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padovani-marcelledi Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo - 24 maggio 2014
Alla manifestazione dell’Anm per l’anniversario della strage di Capaci la scrittrice francese contesta il processo sulla trattativa

Palermo. Partiamo dalla cronaca. “Se Falcone era un magistrato solitario, oggi parecchi suoi colleghi pur dicendo di sentirsi isolati sono invece molto più vicini alla politica e ai mass media. Si sono lasciati prendere per mano dal protagonismo. E spesso hanno contribuito a costruire una autorappresentazione sacrificale del proprio lavoro diventando quello che mi son permessa di chiamare nuovi protagonisti dell'antimafia aiutati in questo dai media. Si sono orientati sulle teorie del complotto, dei retroscena e vorrei dire delle trame che probabilmente sono solo sulla carta”. Le parole della giornalista francese Marcelle Padovani (nota per la sua intervista a Giovanni Falcone confluita nel libro “Cose di Cosa Nostra”), intervenuta alla commemorazione per il 22° anniversario della strage di Capaci, sono rimbalzate come pietre all’interno dell’aula magna della Corte di Appello. Poco prima era intervenuto il procuratore generale Roberto Scarpinato per portare il suo personale ricordo di Giovanni Falcone.

Tra i tanti magistrati presenti in sala c’era anche Alfredo Montalto, presidente della Corte di Assise dinnanzi alla quale si sta celebrando il dibattimento sulla trattativa Stato-mafia. Incurante della sua presenza la Padovani ha apertamente criticato l'impostazione del processo sulla trattativa sostenendo che, se uomini dello Stato hanno contattato Vito Ciancimino e i capi di Cosa Nostra per fermare le stragi, “hanno fatto bene” (per poi aggiungere che la sua opinione sarebbe cambiata se fosse stato dimostrato che hanno commesso reati o tradito lo Stato). Secondo la scrittrice francese, oggi la posizione di Falcone sarebbe quindi “più vicina al pensiero del giurista Giovanni Fiandaca”. Gelo in sala. “Non ha il diritto di tranciare questi giudizi” ha detto, al termine dell’incontro, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi che coordina i pm del processo. “Marcelle Padovani – ha aggiunto il magistrato – avrebbe dovuto leggere gli atti del processo e non solo il libro di Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo. E’ grave che esprima i suoi giudizi mentre c'è un dibattimento in corso. Finisce così per presentare come l'unica verità alternativa quel libro che peraltro utilizza degli atti processuali solo una quindicina di pagine”. Fin qui il resoconto dei fatti. Ma sono i dettagli quelli che sono ancora più gravi. Chi è che ha invitato “caldamente” una scrittrice che da anni non si occupa di mafia a partecipare all’evento? Risposta scontata: l’Associazione Nazionale Magistrati. Quella che sempre di più è una casta intoccabile non smette di sferrare i suoi attacchi ai magistrati che indagano sulla trattativa e in particolar modo nei confronti del pm Nino Di Matteo. Ogni giorno qualcuno, probabilmente per uscire dal cestino nel quale è relegato e aggiudicarsi un momento di celebrità, si aggiunge al carrozzone del giurista candidato alle europee con il Pd Giovanni Fiandaca con l’obiettivo di demolire un processo in corso che vede alla sbarra boss mafiosi, pentiti e pezzi dello Stato. Ma è dall’interno della magistratura che si consuma l’attacco più squallido. Molti, troppi colleghi dei pm Di Matteo, Teresi, Tartaglia e Del Bene continuano ad agire allo stesso modo di quei “Giuda” che a suo tempo hanno tradito Falcone e Borsellino contribuendo di fatto ai loro omicidi. Non è cambiato niente. E oggi i primi responsabili di un’eventuale realizzazione della condanna a morte lanciata da Totò Riina nei confronti di Nino Di Matteo saranno proprio quei colleghi che giorno dopo giorno continuano ad ostacolarlo e delegittimarlo, isolandolo sempre di più. Da una parte abbiamo l’Anm che si fa promotrice di quello che a tutti gli effetti appare come un’azione premeditata, mentre dall’altra ritroviamo il Csm che attende sulle sponde del fiume di vedere passare il cadavere. Nel frattempo il procuratore di Palermo Francesco Messineo non ha  inviato ancora il “quesito” allo stesso Csm per sbloccare l’empasse causato da una circolare dell’organo di autogoverno delle toghe. Quella stessa circolare che di fatto sta estromettendo dalle nuove indagini sulla trattativa gli stessi pm del pool. Cosa si attende? Che si concretizzi definitivamente quella “morte civile” di Nino Di Matteo e dei suoi colleghi auspicata da uno Stato-mafia e sostenuta da tutti quei traditori che si annidano nelle istituzioni, nella magistratura, nella politica, o nel mondo dell’informazione?

Viva la trattativa!
“Non ritengo che, se la trattativa c’è stata tra lo Stato e Cosa Nostra, questo possa essere considerato un reato: per lottare contro la mafia bisogna trattare. E’ inevitabile cioè avere dei contatti coi criminali, scambiando informazioni al fine di ottenerne di ben più importanti. E se la trattativa è consistita nell’evitare il ripetersi di attentati, ben venga la trattativa. Viva la trattativa! Se i presunti partecipanti commisero dei reati, che vengano processati ed eventualmente puniti per quelli, ma non per un reato inventato”. L’intervista a Marcelle Padovani pubblicata oggi sul Giornale di Sicilia è un ulteriore affondo in mezzo a questo delirio. L’ignoranza della scrittrice francese si commenta da sola: nel processo che si sta celebrando davanti alla Corte di Assise non c’è alcun reato di “trattativa”, bensì quello di violenza o minaccia nei confronti di un corpo politico amministrativo ai fini di condizionarne l’esercizio. Arrivare a ipotizzare che la trattativa  è consistita nell’evitare il ripetersi di attentati, di fatto giustificandola, è una gravissima offesa nei confronti dei familiari delle vittime del biennio stragista ‘92/’93 e non solo. Di sicuro il patto tra mafia e Stato non ha salvato la vita alla famiglia Nencioni (marito, moglie e due bambine di 9 anni e 50 giorni) uccisa insieme allo studente ventiduenne Dario Capolicchio nella strage di via dei Georgofili del 27 maggio ‘93. In altri passaggi dell’intervista la giornalista francese ritiene altresì che Giovanni Falcone non avrebbe gradito la “supermediatizzazione” di alcuni magistrati che rappresentano “una sorta di escrescenza patologica rispetto alla lotta alla mafia”, e soprattutto “non avrebbe mai messo la sua firma in un’inchiesta simile” (sulla trattativa, ndr). Vergogna, è quello che dovrebbe provare Marcelle Padovani, molti esponenti della magistratura e tanti altri “protettori” della trattativa. Ma questo è un Paese senza più dignità, incapace di vergognarsi, che non merita uomini come Nino Di Matteo pronti a sacrificare giorno dopo giorno la propria vita nel nome della verità e della giustizia.
Sei anni fa Maria Falcone, dopo il famoso richiamo di Berlusconi in merito alle “idee” di Giovanni Falcone sulla riforma della giustizia, aveva esclamato con forza: “Non si facciano dire a Giovanni cose mai dette”. Perché oggi quell’appello non viene ripetuto per difendere un pugno di magistrati che applicano unicamente il principio sacrosanto dell’uguaglianza di ogni cittadino davanti alla legge? Forse perché quel buco nero di complicità sta inghiottendo tutti. Uno dopo l’altro.

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