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“A quello lo devono ammazzare”
È l'ultima minaccia registrata quasi per caso in un'intercettazione, rimbalzata sugli organi di stampa l'11 ottobre 2016. A parlare sarebbe uno dei mafiosi che, litigando con la moglie, si lamenta dell'imprudenza della suocera che, nei giorni precedenti, aveva accompagnato la figlia al Tc2, il circolo tennis in via San Lorenzo. Ed è in questo dialogo che l'uomo spiegherebbe a chiari note il motivo per cui la bambina, in quel luogo, non doveva più andare. Quel circolo è frequentato da Di Matteo e “a quello lo devono ammazzare”.
Nel dialogo si intende, dunque, che il progetto di attentato è più che mai attuale e non potrebbe avvenire solo nel circolo tennis, ma in qualunque luogo della città frequentato dallo stesso pm.

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Il procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi © Emanuele Di Stefano


Partendo da questi nuovi elementi il Procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi, immediatamente dispone la trasmissione di atti alla Procura di Caltanissetta, che indaga proprio sul progetto di attentato, e scrive anche al Csm spiegando i nuovi sviluppi investigativi. Non solo. Nella nota vi sarebbe anche un ulteriore riscontro investigativo, rimasto top secret, in cui si parlerebbe di un progetto di attentato con l'utilizzo di esplosivo.
È facile pensare che si possa trattare di quei 150 chili di tritolo fatti venire dalla Calabria di cui, nel 2014, aveva parlato Galatolo.
La tensione è alle stelle, l'allarme per la sicurezza del pm massimo. Di Matteo viene convocato a Roma dal Consiglio superiore della magistratura, dove illustra gli ultimi risvolti emersi dalle indagini. Poi i consiglieri avanzano la proposta: un possibile trasferimento del sostituto procuratore, d'emergenza, al di fuori di ogni concorso, proprio in quella Direzione nazionale antimafia per la quale Di Matteo, dopo aver presentato domanda, era stato clamorosamente bocciato. Ma alcune settimane dopo la risposta del magistrato è netta e decisa.

“Accettare un trasferimento con una procedura straordinaria connessa solo a ragioni di sicurezza costituirebbe a mio avviso un segnale di resa personale ed istituzionale che non intendo dare. Alla direzione nazionale antimafia eventualmente andrò solo e quando supererò una procedura concorsuale” / Nino Di Matteo

Di Matteo, di fronte alle minacce ed alle condanne a morte sempre più pressanti, resta a Palermo e continua a seguire il processo che ha visto nascere.

Tasselli mancanti
Nel frattempo i termini per la conduzione delle indagini sul progetto di morte contro il pm palermitano sono ormai prossimi alla scadenza. Il tritolo descritto dai collaboratori di giustizia, rivelazioni che ipotizzerebbero il reato di detenzione abusiva di esplosivo in un eventuale rinvio a giudizio, è stato cercato in ogni dove ma mai trovato. Fondamentale contributo è stato dato dai pentiti che hanno appreso per via diretta (Galatolo, le cui parole sono le più accreditate) e indiretta (D'Amico e Chiarello) dell'intenzione di Cosa nostra di uccidere Di Matteo. Tuttavia non basta, e il teatro nel quale è maturata la volontà di eliminare il magistrato più scortato d'Italia resta ancora privo degli attori principali, salvo Messina Denaro, la cui autorevole parola giunge nella lettera ai boss palermitani a dicembre 2012. Sullo sfondo, però, restano senza volto quegli oscuri personaggi che dissero al boss trapanese: "Di Matteo si era spinto troppo oltre”, forse gli stessi “suggeritori” che tuttora si celano dietro le stragi del '92. Parole di Galatolo che però fanno eco a quella lettera anonima in cui il misterioso mafioso di Alcamo faceva riferimento agli “amici romani di Matteo Messina Denaro. Un riscontro agghiacciante alle dichiarazioni dell'ex boss dell'Acquasanta e degli altri collaboratori di giustizia.
Resta dunque da analizzare il contesto di quel biennio 2012-2013: il primo, l'anno del conflitto di attribuzione tra la Procura di Palermo e Napolitano. Il secondo, che segna l'inizio del processo trattativa Stato-mafia tuttora in corso. Ma anche l'anno in cui Totò Riina viene intercettato in carcere quando pronuncia le condanne a morte per Di Matteo, esattamente un anno dopo la lettera di Messina Denaro. Ed è forse qui che si può rintracciare ciò che spinse Cosa nostra - e chi per lei dietro le quinte - ad attuare un piano di morte mai finora revocato: il termine, cioé, di quelle indagini sui dialoghi intercorsi tra Cosa nostra e rappresentanti delle istituzioni per mezzo di ufficiali dei Carabinieri, a cavallo delle stragi di Capaci e via d'Amelio. Il vaso di Pandora che, evidentemente, non doveva essere aperto.

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Un momento dell'udienza del processo Trattativa Stato-mafia


E per quale motivo ancora oggi un boss di Cosa nostra intima ai familiari di stare lontano dal circolo di tennis perché "a quello lo devono ammazzare"? Forse perché la parola di Cosa nostra una volta pronunciata è irrevocabile, e non c'è marcia indietro possibile contro un magistrato il cui unico faro non è né l'appartenenza correntizia, né il desiderio di carriera, ma la volontà di scoprire quanto accadde in quegli anni di stragi e accordi. Un'integrità morale di fronte alla quale, da Cosa nostra, non ci si aspetta altro che uno scontro frontale e senza sconti. Diverse erano, invece, le aspettative verso i rappresentanti istituzionali la cui linea, salvo rare eccezioni, è sempre stata quella del silenzio e dell'indifferenza, se non dell'aperta delegittimazione. È così che, nel disgraziato caso in cui l'attentato dovesse un giorno essere messo in atto, lo Stato si macchierebbe di complicità, colpevole senza appello di aver ancora una volta - come fu nel '92 per Falcone e Borsellino - abbandonato un magistrato “scomodo” per gli ambienti di potere, e dunque prezioso per la difesa della democrazia e dei valori sanciti dalla Costituzione. “Scomodo” come altri colleghi che, come Di Matteo, nel lavoro quotidiano vivono un costante clima di tensione a costo della propria vita. Risale a gennaio 2016 la tentata incursione nell'abitazione del figlio di Nicola Gratteri (ex procuratore aggiunto reggino e attuale procuratore a Catanzaro): due figure incappucciate avevano citofonato, spacciandosi per poliziotti.

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Il sostituto procuratore di Palermo, Nino Di Matteo © Associated Press


Secondo gli inquirenti un tentativo di compiere un atto intimidatorio contro il magistrato, tra i massimi esperti mondiali di 'Ndrangheta e relative ramificazioni per il monopolio del traffico di droga nel mondo occidentale. Per questo l'episodio intimidatorio si configurerebbe nel quadro più ampio dietro al quale si celano personaggi “invisibili” di potere la cui identità resta sconosciuta, esponenti di un livello ben più superiore di quello delle cosche calabresi ma legati a queste ultime da rapporti d'affari.
Colpire Di Matteo potrebbe rappresentare un colpo di coda volto a tagliare le gambe a quel tipo di legalità e di contrasto alle mafie che non si accontenta delle parate istituzionali anniversario dopo anniversario, ma chiede con forza una vera presa di posizione e un impegno costante e credibile da parte del Paese. Un nuovo attacco frontale dimostrerebbe che la criminalità organizzata è tutt'altro che debole o sconfitta - come pomposamente viene annunciato a giorni alterni - e che le vecchie alleanze tra mafie e poteri esterni in nome di progetti comuni sono tutt'altro che dimenticate. Sono le procure di Reggio Calabria, Palermo e Caltanissetta a descrivere la presenza di un “sistema criminale integrato”, un organismo plurimo e invisibile ai più, nato sul binomio mafia e ambienti di potere, che con un fatturato approssimato in 150miliardi di euro l'anno rappresenta la prima multinazionale al mondo. Nella quale emerge prepotentemente la voce autorevole della 'Ndrangheta, vera leader occidentale del traffico di droga, che in Sud America arriva a coinvolgere e corrompere vertici di Stato e interi governi. È questo coacervo di mafie e poteri forti, al quale appartengono uomini “invisibili” di Stato, esponenti della massoneria e dell'alta finanza, che vuole morto il pm Nino Di Matteo? Certamente dietro un progetto di tale misura sono molti gli interessi che potrebbero scendere in campo per sferrare quello che sarebbe a tutti gli effetti un colpo di Stato: l'eliminazione di un magistrato - e degli agenti di scorta che costantemente mettono a rischio la loro vita pur di proteggerne un'altra - così da destabilizzare la nostra Repubblica e tutta la società civile, favorendo una presa di posizione delle forze pseudo politiche di estrema destra. Una manovra criminale e strategica di alto livello per impedire un nuovo possibile cambiamento culturale e politico del Paese. E per giunta addossando tutte le responsabilità a Cosa nostra, la quale, così come in passato, già è avvezza a vestire i panni di braccio armato dello Stato-mafia.

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