché arriva in un momento molto delicato: nelle settimane precedenti altri quattro magistrati sono finiti nel mirino di strane incursioni. Prima il giudice Giacomo Montalbano, poi i sostituti procuratori Nino Di Matteo e Roberto Piscitello, quindi il gip Fabio Licata. A dicembre tocca al giudice Raimondo Lo Forti, presidente della terza sezione del Tribunale di Palermo: davanti all’abitazione del magistrato viene trovata un’auto rubata con i fili dell’accensione scoperti.
Dopo i messaggi minatori giungono dalle istituzioni numerose dichiarazioni di solidarietà, ma nessun provvedimento che riveda o rafforzi i sistemi di protezione attorno ai magistrati. A fine settembre i carabinieri della scorta di Nino Di Matteo stanno quasi per raggiungere l'uomo sorpreso nel giardino di casa del magistrato, a Santa Flavia. È una domenica sera: prima di scomparire fra i cespugli l'ignoto personaggio lancia in aria un razzo di segnalazione. I carabinieri non riescono ad andare oltre: in casi di emergenza hanno la consegna esclusiva di proteggere il magistrato. I rinforzi arrivano nel giro di pochi minuti, ma del misterioso uomo non c'è già più traccia.
Il pm Giuseppe Lombardo © Paolo Bassani
Il 25 gennaio 2010 una busta contenente un proiettile e un biglietto di minacce viene inviata al sostituto procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, titolare di alcune delle inchieste più delicate condotte contro le cosche della città, colui che ha ricostruito quel “sistema criminale integrato” in cui esponenti “invisibili” di mafia, massoneria, politica ed alta finanza stringono accordi in nome di obiettivi comuni. Già poche settimane prima, il 3 gennaio, davanti alla Procura reggina viene lasciata una bombola di gas, su cui era stato collocato dell'esplosivo, che scardina un'inferriata della Procura generale.
A maggio 2010, invece, giungono presso la redazione palermitana del quotidiano La Repubblica una busta contenente un proiettile e un messaggio intimidatorio nei confronti di magistrati antimafia, collaboratori di giustizia e giornalisti. Nella missiva, inviata da Firenze, si parla di “tumori generati da un eccesso di ruoli all'interno del nostro sistema” e si lamenta “un vero attacco a valorosi uomini che hanno dato dignità al nostro paese”. Nella lettera si fa riferimento in particolare, all’allora procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, al pm Nino Di Matteo, al procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, a Massimo Ciancimino e al pentito Gaspare Spatuzza, indicati come “soggetti che direttamente o indirettamente subiranno le conseguenze di operazioni già pianificate”. Nella missiva sono citati anche, sotto la dicitura “in attesa di decisioni”, Michele Santoro e Sandro Ruotolo, definiti “giornalisti in appoggio a un disegno eversivo intrapreso da magistrati comunisti”.
"Sono state disposte operazioni a sostegno della nostra democrazia. Tumori generati da un eccesso di ruoli all'interno del nostro sistema di poteri. Nessun altro ostacolo può essere posto a danno di quest'unico principio di democrazia" / Lettera anonima
A dicembre 2012 nuove lettere minatorie: dopo la missiva recapitata alla segreteria del procuratore di Trapani Marcello Viola, contenente minacce al magistrato e particolari su delicate indagini in corso, un'altra, sempre con mittente sconosciuto, arriva a Di Matteo. Il contenuto si riferisce all'indagine sulla trattativa tra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni (l’ormai nota trattativa Stato-mafia), pesanti giudizi su magistrati della Procura e l'invito esplicito a fidarsi solo dell'ex aggiunto Antonio Ingroia. Si percepisce un sempre maggiore clima di ostilità in Procura. Già a luglio 2012 Di Matteo aveva parlato di un “malcelato fastidio” poi “diventato un manifesto attacco per delegittimare in partenza le inchieste ed i magistrati che le conducono”, considerati “schegge eversive della magistratura”.
“Molti erano convinti che queste (indagini, ndr) non avrebbero portato a nulla o al massimo ad una richiesta di archiviazione. Quando poi è stato chiaro che si sarebbe arrivati ad una contestazione di reato e forse anche ad un processo ecco che si è fatto evidente il cambiamento” / Nino Di Matteo
Il nuovo "corvo"
Passano poche settimane. Il 3 gennaio 2013 dalle colonne di Repubblica si apprende di una ulteriore lettera anonima giunta nell’abitazione di Nino Di Matteo. La missiva, composta da dodici pagine con lo stemma della Repubblica italiana sul frontespizio, era stata inviata il precedente 18 settembre e viene indicata in codice come “Protocollo fantasma”. Per gli investigatori si tratta di contenuti attendibili, forse provenienti da qualcuno che negli anni ’90 lavorò in qualche apparato investigativo. È il nuovo “corvo” di Palermo.
Nella lettera si parla dell’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993, il cui covo è stato visitato da qualcuno prima della perquisizione del procuratore Caselli. Poi vengono messi in guardia i magistrati, avvertendoli di essere spiati da “uomini delle Istituzioni”. Ed ancora, un appello a guardarsi le spalle da un traditore all’interno la Procura, un magistrato di cui il pool sulla trattativa “non dovrebbe fidarsi”.
“Ci sono catacombe all’interno dello Stato sepolte e ricoperte di cemento armato, ma alcune verità si possono ancora trovare” / Lettera anonima
Avvertimenti precisi e in alcuni casi riscontrati dal fatto che da circa un anno i magistrati di Palermo hanno raccolto in un fascicolo una mezza dozzina di casi in cui vi è traccia di pedinamenti, computer manomessi, paura di microspie all’interno degli uffici, chiamate misteriose ricevute su utenze riservate da schede internazionali. Tra i vari casi, quello che ha riguardato l’inseguimento di un agente della Dia che collabora con Di Matteo all’inchiesta sulla trattativa. Era il dicembre 2011, il militare si era accorto di essere seguito mentre raggiungeva il Tribunale. Era entrato così dentro il Palazzo di Giustizia avvertendo i compagni della sua sezione che si erano messi in moto per effettuare il contro pedinamento. Si scopriva che il pedinatore era un carabiniere. E nell’ottobre 2012 i sostituti Tartaglia e Di Matteo, recatisi in una località segreta per ascoltare un testimone, ricevevano la visita di un uomo che aveva dimostrato di conoscere molti particolari sui motivi della loro trasferta. Tempo prima gli agenti di scorta di Di Matteo avevano persino trovato una sbarra di ferro, usata solitamente per aprire i tombini, nascosta nell’aiuola del suo giardino. E qualche mese dopo, la scorta del magistrato scopriva che qualcuno aveva armeggiato dentro una cassetta elettrica all’interno del pianerottolo della sua abitazione. Tutti casi da cui s’intravedono segni d’intimidazione e d’intervento esterno teso a controllare in tempo reale le mosse dei magistrati che indagano sui rapporti tra Stato e mafia.
Il boss latitante Matteo Messina Denaro
Nella lettera inviata a Di Matteo il “corvo” fornisce anche ulteriori dettagli sulle “attenzioni” ricevute dal procuratore di Trapani Marcello Viola, che sarebbe sorvegliato, tra le altre cose, a causa delle indagini da lui condotte sull'ultimo storico boss latitante, Matteo Messina Denaro. Un fatto che apre alla possibilità che l'anonimo di Palermo e quello di Trapani in realtà potrebbero essere la stessa persona.
A marzo 2013 le minacce contro il pm Lombardo si inaspriscono ulteriormente: arriva una busta con cinquanta grammi di polvere pirica ed un biglietto di minacce: “Se non la smetti ci sono pronti altri 200 chili”. Già nell'ottobre 2011, nel parcheggio del palazzo che ospita la Procura, era stato trovato un ordigno rudimentale poggiato su una foto del magistrato, e precedentemente una busta con dentro un proiettile di mitra kalashnikov era stata intercettata nel centro di smistamento delle poste di Lamezia Terme. A queste vanno aggiunte le lettere contenenti proiettili del 25 gennaio 2010 e del 17 maggio successivo. E in una precedente indagine era stato intercettato un esponente della cosca Labate che affermava: “A quello prima gli spariamo e meglio è”.
Messina Denaro e gli “amici romani”
Non passa nemmeno un mese - è il 2 aprile 2013 - e per Di Matteo arriva una nuova lettera anonima.
“Amici romani di Matteo (Messina Denaro, ndr) hanno deciso di eliminare il pm Nino Di Matteo in questo momento di confusione istituzionale, per fermare questa deriva di ingovernabilità. L’Italia non può finire in mano a froci e comici (Vendola e Grillo, ndr). Cosa Nostra ha dato il suo assenso, ma io non sono d’accordo” / Lettera anonima
Il mittente si descrive come un “uomo d’onore della famiglia trapanese di Alcamo” e fornisce una serie di notizie sugli spostamenti quotidiani del magistrato e sui punti più deboli della sua protezione. Quindi indica una serie di depositi di armi ed esplosivi nascosti in una serie di luoghi nel palermitano, aggiungendo che l’eliminazione di Nino Di Matteo è stata decisa “in alternativa a quella di Massimo Ciancimino”. “Ho conosciuto altri affiliati della famiglia di Palermo (…) è stato deciso di fare il lavoro entro maggio. - prosegue - Di Matteo lo dovremo affrontare con un commando di due macchine e tre moto”. Tutto questo nel silenzio di (quasi) tutta la grande stampa nazionale e delle istituzioni. In particolare nulla perviene (e nulla perverrà) dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale aveva invece sollevato un tutt’ora inspiegabile conflitto di attribuzione nei confronti della Procura di Palermo sul caso delle intercettazioni che lo vedevano coinvolto con l’ex ministro Nicola Mancino, imputato al processo trattativa Stato-mafia per falsa testimonianza. E senza che Di Matteo fosse dotato del bomb jammer, sofisticato strumento che vanifica qualsiasi detonazione di esplosivo collegato ad un radiocomando. L’attesa durerà ancora due anni, fatti di innumerevoli passi avanti e indietro, prima che l’auto del magistrato più in pericolo d’Italia sia effettivamente fornita del jammer.
L'ex ministro Nicola Mancino ed l'ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
Ma il nuovo “corvo” di Palermo ha ancora molto altro da dire: poche settimane dopo sul tavolo dell’allora procuratore Francesco Messineo arriva una nuova lettera anonima per Di Matteo. L’autore lancia un allarme: la protezione assegnata al pm è insufficiente, deve evitare i “passaggi stretti’’. Perché la minaccia, spiega, stavolta arriva “da lontano”, e renderà l’agguato tecnicamente diverso da quelli orchestrati nel ’92 per Falcone e Borsellino.
“Ti spiano”, rincara la dose un’ulteriore missiva. È il 27 maggio 2013, giorno in cui si tiene la prima udienza del tanto contestato processo sulla trattativa Stato-mafia, per il quale Di Matteo è uno dei pubblici ministeri.
“Attenzione a quando parli, alle auto su cui viaggi, al telefono cellulare. È come se avessi vicino a te una microspia. Navighi su un’antica giunca a vela, insieme a persone sbagliate, e affinché tu non finisca in un quasar ti offro altre informazioni” / Lettera anonima
Di Matteo, secondo la lettera anonima, è controllato ovunque e a stretto giro. Ma nel frattempo il suo livello di sicurezza è solo apparentemente aumentato, con l'unica aggiunta di altri due uomini e una macchina non blindata. Sotto la casa del magistrato non c’è alcuna telecamera che sorvegli la zona, la bonifica dei tombini non impedisce la possibilità che qualcuno introduca un ordigno esplosivo. Non c’è nemmeno una zona di rimozione, così come non c'era in via d'Amelio, dove Paolo Borsellino si recò a casa della madre per l'ultima volta in quel 19 luglio 1992.
Ed è proprio a pochi giorni di distanza dal 21° anniversario dell’uccisione di Borsellino e degli agenti di scorta che torna lo spettro dell’attentato a Di Matteo. All'inizio di luglio 2013 un confidente svela alla squadra mobile di Palermo che Cosa nostra starebbe preparando un attentato nei confronti del magistrato. Il confidente parla di una riunione fra capimafia di città e alcuni "paesani", in cui qualcuno avrebbe addirittura sollecitato l'esecuzione dell'attentato. In quell'incontro, ha aggiunto, “si è anche detto che l'esplosivo è già arrivato”. Ora per Di Matteo si predispone il livello uno di sicurezza, il più elevato. Per il pm arrivano tre auto blindate, più una quarta a fare da “staffetta”, mentre sotto l'abitazione del magistrato c'è una vigilanza fissa e altri carabinieri si occupano della bonifica delle strade e dei luoghi da lui maggiormente frequentati.
I pubblici ministeri di Palermo Francesco Del Bene, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi © Castolo Giannini
L’accanimento nei confronti di Di Matteo, ma anche degli altri magistrati Francesco Del Bene, Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia, che rappresentano la pubblica accusa al processo trattativa (ugualmente destinatari di minacce e misteriose incursioni) è emblematico dell’astio nutrito per un dibattimento che a Cosa nostra (e forse anche a soggetti esterni) proprio non va giù. Senza contare che Di Matteo continua ad essere oberato di “processetti” (per abuso edilizio e quant’altro) che sottraggono tempo alle indagini sui dialoghi intercorsi tra Stato e mafia nel ‘92. A giugno 2013, tornando a casa, Tartaglia si accorge che la serratura è stata forzata: ignoti hanno impilato alcuni oggetti, presi dalla camera da letto, su un mobile all'ingresso, per poi rovistare tra i cassetti senza portare via nulla. A sparire, invece, la pen drive del magistrato dove erano memorizzati i verbali non ancora depositati dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Un inquietante modus operandi ordito da qualcuno che sapeva di quali documenti il pm si sta occupando. A ottobre, invece un vicino di casa del pm Francesco Del Bene segnala la presenza di uno sconosciuto davanti l’ingresso dell’abitazione. Circostanza da non sottovalutare alla luce delle intercettazioni emerse fra due mafiosi: in quei dialoghi si parla infatti di un progetto per eliminare il magistrato.
Terremoto Riina
Il 13 novembre 2013 la conferma che Cosa nostra ha scritto il nome di Di Matteo sulla sua lista nera, oggi e per sempre: giunge da dietro le sbarre del carcere di Opera, a Milano, dove il boss corleonese Totò Riina è detenuto al 41 bis.
“Di Matteo deve morire. E con lui tutti i pm della trattativa, mi stanno facendo impazzire” / Totò Riina
La tensione sale alle stelle, e per Di Matteo si valuta addirittura un trasferimento in una località segreta assieme alla famiglia. Lo stesso che accadde a Falcone e Borsellino quando furono portati all'Asinara per ultimare in sicurezza la stesura dell'atto d'accusa del maxiprocesso. Riina, inoltre, avrebbe indicato tra gli obiettivi da uccidere anche il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, che fino a qualche mese fa, a Caltanissetta, si è occupato della revisione del processo per la strage di via d'Amelio. Il silenzio proveniente dalle sfere istituzionali è sempre più compatto. Ma a Palermo duemila persone esprimono la propria solidarietà a Di Matteo durante la manifestazione organizzata pochi giorni dopo, seguita da altri eventi in diverse città d’Italia. Molte di queste, in segno di vicinanza, proclameranno il magistrato cittadino onorario di vari comuni del Paese, da Milano a Messina.
Da qui in avanti, però, le dure parole pronunciate da Riina in compagnia di Alberto Lorusso, esponente della mafia pugliese, rimbalzano a più riprese sulla stampa: “Questi cornuti... (i pm di Palermo, ndr), se fossi fuori gli macinerei le ossa”. E ancora bisbigliando: “Sono stati capaci di portarsi pure Napolitano” commentando la contestatissima richiesta all'allora Capo dello Stato di rendere testimonianza al processo trattativa. E riferendosi a Di Matteo: “Ma che vuole questo? Perché mi guarda? A questo devo fargli fare la fine degli altri. Fa parlare i pentiti, gli tira le cose di bocca è uno troppo accanito”. L'idea di intercettare Riina sarebbe arrivata grazie alla lettera dell'anonimo “trapanese” dello scorso aprile, il quale avrebbe parlato proprio dell'assenso di Riina, per tramite del figlio, ad un attentato contro Di Matteo.
Totò Riina nelle riprese della Dia, insieme alla "dama di compagnia" Alberto Lorusso
Il giorno dopo la diffusione della notizia Riina rilancia: “Questo Di Matteo non ce lo possiamo dimenticare. Corleone non dimentica” dice il “capo dei capi” durante l'ora d'aria. E al mafioso pugliese che gli chiede come avrebbe fatto ad eliminarlo se l'avessero portato in una località riservata: “Tanto sempre al processo deve venire”.
Il monitoraggio continua, e gli inquirenti ascoltano un nuovo intervento del capomafia: “È tutto pronto - assicura Riina - e lo faremo in modo eclatante”. Per Di Matteo lo stato d’allerta è sempre più alto, tanto che il pm non può presenziare all’udienza milanese del processo trattativa, quella dedicata all’audizione del pentito Giovanni Brusca che nel ‘96 svelò i negoziati fra il Ros e Riina tramite Ciancimino. Avrebbe dovuto muoversi su un carrarmato Lince tipo Afghanistan, ma comprensibilmente il pm rifiuta una soluzione tanto estrema.
È Di Matteo stesso, intervistato dal Fatto Quotidiano, a correlare tra loro le minacce che ormai lo assediano da 15 mesi: “Sentire e vedere Riina pronunciare quelle parole rabbiose e quegli ordini di morte contro di me mi riporta al contenuto di una delle prime minacce che mi fu recapitata anonimamente” riferendosi alla lettera in cui in cui si parla degli “amici romani di Matteo” (Messina Denaro, ndr) per l’eliminazione del magistrato avallata dal carcere anche da Riina “tramite il figlio”.
“Ora che ho ascoltato la viva voce di Riina ho capito il collegamento fra le due tipologie di minacce: quelle mafiose e quelle istituzionali o para-istituzionali. E ho colto la sottovalutazione che se ne fa” / Nino Di Matteo
Perché parlare di minacce è improprio e fuorviante, quando il boss stragista numero uno pronuncia vere e proprie sentenze di morte. Nel frattempo, al processo trattativa si è aggiunto un secondo troncone investigativo, che forse fa persino più paura del primo: “Non ci fermiamo certo a cercar di provare la colpevolezza degli attuali imputati. Vogliamo trovare chi li ha manovrati, li ha diretti e ha concorso con loro” annuncia il pm.
Massima allerta
Intanto, a un aumento degli uomini che scortano Di Matteo, non corrisponde la fornitura di mezzi adeguati. Le auto in dotazione del magistrato sono quattro: una è il mezzo di bonifica su cui viaggiano due militari, quindi c'è una “Jeep” superblindata ma con centinaia di migliaia di chilometri percorsi. Un mezzo che pare abbia anche difficoltà di movimento. A questa si aggiunge la macchina concessa dalla Procura, la cui blindatura è inadeguata e tutt'altro che impenetrabile. Infine vi è una quarta macchina, fino a qualche tempo fa anch'essa piuttosto datata negli anni e solo di recente sostituita con un mezzo più nuovo ma comunque non sufficiente nella blindatura per la sicurezza del magistrato.
È il 20 dicembre 2013 e nuovamente la società civile si dà appuntamento a Palermo, a solo un mese di distanza dal primo corteo, per manifestare ancora una volta solidarietà al magistrato palermitano. Tra gli organizzatori un cartello di società antimafia, tra cui le Agende rosse di Salvatore Borsellino, che darà vita nel tempo a una serie di eventi e iniziative per tenere desta l’attenzione sui pericoli corsi da Di Matteo.
Proprio per dare un’ulteriore segnale di vicinanza al pm ed ai colleghi del pool trattativa, a gennaio nasce il movimento Scorta civica, che dà vita ad un presidio davanti al Tribunale di Palermo che per quasi tre anni rappresenterà un segnale importante della società civile.
Nel frattempo il livello di tutela per Di Matteo si alza: il pm ha ora a disposizione un elicottero per gli spostamenti più delicati, mentre ai nove carabinieri che viaggiano con lui si aggiungono, in alternanza, oltre trenta militari che si occupano della vigilanza dell'abitazione del pm e della bonifica delle strade. È il 20 dicembre 2013 che una delegazione del Csm giunge a Palermo per esprimere solidarietà ai magistrati antimafia minacciati. Eppure il Consiglio superiore della magistratura non incontra il pool trattativa, ma solo Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale, poi indagata per corruzione e abuso d’ufficio proprio per la gestione dei beni confiscati a Cosa nostra. La spiegazione del Consiglio superiore della magistratura aggiunge ulteriore amarezza alla mancata visita.
“L’incontro non era previsto e nessuno ci ha chiesto di partecipare. Non siamo noi gli organizzatori” / La delegazione del Csm
“Siamo molto amareggiati, non ci aspettavamo che il Csm venisse a Palermo per esprimere solidarietà ai magistrati minacciati e non ci incontrasse” / Francesco Del Bene
Intanto le minacce contro i magistrati palermitani si inaspriscono: a gennaio 2014 è la volta di Teresa Principato, procuratore aggiunto impegnata nelle indagini sull'ultimo superlatitante di Cosa nostra: Matteo Messina Denaro. Un confidente ritenuto affidabile rivela che il capomafia di Castelvetrano sta cercando del tritolo per un attentato eclatante nei confronti della Principato. Sono nuove minacce che contribuiscono ad aumentare lo stato di tensione respirato tanto a Palermo quanto a Trapani e Caltanissetta.
Nel frattempo la figura di Alberto Lorusso (trasferito a Rebibbia) assume contorni sempre più inquietanti. Gli inquirenti ritrovano nella sua cella una lettera scritta con l'alfabeto fenicio. E le prime parole codificate sarebbero “Attentato”, “papello” e “Bagarella”. Lorusso, sentito a fine dicembre dal pool della trattativa, è indagato per false dichiarazioni a pubblico ministero. “Sono messaggi senza senso, uno scherzo per dimostrare di essere più intelligente degli investigatori” racconta ai pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. Ma non è ancora chiaro se quella lettera sia stata scritta da Lorusso per recapitare un messaggio all'esterno, se ciò è già stato fatto, o se invece sia stata inviata da qualcuno che voleva “suggerire” argomenti da sostenere con Riina. Due ipotesi entrambe gravi.
Il procuratore aggiunto Teresa Principato
Ci sono però anche altri aspetti su Lorusso che fanno sorgere sospetti ai pm. Ad esempio non è chiaro come possa essere venuto a conoscenza del fatto che i sostituti procuratori di Palermo volevano presenziare tutti insieme all'udienza sulla trattativa per manifestare solidarietà a Di Matteo, dopo le prime notizie delle minacce di Riina. Ai pm risponde di averlo saputo dai giornali e dalle tv, ma quella notizia non è mai stata divulgata né messa in pratica. Chi può aver riferito al boss pugliese un tale fatto, se la proposta era circolata soltanto nelle mail interne dei pubblici ministeri? Interrogato dai pm sui possibili rapporti con uomini dei servizi il capomafia della Sacra Corona Unita ha candidamente risposto: “È meglio non parlare di queste cose”.
La fine del tonno
Riina, nel frattempo, è un fiume in piena: "E allora organizziamola questa cosa! Facciamola grossa e non ne parliamo più". Totò u’ curtu gesticola e mima il gesto di fare in fretta. E soprattutto fa intendere di non avere minimamente timore del dottor Di Matteo.
"Vedi, vedi, si mette là davanti, mi guarda con gli occhi puntati ma a me non mi intimorisce... Questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta e allora, se fosse possibile, ad ucciderlo... Una esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo con i militari" / Totò Riina
"Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono", prosegue Riina con Lorusso. "Questo pubblico ministero di questo processo che mi sta facendo uscire pazzo". Perché il “capo dei capi” ce l’abbia tanto con Di Matteo è lo stesso Riina a spiegarlo: “Perché Di Matteo tutte, tutte, tutte le cosa le impupa lui. (…) questo, ci macina a tutti e ci mette a tutti sotto i piedi, a tutti…”. "Io penso che lui la pagherà pure... - aggiunge, sempre riferendosi al pm tanto odiato - lo sapete come gli finisce a questo la carriera? Come gliel'hanno fatta finire a quello palermitano, a quello... Scaglione (il procuratore di Palermo assassinato dalla mafia nel 1971, ndr), a questo gli finisce lo stesso". Per poi concludere con un invito rivolto all’esterno a “divertirsi”, che nel gergo mafioso si traduce in azioni delittuose: “Intanto… intanto io ho fatto il mio dovere, ma continuate continuate, qualcuno, non dico magari tutti, ma qualcuno divertitevi… una scopettatona (fucilata, ndr) nella testa di questi cornuti”.
Ucciardone. L'ingresso in aula del Capo dei Capi Salvatore "Totò" Riina © Reuters
Totò Riina si dimostra loquace ma quando si tratta di parlare della trattativa e del papello ecco che “dice e non dice”. “La cosa si fermò... tre-quattro mesi... ma non è che si è fermata... comunque il... (parole incomprensibili)... io l’appunto gliel’ho lasciato”. E se Riina si riferisse al “papello”? Paradossalmente, le parole di u’ curtu non fanno altro che alimentare il clima di delegittimazione vissuto da Di Matteo. E certa stampa (Il Giornale, Libero, Il Foglio e il Venerdì di Repubblica, poi querelati da Di Matteo) porta avanti una vera e propria campagna diffamatoria nei suoi confronti, sminuendo la portata delle conversazioni tra il boss corleonese e Lorusso.
“È iniziata quella che ritengo una vera e propria campagna di stampa che, partendo dal chiaro travisamento dei fatti, tende ad accreditare versioni che mi indicano quale autore di condotte e comportamenti che non ho mai tenuto. Non posso accettare che si continui a speculare impunemente perfino su vicende che tanto incidono anche sulla mia vita personale e familiare” / Nino Di Matteo
Questioni che Di Matteo solleva anche in occasione della visita della Commissione antimafia a Palermo. “Assistiamo a degli attacchi nei confronti della nostra attività e, soprattutto, dell'impianto accusatorio del processo per la trattativa che riteniamo immotivati” è la denuncia del pm, che ribadisce: “Abbiamo intenzione di dimostrare la fondatezza della nostra ipotesi di accusa”.
"Accura", Scarpinato!
Il 28 maggio 2014 l’escalation di minacce si rivolge a Roberto Scarpinato, procuratore generale di Palermo. "Attenzione è pronto un regalo scoppiettante per procuratore Scarpinato e dirigente carabinieri tribunale" dice la lettera anonima, recapitata presso la sede palermitana dell'Ansa. Il messaggio è firmato solo P.R.A., una sigla finora ignota.
Nel frattempo si mobilita una raccolta di firme, promossa dalle Agende Rosse di Salvatore Borsellino e da ANTIMAFIADuemila, per nominare Nino Di Matteo procuratore aggiunto di Palermo. Un segno che rappresenterebbe un “inequivocabile sostegno” così come l'intenzione di non togliere tempo prezioso alle indagini sulla trattativa, dato che il pm è costretto a seguire anche casi di giustizia “ordinaria”. Nonostante le oltre 91mila firme raggiunte, l’appello rimane inascoltato.
Il fratello del giudice Paolo Borsellino, Salvatore
Ma non è solo Riina a parlare di un nuovo attentato a Palermo: il 20 agosto 2014 emerge che un confidente della Dna avrebbe rivelato ai magistrati che il boss di Porta Nuova Giovanni Di Giacomo, detenuto al 41bis, “vuole fare un botto a Palermo” e “colpire un rappresentante delle Istituzioni”. Notizia che a pochi mesi di distanza dagli ordini di morte pronunciati da Riina appare ancora più inquietante.
Settembre è di fuoco: la notte tra il 2 e il 3 qualcuno entra nell'ufficio di Scarpinato e lascia sulla scrivania una lettera anonima: “Possiamo raggiungerti ovunque”. Oltre all'invito ad interrompere le indagini fa un elenco di luoghi frequentati dal magistrato.
“Lei sta esorbitando dai suoi compiti e dal suo ruolo, lasci che le cose seguano il loro corso, ogni pazienza ha un limite” / Lettera anonima
Si tratta della collaborazione tra Procura generale e pool trattativa, che proprio nei giorni scorsi ha consegnato nuovi atti riguardanti le indagini sui servizi segreti, il generale Mario Mori, tra gli imputati al processo trattativa, ed i possibili legami di quest'ultimo con la P2 e gli ambienti dell'estremismo nero. Non solo. La Procura di Palermo ha infatti aperto un fascicolo sul cosiddetto "protocollo farfalla", l'accordo top secret siglato tra i vertici del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria e il Sisde, l'ex servizio segreto civile, nel 2004.
La misteriosa intrusione getta un’ombra sulle condizioni di sicurezza del Tribunale. Nelle stanze blindate non vi sono segni di effrazione e con ogni probabilità è stato utilizzato l'ascensore che collega l’ufficio del pg al pianterreno, l’unico accesso non controllato dalle videocamere di sorveglianza. Se a questo si aggiunge che per attivare l'impianto di risalita sono necessarie delle chiavi (le stesse dal 1980) ecco che il livello di attenzione si alza ulteriormente. Ma per quale motivo agire in maniera così eclatante?
Il generale dei Carabinieri, Mario Mori
Quel che è certo è che Scarpinato, secondo gli autori anonimi delle minacce, deve “fare attenzione”. “Accura” (in dialetto “stai attento”) è la scritta trovata sulla porta di fronte l’anticamera della stanza del pg, appena venti giorni dopo, come a voler dire "possiamo arrivare dove vogliamo". In ogni caso il messaggio è più che chiaro e mira a destabilizzare ulteriormente la serenità all'interno del palazzo proprio alla vigilia della ripresa del processo d'appello Mori-Obinu dove l'accusa deve depositare nuovi atti e chiedere la riapertura del dibattimento. La trama della vicenda diventa sempre più oscura, se si pensa che proprio di quei giorni mancano persino le registrazioni video.
Uragano Galatolo
A novembre 2014 una fonte giudicata “attendibile” fa nuovamente tremare la Procura: il tritolo per Di Matteo, dice, è già arrivato a Palermo, e sarebbe situato in diversi punti. È il boss dell’Acquasanta Vito Galatolo a togliersi “un peso dalla coscienza” rivelando il progetto di un attentato a Di Matteo, per il quale le famiglie mafiose palermitane si sarebbero attivate nel recuperare l’esplosivo. Che si troverebbe già a Palermo. L’alternativa, aggiunge Galatolo, ad un agguato a Roma con tanto di bazooka e kalashnikov. Qualche giorno prima il mafioso ha chiesto di parlare con Di Matteo per metterlo in guardia, spiegando di aver preso parte ad un summit di mafia dove si sarebbe parlato di pianificare l’assassinio del magistrato. L’indomani giunge la notizia del suo pentimento: Galatolo ribadisce che “all’eliminazione del magistrato sono interessate anche entità esterne”. Quali sarebbero? La sua famiglia, come emerge da numerose carte processuali, è legata da sempre a settori “deviati” dei servizi, dal fallito attentato all’Addaura contro Falcone in poi.
Il momento dell'arresto di Vito Galatolo, oggi collaboratore di giustizia
Tra gli ultimi a rilasciare dichiarazioni in merito ad una possibilità di attentato contro Di Matteo è il boss Antonino Zarcone, ex reggente del clan di Bagheria e oggi collaboratore di giustizia. Il periodo da quest’ultimo riferito sarebbe quello del 2006-2007. E un altro collaboratore di giustizia, Stefano Lo Verso, spiega che l'attentato contro Di Matteo doveva avvenire già nel 2008 a Santa Flavia, dove il magistrato trascorreva le vacanze. Ma il capomafia di Bagheria, Pino Scaduto, si è rifiutato di far eseguire l'ordine di morte nel suo territorio.
All’indomani di questo ultimo scossone tutta la Procura si schiera con Di Matteo e i colleghi del pool trattativa e in un documento manifesta “incondizionata solidarietà”.
“Tutti i magistrati riuniti manifestano particolare inquietudine nell'apprendere che lo svolgimento del proprio dovere ha per l'ennesima volta esposto a rischio della vita magistrati di questo ufficio e sottolineano che l'intera procura si identifica nel collega Nino Di Matteo, bersaglio di un progetto omicidiario che considerano rivolto indistintamente contro tutti i magistrati dell'ufficio” / Procura di Palermo
Nello stesso momento duemila studenti scendono in piazza per dare al pm che Cosa nostra vuole morto una vera e propria “boccata d’ossigeno”. E dal Viminale l'allora ministro dell’Interno Angelino Alfano fa sapere che a breve verrà reso disponibile il bomb jammer, più volte oggetto di mancate promesse e di manifestazioni indette dalla società civile.
Di Matteo “si è spinto troppo oltre”
Galatolo, intanto, continua a sostenere interrogatori su interrogatori, e i particolari che aggiunge sono sempre più allarmanti. Secondo il neopentito a dare l’input al progetto dell’attentato sarebbe stato il boss latitante Matteo Messina Denaro. “Mi hanno detto che si è spinto troppo oltre” sarebbe scritto in una lettera che il capomafia trapanese manda a Palermo alla fine del 2012 per chiedere formalmente alle famiglie mafiose del capoluogo di organizzare un attentato contro Di Matteo. Chi avrebbe dato queste indicazioni a Messina Denaro? “Gli stessi mandanti di Borsellino”, assicura Galatolo.
Subito dopo l’arrivo della lettera, racconta ancora il collaboratore, i capimafia palermitani si attivano per organizzare il summit in cui vengono messe a parte del piano le varie famiglie, che risalirebbe al dicembre 2012. A quella riunione partecipa anche Galatolo, che poi acquisterà personalmente il tritolo giunto a Palermo e nascosto in un bidone. Di cui gli inquirenti non trovano traccia. Per l’acquisto, attraverso una “questua” in contanti, in poco tempo si raggiunge la somma di 600 mila euro. Tanto basta per acquistare l'esplosivo, centocinquanta chili, necessario per un nuovo “grande botto”.
Ma il tritolo è pronto anche in Calabria: a fine novembre la Guardia di Finanza di Reggio Calabria riceve una telefonata anonima. “Dite a Peppe Lombardo che se non la smette lo ammazziamo. Diteglielo che lo facciamo saltare per aria sul serio, i 200 chili di esplosivo sono sempre pronti”.
Il giudice Paolo Borsellino in una foto d'archivio
Un fatto grave e inquietante, tanto più che l’interlocutore anonimo si dimostra essere ben informato sugli spostamenti del magistrato, elencando una serie di punti della città nei quali il pm passa quotidianamente per tornare a casa accompagnato dalla sua scorta. Pochissimi giorni dopo, a dicembre, il secondo atto giunge con un'altra chiamata anonima: “Siamo pronti ad ucciderlo”. Questa volta il messaggio è chiaro e conciso e non lascia spazio ad interpretazioni. Lombardo è anche uno dei pochi magistrati che indaga sui rapporti tra ‘Ndrangheta e Cosa nostra. Due organizzazioni criminali che, anche alla luce delle ultime dichiarazioni di Galatolo, sempre di più sembrano apparire facce della stessa medaglia.
Sul versante palermitano Galatolo continua a fornire ulteriori indicazioni sulle fasi di preparazione dell'attentato. Il piano prevede di far saltare in aria Di Matteo colpendolo in prossimità del Palazzo di Giustizia, attraverso l'utilizzo di un'auto imbottita di tritolo da far esplodere al momento del passaggio del corteo di macchine che scortano il magistrato. Un attentato altamente spettacolare, ma che avrebbe potuto coinvolgere troppe persone con il rischio di suscitare l'indignazione della società civile. Un aspetto, quest'ultimo, che i boss di Cosa nostra vogliono evitare ad ogni costo. C'è il problema della preparazione dell'autobomba e in un'ulteriore comunicazione “Diabolik” Messina Denaro fa sapere che “non c'è problema” perché era già pronto “un artificiere” che sarebbe giunto al momento opportuno.
Intanto dagli ambienti istituzionali arriva appena qualche solidarietà sporadica, insieme ad un'interrogazione parlamentare presentata dal senatore Giuseppe Lumia.
“Palermo non deve tornare agli anni bui degli attentati e delle stragi. Bisogna ridurre l'esposizione al rischio del pm Di Matteo e di tutti gli altri magistrati impegnati nei processi contro la mafia ed in particolare sulle attuali indagini intorno alla cosiddetta ‘trattativa’ e sul ‘Protocollo Farfalla’” / Giuseppe Lumia
Il riferimento è anche alle minacce ricevute da Scarpinato. Ma solo in pochissimi romperanno il silenzio caparbiamente osservato sia nei palazzi romani che a Palermo. E del jammer per Di Matteo nemmeno l’ombra.
Il filo dei ricordi
Galatolo, nel frattempo, rivela ai magistrati che l’esplosivo acquistato per il pm di Palermo arriverebbe dalla Calabria. Ma durante la fase di acquisto - avvenuta nel più completo riserbo - una parte del tritolo risulta essere danneggiato da infiltrazioni d’acqua. L’esplosivo rovinato viene rispedito indietro, e poco dopo sostituito da un nuovo carico in buono stato senza che fosse sollevato alcun problema.
Il 16 dicembre 2014 è il giorno dell’arresto di Vincenzo Graziano, considerato “reggente” del mandamento palermitano di Resuttana nonché colui che conservò il tritolo da usare per Di Matteo. Il blitz scatta in vicolo Pipitone, luogo in cui già negli anni ’90 Cosa nostra si riuniva per pianificare attentati. Proprio qui, dice Galatolo, sarebbe stata letta la lettera di Messina Denaro alla presenza dei boss Alessandro D'Ambrogio (capomafia di Porta Nuova) e Girolamo Biondino (capo a San Lorenzo). Galatolo punta il dito contro Graziano: “È lui l'uomo che ha procurato l'esplosivo. Io mi impegnai con 360.000 euro mentre le famiglie di Palermo Centro e San Lorenzo si impegnarono per 70.000 euro. L'esplosivo sarebbe stato acquistato in Calabria da uomini che avevano delle cave nella loro disponibilità e trasferito a Palermo. Dopo seppi che Biondino definì l’acquisto dalla Calabria di 200 chili di tritolo e, una volta arrivato a Palermo circa 2 mesi dopo la riunione, fu affidato a Vincenzo Graziano”. L'ex boss dell'Acquasanta conferma di aver visto con i propri occhi il tritolo, il 16 marzo 2013.
“L'esplosivo, che io vidi personalmente in occasione di una mia presenza a Palermo per dei processi, era conservato in dei locali all'Arenella nella disponibilità di Graziano Vincenzo ed era contenuto in un fusto di lamiera e in un grande contenitore di plastica dura. Sopra questi bidoni vi era uno scatolo di cartone con all'interno un dispositivo in metallo della grandezza poco più piccola di un panetto” / Vito Galatolo
E poi ancora nuovi dettagli: “All'interno era composto da tanti panetti di colore marrone avvolti da pezze di tessuto. Ricordo inoltre che all'esterno, la parte bassa del contenitore di plastica blu era umida e con tracce di salsedine. Per tale motivo infatti Graziano mi disse che questo contenitore umido doveva essere sostituito. So che l'esplosivo è stato spostato da Graziano e penso che sia custodito in una sua abitazione con del terreno intorno in località Monreale”.
“L'intento di organizzare l'attentato non è mai stato messo da parte - assicura il neopentito - una volta ne parlai con Graziano Vincenzo all'interno del Tribunale ed avevamo pensato di posizionare un furgone nei pressi del palazzo di giustizia ma non ritenemmo di procedere perché ci sarebbero state molte vittime. Pensammo anche, data la disponibilità della famiglia mafiosa di Bagheria, di valutare se procedere in località Santa Flavia, luogo dove spesso il dottore Di Matteo trascorre le vacanze estive”. Scartata l'ipotesi dell'attentato al Palazzo di Giustizia i boss, da dicembre 2012 a marzo 2013, si concentrarono in altri luoghi e monitorano gli spostamenti del magistrato, il cui livello di scorta al tempo non era al livello massimo.
In un altro verbale il pentito ricorda che “il 6 maggio (del 2013, ndr) pomeriggio mi incontrai con Vincenzo Graziano, che non affrontò subito il discorso dell’attentato nei confronti del dottor Di Matteo, come credevo, vista l’urgenza con cui mi aveva mandato a chiamare, e fui io quindi a chiedergli notizie. Il Graziano mi disse che la situazione era in stand-by poiché il Biondino Girolamo era stato tratto in arresto. Mi disse anche che l’esplosivo era ancora nella sua disponibilità ed era al sicuro”.
Il momento dell'arresto di Vincenzo Graziano
Galatolo, tra l’altro, svela un’ulteriore risvolto sulla preparazione dell’attentato a Di Matteo parlando del pentito Salvatore Cucuzza: secondo il collaboratore dell’Acquasanta Salvatore Cucuzza, ex capomandamento di Porta Nuova arrestato nel 1996, avrebbe dovuto giocare un ruolo fondamentale in un piano alternativo all’esplosione del tritolo a Palermo. L’ex boss, deceduto a giugno 2014, avrebbe dovuto attirare Di Matteo a Roma, in una trappola, chiedendo di essere sentito dal pm palermitano riguardo ad alcune rivelazioni sulla trattativa Stato-mafia. E nella capitale il magistrato sarebbe stato ucciso a colpi di kalashnikov o con un bazooka. Un’eventualità che, però, è stata successivamente scartata.
Graziano non si pente, ma le uniche parole da lui pronunciate sono agghiaccianti. "Dovete cercarlo nei piani alti", dice, riferendosi al tritolo non ancora individuato. Forse il boss alludeva a quegli ambienti di potere "alti", della mafia o dello Stato, che effettivamente premono per l'uccisione del pm Di Matteo? “Gli stessi di Borsellino”, come aveva riferito Galatolo? La replica di Graziano al gip è inquietante e sibillina.
“Sono cose da alto livello, stiamo montando una situazione, perché c’è Graziano, ma Graziano è nessuno, nessuno” / Vincenzo Graziano davanti al gip Luigi Petrucci
A gennaio 2015 arriva una nuova lettera anonima contenente indicazioni e dettagliati riferimenti: “è a Porticello”, è scritto, in riferimento al tritolo. Proprio dalle acque del porto di Santa Flavia, secondo il racconto del pentito Gaspare Spatuzza, sarebbe stato recuperato anche il tritolo per la strage di Capaci all’epoca. A febbraio, una nuova missiva annuncia che nei luoghi solitamente frequentati da alcuni magistrati ci sarebbero armi ed esplosivo. Rivelazioni in un certo modo avallate dalle dichiarazioni di un confidente degli investigatori.
Prova del nove: da D'Amico...
A corroborare le dichiarazioni di Galatolo, a febbraio 2015, è il neopentito Carmelo D’Amico, ex mafioso di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Il collaboratore racconta che nell'aprile 2014 alcuni boss siciliani rinchiusi nel carcere milanese di Opera si aspettavano "da un momento all'altro" la notizia del nuovo attentato a Di Matteo. "Me lo disse il capomafia Nino Rotolo” dice ai pm, “che Di Matteo doveva morire a tutti i costi”. Rotolo, in carcere, ne parlava proprio con Vincenzo Galatolo, padre di Vito.
Ad aumentare il clima di tensione al palazzo di giustizia ci sono però anche altri episodi. Nei giorni scorsi alcuni bambini che frequentano il “Tc2” (il circolo del tennis di via San Lorenzo, nel mandamento di Girolamo Biondino) raccontano di aver visto due uomini con un fucile appostati di fronte all’ingresso secondario. I ragazzini sarebbero tutti concordi nel descrivere la presenza di un mirino di precisione tra le armi avvistate. Un elemento chiave che induce a pensare all'esistenza di un nuovo piano di morte che ha nell'utilizzo di un “cecchino”, capace di colpire anche da lontano il magistrato, il suo punto di forza.
Un'elaborazione grafica del collaboratore di giustizia Carmelo D'Amico
I giovani raccontano anche della presenza di un furgone, per cui è stata fornita persino una targa. Ed è dall'approfondimento di questo dato che emerge un'inquietante coincidenza. Il furgone risulta appartenere ad una società edilizia ed il proprietario dello stesso sarebbe un soggetto che qualche tempo addietro era stato segnalato, durante un semplice controllo autostradale, in compagnia con il figlio minore di Riina, Giuseppe Salvatore, che tuttora vive a Padova.
Intanto il processo trattativa Stato-mafia, che inesorabilmente va avanti (dopo aver addirittura ottenuto la testimonianza “eccellente” dell’allora Presidente Napolitano, seppur in trasferta al Quirinale e a porte chiuse) subisce nuovi colpi. A seguito del rigetto dell’istanza di rimessione, i difensori degli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Mauro Obinu e Giuseppe De Donno tornano alla carica con un esposto a causa di alcune sedicenti violazioni: lunghezza infinita delle indagini, al limite di quanto consentito dalla legge, deleghe di inchieste delicate affidate ad inquirenti che non sarebbero titolati, magistrati che indagano su questioni di mafia pur non facendo parte della Dda, fughe di notizie, intercettazioni illegittime di conversazioni con i difensori, dispendiose rogatorie internazionali e spese eccessive. Il riferimento è tutto per il pool trattativa. A questo si aggiunge la sonora bocciatura di Di Matteo, che aveva fatto domanda per andare alla Direzione nazionale antimafia, da parte del Csm, per la quale il pm presenterà ricorso al Tar (ricorso contro il quale si opporrà lo stesso Consiglio superiore della magistratura).
"La principale ragione che ha indotto il ricorrente a insorgere è di natura congiunta, morale e professionale. Per via della umiliante pretermissione del valore degli anni di sacrifici, rischi, impegno in cui si è articolata la carriera del ricorrente al servizio della giustizia” / Il ricorso al Tar
Nonostante i molteplici meriti e una carriera più che ventennale in inchieste di mafia, al posto del sostituto procuratore di Palermo sono scelti altri tre nomi per la Procura nazionale antimafia. L’ennesimo segnale mancato di vicinanza.
Il 7 maggio 2015, pochissimi giorni prima che il bomb jammer sia finalmente predisposto per Di Matteo, Vito Galatolo testimonia al processo trattativa davanti allo stesso pm che ha messo in guardia da un serio pericolo di vita. È in questa occasione che il pentito spiega che Di Matteo stava andando troppo oltre per le indagini “di questo processo” aggiungendo ulteriori dettagli sulla messa a disposizione da parte di Messina Denaro di un suo artificiere. “Avevamo l'ordine che non dovevamo presentarci con questa persona. - spiega il collaboratore di giustizia - Ci stupiva il fatto che non dovevamo sapere chi era questo uomo di Messina Denaro... Noi capimmo che era esterno a Cosa Nostra e che poteva essere qualcuno dello Stato che era interessato a fare questa strage”. Il latitante trapanese, tra l’altro, si era preoccupato di rassicurare gli affiliati.
“Facendo quell’attentato (a Di Matteo, ndr) non ci dovevamo preoccupare perché questa volta saremmo stati coperti” / Vito Galatolo
“Si doveva dare un segnale che la mafia era sempre pronta a reagire allo Stato, anche qui si parlava in maniera affettuosa. Oltre all'attentato a Di Matteo si parlava di eliminare anche i due pentiti, 'Manuzza', Nino Giuffré, e Gaspare Spatuzza, Se accettavamo di fare l'attentato avremmo dovuto dire tutto a Mimmo (Biondino, ndr) che lui sapeva come organizzare. Biondino nello specifico si doveva occupare dell'esplosivo. C'erano da raccogliere dei soldi anche. Ed ogni mandamento doveva mettere due persone”.
Tra i summit indicati dall'ex boss dell'Acquasanta ve ne è uno a Ballarò il pomeriggio del 9 dicembre 2012. In quel periodo su Girolamo Biondino pendeva un'indagine della Procura di Palermo. Dopo le verifiche degli inquirenti si è scoperto che proprio in quel pomeriggio la telecamera piazzata davanti casa del boss di San Lorenzo aveva smesso di funzionare per il maltempo. Da un’ulteriore verifica è emerso che il mafioso era uscito con un familiare, anche lui sotto controllo. La voce di quel familiare è rimasta registrata al telefono mentre parlava con la moglie di Girolamo Biondino.
...a Chiarello
Siamo a settembre 2015, e un altro pentito conferma l’esistenza del tritolo acquistato apposta per Di Matteo (sul quale più di un “benpensante” ha sollevato qualche dubbio). “L’esplosivo per l’attentato al pm Nino Di Matteo è stato trasferito in un altro nascondiglio sicuro” rivela l’ex boss di Borgo Vecchio, Francesco Chiarello. In particolare Chiarello riferisce di aver appreso dell'esistenza dell'esplosivo dal suo compagno di cella, Camillo Graziano, figlio di quel Vincenzo Graziano accusato dal pentito Galatolo di aver conservato l'esplosivo. “Mi disse che per fortuna suo padre era stato scarcerato, così aveva potuto spostare il tritolo” spiega Chiarello. Proprio dopo aver saputo della scarcerazione di Graziano, Galatolo aveva deciso di collaborare per “togliersi un peso dal cuore”.
Ma a seguito delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sono poche le voci che si levano in sostegno di Di Matteo, dentro e fuori la magistratura. All’indomani delle rivelazioni di Chiarello è il pm Domenico Gozzo, ex procuratore aggiunto di Caltanissetta (oggi sostituto procuratore generale a Palermo) a commentare quanto detto dall'ultimo pentito.
“Questo mi preoccupa molto, confermando quello che ho pensato in questi anni sui pericoli che corre Nino. Sarebbe giusto che l'Anm dicesse qualcosa sul punto. Dobbiamo fare di tutto, tutti, perché a Palermo non succeda di nuovo quanto è già accaduto" / Domenico Gozzo
Inutile dire che dall’Anm non giunge alcun “feedback”. Dalla Calabria il pm Lombardo, come Di Matteo scortato e tenuto sotto tiro dalla criminalità organizzata, aggiunge: “Nel momento in cui si pensa di colpire un magistrato simbolo come Nino Di Matteo, il messaggio che si vuole mandare è diretto a bloccarne tanti altri. Quando ci si trova di fronte a riferimenti puntuali come quelli fatti da un collaboratore di giustizia come Galatolo, una certezza deve accompagnarci: qualcuno ha riflettuto molto bene sui reali obiettivi da raggiungere. Un'azione di questo tipo è pensata e programmata in ambienti composti non solo dai vertici delle diverse organizzazioni criminali, a cui difetta la necessaria raffinatezza strategica”.
A voler compensare, per quanto possibile, l’assenza di una vera solidarietà istituzionale, è la manifestazione organizzata il 14 novembre 2015 per “rompere il silenzio” nei confronti dello stillicidio di minacce e condanne a morte, alla quale partecipano duemila manifestanti nonché varie personalità politiche e dello spettacolo. Proprio in questa occasione l’unica voce istituzionale a levarsi è quella del presidente del Senato Piero Grasso, che invia una lettera.
"Voglio dire che sono in piazza con voi a Roma a sostegno di Nino Di Matteo. L'occasione di oggi, che dimostra un affetto diffuso e sentito tra i cittadini, è ancora più utile per ribadire con forza che la mafia non è riuscita con le sue minacce, né tantomeno con le sue sanguinarie stragi, a fermare il lavoro della magistratura in passato, non ci sta riuscendo ora e non ci riuscirà in futuro” / Piero Grasso
Un nuovo tassello, a gennaio 2016, è rappresentato dall’arresto dell’avvocato Marcello Marcatajo. Il legale, che acquistava e vendeva appartamenti e ville dei costruttori Graziano, è ritenuto dagli inquirenti il braccio imprenditoriale del clan all’Arenella, per una serie di operazioni volta ad evitare in particolare i sequestri ai beni della stessa famiglia. A lui era stato dato il mandato di vendere 30 box auto al prezzo di 500mila euro e la metà di quella somma sarebbe appunto stata utilizzata per acquistare il tritolo per uccidere Di Matteo. A svelare il particolare della vendita dei box era stato nei mesi scorsi proprio Vito Galatolo. Marcatajo, nei giorni in cui si parla dell'attentato, commenta le notizie: “Questi per ora (parlando dei pm) hanno altre cose da spiare, e figurati: tritolo, cazzi, mazzi”. In un colloquio con un altro indagato (Francesco Cuccio) emerge la loro preoccupazione. “Marcello, stai attento che ti fregano se avverrà quello che ti ho detto, perché sei diventato tu la condanna”, gli dice. E Marcatajo ribatte: “Io mi sono allontanato”. Ma l'altro aggiunge: “Per prima, i famosi box che sono spuntati sul giornale…”.
“A quello lo devono ammazzare”
È l'ultima minaccia registrata quasi per caso in un'intercettazione, rimbalzata sugli organi di stampa l'11 ottobre 2016. A parlare sarebbe uno dei mafiosi che, litigando con la moglie, si lamenta dell'imprudenza della suocera che, nei giorni precedenti, aveva accompagnato la figlia al Tc2, il circolo tennis in via San Lorenzo. Ed è in questo dialogo che l'uomo spiegherebbe a chiari note il motivo per cui la bambina, in quel luogo, non doveva più andare. Quel circolo è frequentato da Di Matteo e “a quello lo devono ammazzare”.
Nel dialogo si intende, dunque, che il progetto di attentato è più che mai attuale e non potrebbe avvenire solo nel circolo tennis, ma in qualunque luogo della città frequentato dallo stesso pm.
Il procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi © Emanuele Di Stefano
Partendo da questi nuovi elementi il Procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi, immediatamente dispone la trasmissione di atti alla Procura di Caltanissetta, che indaga proprio sul progetto di attentato, e scrive anche al Csm spiegando i nuovi sviluppi investigativi. Non solo. Nella nota vi sarebbe anche un ulteriore riscontro investigativo, rimasto top secret, in cui si parlerebbe di un progetto di attentato con l'utilizzo di esplosivo.
È facile pensare che si possa trattare di quei 150 chili di tritolo fatti venire dalla Calabria di cui, nel 2014, aveva parlato Galatolo.
La tensione è alle stelle, l'allarme per la sicurezza del pm massimo. Di Matteo viene convocato a Roma dal Consiglio superiore della magistratura, dove illustra gli ultimi risvolti emersi dalle indagini. Poi i consiglieri avanzano la proposta: un possibile trasferimento del sostituto procuratore, d'emergenza, al di fuori di ogni concorso, proprio in quella Direzione nazionale antimafia per la quale Di Matteo, dopo aver presentato domanda, era stato clamorosamente bocciato. Ma alcune settimane dopo la risposta del magistrato è netta e decisa.
“Accettare un trasferimento con una procedura straordinaria connessa solo a ragioni di sicurezza costituirebbe a mio avviso un segnale di resa personale ed istituzionale che non intendo dare. Alla direzione nazionale antimafia eventualmente andrò solo e quando supererò una procedura concorsuale” / Nino Di Matteo
Di Matteo, di fronte alle minacce ed alle condanne a morte sempre più pressanti, resta a Palermo e continua a seguire il processo che ha visto nascere.
Tasselli mancanti
Nel frattempo i termini per la conduzione delle indagini sul progetto di morte contro il pm palermitano sono ormai prossimi alla scadenza. Il tritolo descritto dai collaboratori di giustizia, rivelazioni che ipotizzerebbero il reato di detenzione abusiva di esplosivo in un eventuale rinvio a giudizio, è stato cercato in ogni dove ma mai trovato. Fondamentale contributo è stato dato dai pentiti che hanno appreso per via diretta (Galatolo, le cui parole sono le più accreditate) e indiretta (D'Amico e Chiarello) dell'intenzione di Cosa nostra di uccidere Di Matteo. Tuttavia non basta, e il teatro nel quale è maturata la volontà di eliminare il magistrato più scortato d'Italia resta ancora privo degli attori principali, salvo Messina Denaro, la cui autorevole parola giunge nella lettera ai boss palermitani a dicembre 2012. Sullo sfondo, però, restano senza volto quegli oscuri personaggi che dissero al boss trapanese: "Di Matteo si era spinto troppo oltre”, forse gli stessi “suggeritori” che tuttora si celano dietro le stragi del '92. Parole di Galatolo che però fanno eco a quella lettera anonima in cui il misterioso mafioso di Alcamo faceva riferimento agli “amici romani di Matteo Messina Denaro”. Un riscontro agghiacciante alle dichiarazioni dell'ex boss dell'Acquasanta e degli altri collaboratori di giustizia.
Resta dunque da analizzare il contesto di quel biennio 2012-2013: il primo, l'anno del conflitto di attribuzione tra la Procura di Palermo e Napolitano. Il secondo, che segna l'inizio del processo trattativa Stato-mafia tuttora in corso. Ma anche l'anno in cui Totò Riina viene intercettato in carcere quando pronuncia le condanne a morte per Di Matteo, esattamente un anno dopo la lettera di Messina Denaro. Ed è forse qui che si può rintracciare ciò che spinse Cosa nostra - e chi per lei dietro le quinte - ad attuare un piano di morte mai finora revocato: il termine, cioé, di quelle indagini sui dialoghi intercorsi tra Cosa nostra e rappresentanti delle istituzioni per mezzo di ufficiali dei Carabinieri, a cavallo delle stragi di Capaci e via d'Amelio. Il vaso di Pandora che, evidentemente, non doveva essere aperto.
Un momento dell'udienza del processo Trattativa Stato-mafia
E per quale motivo ancora oggi un boss di Cosa nostra intima ai familiari di stare lontano dal circolo di tennis perché "a quello lo devono ammazzare"? Forse perché la parola di Cosa nostra una volta pronunciata è irrevocabile, e non c'è marcia indietro possibile contro un magistrato il cui unico faro non è né l'appartenenza correntizia, né il desiderio di carriera, ma la volontà di scoprire quanto accadde in quegli anni di stragi e accordi. Un'integrità morale di fronte alla quale, da Cosa nostra, non ci si aspetta altro che uno scontro frontale e senza sconti. Diverse erano, invece, le aspettative verso i rappresentanti istituzionali la cui linea, salvo rare eccezioni, è sempre stata quella del silenzio e dell'indifferenza, se non dell'aperta delegittimazione. È così che, nel disgraziato caso in cui l'attentato dovesse un giorno essere messo in atto, lo Stato si macchierebbe di complicità, colpevole senza appello di aver ancora una volta - come fu nel '92 per Falcone e Borsellino - abbandonato un magistrato “scomodo” per gli ambienti di potere, e dunque prezioso per la difesa della democrazia e dei valori sanciti dalla Costituzione. “Scomodo” come altri colleghi che, come Di Matteo, nel lavoro quotidiano vivono un costante clima di tensione a costo della propria vita. Risale a gennaio 2016 la tentata incursione nell'abitazione del figlio di Nicola Gratteri (ex procuratore aggiunto reggino e attuale procuratore a Catanzaro): due figure incappucciate avevano citofonato, spacciandosi per poliziotti.
Il sostituto procuratore di Palermo, Nino Di Matteo © Associated Press
Secondo gli inquirenti un tentativo di compiere un atto intimidatorio contro il magistrato, tra i massimi esperti mondiali di 'Ndrangheta e relative ramificazioni per il monopolio del traffico di droga nel mondo occidentale. Per questo l'episodio intimidatorio si configurerebbe nel quadro più ampio dietro al quale si celano personaggi “invisibili” di potere la cui identità resta sconosciuta, esponenti di un livello ben più superiore di quello delle cosche calabresi ma legati a queste ultime da rapporti d'affari.
Colpire Di Matteo potrebbe rappresentare un colpo di coda volto a tagliare le gambe a quel tipo di legalità e di contrasto alle mafie che non si accontenta delle parate istituzionali anniversario dopo anniversario, ma chiede con forza una vera presa di posizione e un impegno costante e credibile da parte del Paese. Un nuovo attacco frontale dimostrerebbe che la criminalità organizzata è tutt'altro che debole o sconfitta - come pomposamente viene annunciato a giorni alterni - e che le vecchie alleanze tra mafie e poteri esterni in nome di progetti comuni sono tutt'altro che dimenticate. Sono le procure di Reggio Calabria, Palermo e Caltanissetta a descrivere la presenza di un “sistema criminale integrato”, un organismo plurimo e invisibile ai più, nato sul binomio mafia e ambienti di potere, che con un fatturato approssimato in 150miliardi di euro l'anno rappresenta la prima multinazionale al mondo. Nella quale emerge prepotentemente la voce autorevole della 'Ndrangheta, vera leader occidentale del traffico di droga, che in Sud America arriva a coinvolgere e corrompere vertici di Stato e interi governi. È questo coacervo di mafie e poteri forti, al quale appartengono uomini “invisibili” di Stato, esponenti della massoneria e dell'alta finanza, che vuole morto il pm Nino Di Matteo? Certamente dietro un progetto di tale misura sono molti gli interessi che potrebbero scendere in campo per sferrare quello che sarebbe a tutti gli effetti un colpo di Stato: l'eliminazione di un magistrato - e degli agenti di scorta che costantemente mettono a rischio la loro vita pur di proteggerne un'altra - così da destabilizzare la nostra Repubblica e tutta la società civile, favorendo una presa di posizione delle forze pseudo politiche di estrema destra. Una manovra criminale e strategica di alto livello per impedire un nuovo possibile cambiamento culturale e politico del Paese. E per giunta addossando tutte le responsabilità a Cosa nostra, la quale, così come in passato, già è avvezza a vestire i panni di braccio armato dello Stato-mafia.
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