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di matteo nino scorta effdi Giorgio Bongiovanni
“I centocinquanta chili di tritolo per uccidere Nino Di Matteo? Non si trovano, le ricerche non hanno dato esito. Sicuri che esistono?”. Nessuno lo ha detto direttamente ma non sono mancati i “perbenisti” e “benpensanti” che hanno parlato di “psicosi dilagante” fatta di continui allarmi “il cui protrarsi da alcuni anni può indurre al dubbio” sul rischio che il magistrato che indaga sulla trattativa Stato-mafia corre da quando il Capo dei capi, Totò Riina, ha lanciato i suoi strali di morte dal carcere “Opera” di Milano.
Cosa diranno oggi che un nuovo pentito, l'ex boss di Borgo Vecchio Francesco Chiarello, conferma in qualche modo quanto riferito dai collaboratori di giustizia Vito Galatolo, Antonino Zarcone e Carmelo D'Amico? Forse che Nino Di Matteo “si è fatto il pentito da solo”. Ce lo aspettiamo da un momento all'altro che qualcuno, qualche “mente raffinatissima”, qualche oscuro potente, “giovane rampante” o “vecchio saggio”, dica che “il pm della trattativa si crea pentiti a suo uso e consumo”.
Chiarello dice chiaramente che il tritolo si trova in qualche luogo di questa disgraziata città, nascosto chissà dove. E la sua fonte altri non è che il figlio del boss dell'Acquasanta Vincenzo Graziano. Proprio quest'ultimo, arrestato nel dicembre 2014, secondo quanto riportato da Vito Galatolo, era l'uomo incaricato di custodire i centocinquanta chili di esplosivo. In un primo momento erano stati nascosti dentro dei barili. Oggi ancora non è dato saperlo.
La notizia delle nuove rivelazioni di Chiarello viene riportata dal quotidiano La Repubblica, quasi sottotraccia, mentre una delegazione del Csm è giunta a Palermo per vederci chiaro dopo l'avvio di un'inchiesta, aperta dalla Procura di Caltanissetta, sull'assegnazione degli incarichi degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia da parte della sezione misure di prevenzione del Tribunale. Un'inchiesta che coinvolge quattro magistrati palermitani, tra cui l'ex presidente della sezione Silvana Saguto e due amministratori giudiziari. Chissà se stavolta, diversamente a quanto accadde nel 2013 con la delegazione guidata dall'allora vicepresidente Michele Vietti, qualcuno si recherà nell'ufficio del giudice Di Matteo per esprimere la propria solidarietà.

Il silenzio di questi anni da parte dei più alti vertici delle istituzioni, dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (di cui aspettiamo ancora un segnale) al Premier Matteo Renzi, è scandaloso quanto la bocciatura alla Procura nazionale antimafia.
E' uno strano destino quello del magistrato Di Matteo. Strano ed ingiusto. Un magistrato che da oltre vent'anni indaga su Cosa nostra, stragi, pezzi deviati delle istituzioni e che oggi, non essendo più in Dda, si trova escluso da quasi tutte le indagini sulla mafia e veste i panni del condannato a morte.
Perché ancora Cosa nostra, tramite Riina, abbia emesso questa sentenza lo possiamo solo intuire. Vito Galatolo ci fornisce ulteriori elementi spiegando che l'attentato si doveva fare perché il magistrato “è andato troppo oltre” non solo nel processo, ma soprattutto nell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. E' quindi immaginabile che Di Matteo disturbi gli alti vertici del potere, quelli che hanno trattato e che stanno trattando con la criminalità organizzata.
Le parole di Riina, la lettera del capomafia trapanese Matteo Messina Denaro ai vertici di Cosa nostra palermitana possono essere pezzi di un puzzle che prefigura uno scenario ancora più inquietante? Possono essere il contenuto di una condanna a morte preventiva volta ad impedire che il giudice possa andare fino in fondo, magari arrivare in posti chiave per stanare quei personaggi che si annidano al centro del potere italiano e che ancora sostengono e mantengono in vita le organizzazioni criminali? Non lo possiamo dire con certezza. La speranza è che l'indagine della Procura di Caltanissetta possa battere sul tempo Cosa nostra e quei mandanti, indicati da Galatolo come “gli stessi di Borsellino”, impedendo un nuovo assassinio.

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