Stillicidio
Già tra ottobre e novembre 2008 i pm della Procura di Palermo subiscono una vera e propria escalation di intimidazioni. Il sostituto procuratore Laura Vaccaro riceve pesanti minacce telefoniche, non per la prima volta. L’ultimo episodio, però, risulta ancora più preoccupante perché arriva in un momento molto delicato: nelle settimane precedenti altri quattro magistrati sono finiti nel mirino di strane incursioni. Prima il giudice Giacomo Montalbano, poi i sostituti procuratori Nino Di Matteo e Roberto Piscitello, quindi il gip Fabio Licata. A dicembre tocca al giudice Raimondo Lo Forti, presidente della terza sezione del Tribunale di Palermo: davanti all’abitazione del magistrato viene trovata un’auto rubata con i fili dell’accensione scoperti.
Dopo i messaggi minatori giungono dalle istituzioni numerose dichiarazioni di solidarietà, ma nessun provvedimento che riveda o rafforzi i sistemi di protezione attorno ai magistrati. A fine settembre i carabinieri della scorta di Nino Di Matteo stanno quasi per raggiungere l'uomo sorpreso nel giardino di casa del magistrato, a Santa Flavia. È una domenica sera: prima di scomparire fra i cespugli l'ignoto personaggio lancia in aria un razzo di segnalazione. I carabinieri non riescono ad andare oltre: in casi di emergenza hanno la consegna esclusiva di proteggere il magistrato. I rinforzi arrivano nel giro di pochi minuti, ma del misterioso uomo non c'è già più traccia.
Il pm Giuseppe Lombardo © Paolo Bassani
Il 25 gennaio 2010 una busta contenente un proiettile e un biglietto di minacce viene inviata al sostituto procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, titolare di alcune delle inchieste più delicate condotte contro le cosche della città, colui che ha ricostruito quel “sistema criminale integrato” in cui esponenti “invisibili” di mafia, massoneria, politica ed alta finanza stringono accordi in nome di obiettivi comuni. Già poche settimane prima, il 3 gennaio, davanti alla Procura reggina viene lasciata una bombola di gas, su cui era stato collocato dell'esplosivo, che scardina un'inferriata della Procura generale.
A maggio 2010, invece, giungono presso la redazione palermitana del quotidiano La Repubblica una busta contenente un proiettile e un messaggio intimidatorio nei confronti di magistrati antimafia, collaboratori di giustizia e giornalisti. Nella missiva, inviata da Firenze, si parla di “tumori generati da un eccesso di ruoli all'interno del nostro sistema” e si lamenta “un vero attacco a valorosi uomini che hanno dato dignità al nostro paese”. Nella lettera si fa riferimento in particolare, all’allora procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, al pm Nino Di Matteo, al procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, a Massimo Ciancimino e al pentito Gaspare Spatuzza, indicati come “soggetti che direttamente o indirettamente subiranno le conseguenze di operazioni già pianificate”. Nella missiva sono citati anche, sotto la dicitura “in attesa di decisioni”, Michele Santoro e Sandro Ruotolo, definiti “giornalisti in appoggio a un disegno eversivo intrapreso da magistrati comunisti”.
"Sono state disposte operazioni a sostegno della nostra democrazia. Tumori generati da un eccesso di ruoli all'interno del nostro sistema di poteri. Nessun altro ostacolo può essere posto a danno di quest'unico principio di democrazia" / Lettera anonima
A dicembre 2012 nuove lettere minatorie: dopo la missiva recapitata alla segreteria del procuratore di Trapani Marcello Viola, contenente minacce al magistrato e particolari su delicate indagini in corso, un'altra, sempre con mittente sconosciuto, arriva a Di Matteo. Il contenuto si riferisce all'indagine sulla trattativa tra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni (l’ormai nota trattativa Stato-mafia), pesanti giudizi su magistrati della Procura e l'invito esplicito a fidarsi solo dell'ex aggiunto Antonio Ingroia. Si percepisce un sempre maggiore clima di ostilità in Procura. Già a luglio 2012 Di Matteo aveva parlato di un “malcelato fastidio” poi “diventato un manifesto attacco per delegittimare in partenza le inchieste ed i magistrati che le conducono”, considerati “schegge eversive della magistratura”.
“Molti erano convinti che queste (indagini, ndr) non avrebbero portato a nulla o al massimo ad una richiesta di archiviazione. Quando poi è stato chiaro che si sarebbe arrivati ad una contestazione di reato e forse anche ad un processo ecco che si è fatto evidente il cambiamento” / Nino Di Matteo
Il nuovo "corvo"
Passano poche settimane. Il 3 gennaio 2013 dalle colonne di Repubblica si apprende di una ulteriore lettera anonima giunta nell’abitazione di Nino Di Matteo. La missiva, composta da dodici pagine con lo stemma della Repubblica italiana sul frontespizio, era stata inviata il precedente 18 settembre e viene indicata in codice come “Protocollo fantasma”. Per gli investigatori si tratta di contenuti attendibili, forse provenienti da qualcuno che negli anni ’90 lavorò in qualche apparato investigativo. È il nuovo “corvo” di Palermo.
Nella lettera si parla dell’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993, il cui covo è stato visitato da qualcuno prima della perquisizione del procuratore Caselli. Poi vengono messi in guardia i magistrati, avvertendoli di essere spiati da “uomini delle Istituzioni”. Ed ancora, un appello a guardarsi le spalle da un traditore all’interno la Procura, un magistrato di cui il pool sulla trattativa “non dovrebbe fidarsi”.
“Ci sono catacombe all’interno dello Stato sepolte e ricoperte di cemento armato, ma alcune verità si possono ancora trovare” / Lettera anonima
Avvertimenti precisi e in alcuni casi riscontrati dal fatto che da circa un anno i magistrati di Palermo hanno raccolto in un fascicolo una mezza dozzina di casi in cui vi è traccia di pedinamenti, computer manomessi, paura di microspie all’interno degli uffici, chiamate misteriose ricevute su utenze riservate da schede internazionali. Tra i vari casi, quello che ha riguardato l’inseguimento di un agente della Dia che collabora con Di Matteo all’inchiesta sulla trattativa. Era il dicembre 2011, il militare si era accorto di essere seguito mentre raggiungeva il Tribunale. Era entrato così dentro il Palazzo di Giustizia avvertendo i compagni della sua sezione che si erano messi in moto per effettuare il contro pedinamento. Si scopriva che il pedinatore era un carabiniere. E nell’ottobre 2012 i sostituti Tartaglia e Di Matteo, recatisi in una località segreta per ascoltare un testimone, ricevevano la visita di un uomo che aveva dimostrato di conoscere molti particolari sui motivi della loro trasferta. Tempo prima gli agenti di scorta di Di Matteo avevano persino trovato una sbarra di ferro, usata solitamente per aprire i tombini, nascosta nell’aiuola del suo giardino. E qualche mese dopo, la scorta del magistrato scopriva che qualcuno aveva armeggiato dentro una cassetta elettrica all’interno del pianerottolo della sua abitazione. Tutti casi da cui s’intravedono segni d’intimidazione e d’intervento esterno teso a controllare in tempo reale le mosse dei magistrati che indagano sui rapporti tra Stato e mafia.
Il boss latitante Matteo Messina Denaro
Nella lettera inviata a Di Matteo il “corvo” fornisce anche ulteriori dettagli sulle “attenzioni” ricevute dal procuratore di Trapani Marcello Viola, che sarebbe sorvegliato, tra le altre cose, a causa delle indagini da lui condotte sull'ultimo storico boss latitante, Matteo Messina Denaro. Un fatto che apre alla possibilità che l'anonimo di Palermo e quello di Trapani in realtà potrebbero essere la stessa persona.
A marzo 2013 le minacce contro il pm Lombardo si inaspriscono ulteriormente: arriva una busta con cinquanta grammi di polvere pirica ed un biglietto di minacce: “Se non la smetti ci sono pronti altri 200 chili”. Già nell'ottobre 2011, nel parcheggio del palazzo che ospita la Procura, era stato trovato un ordigno rudimentale poggiato su una foto del magistrato, e precedentemente una busta con dentro un proiettile di mitra kalashnikov era stata intercettata nel centro di smistamento delle poste di Lamezia Terme. A queste vanno aggiunte le lettere contenenti proiettili del 25 gennaio 2010 e del 17 maggio successivo. E in una precedente indagine era stato intercettato un esponente della cosca Labate che affermava: “A quello prima gli spariamo e meglio è”.