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falcone-maria-web1Intervista a Maria Falcone nel 22° anniversario della strage di Capaci
di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo - 22 maggio 2014
Palermo. A distanza di 22 anni dalla strage di Capaci abbiamo incontrato Maria Falcone, la sorella del giudice Giovanni Falcone, assassinato insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti di scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro. Un lungo dialogo sulle “menti raffinatissime” individuate all’epoca dallo stesso Falcone, passando attraverso la trattativa intrapresa da uno Stato bi-fronte, silenzi e omissioni di uomini delle istituzioni, e i mandanti esterni delle stragi del ’92 e del ’93 ancora da scoprire.

Professoressa Falcone, qual è il suo giudizio oggi su quelle “menti raffinatissime” di cui suo fratello aveva intuito la pericolosità?  
Il giudizio che posso dare è lo stesso che diedi all’indomani della strage, in base alla conoscenza delle idee di Giovanni. Nella lotta alla mafia io non rappresento niente, quello che conta è il mio dante causa, che è Giovanni Falcone. Gli sono stata vicina e so qual era il suo pensiero anche se parlavamo sempre molto poco di certi problemi, perché lui non ci voleva caricare eccessivamente di conoscenze che potevano essere dannose per noi stessi. Ricordo che Giovanni, continuando nelle sue indagini (attraverso le dichiarazioni di Tommaso Buscetta e successivamente attraverso il maxi processo), si rese conto che dietro questa organizzazione criminale c’era qualcos’altro: a Palermo c’erano i cugini Salvo e Salvo Lima. Questo però era il primo gradino politico della commistione tra la mafia e la politica. Giovanni si era fatto le sue idee su Giulio Andreotti attraverso le dichiarazioni di Buscetta (che all’inizio non erano state ritenute valide in quanto “de relato” visto che provenivano da Gaetano Badalamenti). Buscetta aveva detto a Giovanni di non portare al Maxi queste sue dichiarazioni perché i tempi non erano maturi. Anni dopo lo stesso Buscetta mi disse personalmente di aver ritenuto maturi i tempi solamente dopo le stragi, dopo quella grande rivoluzione che si era creata anche da parte della società civile. Giovanni era quindi arrivato a quel livello e aveva intuito che non si trattava solo di mafia.

E chi erano quelle “menti raffinatissime”?
Non erano certamente i capi di Cosa Nostra, e nemmeno quel famoso “terzo livello” in quanto Giovanni diceva che non c’era una politica che governava la mafia.  Mio fratello aveva individuato una vera e propria convergenza di interessi. Nel suo libro “Cose di Cosa Nostra”, aveva detto ancora di più: “Non dico che la mafia è nelle mani della politica, ma è la politica nelle mani della mafia”. Sicuramente Andreotti era una di queste “menti raffinatissime”, anche perché l’aveva detto chiaramente (sebbene allora non avesse le prove). Giovanni pensava pure che l’uccisione di Michele Sindona era il sintomo che quest’ultimo non doveva parlare. Non credo che dopo Giovanni gli altri magistrati abbiano trovato risposte. Ci vorrebbe che Totò Riina, invece di abbaiare inutilmente, dicesse la verità. Ecco perché ritengo che le “menti raffinatissime” c’erano, ma non le abbiamo scoperte…

Dalla sentenza definitiva sulle stragi del ’93 emerge, però, che c’è stata una trattativa tra Cosa Nostra e lo Stato. Lei, come familiare di vittima di mafia, tollererebbe mai una trattativa tra lo Stato e la mafia?
Oltre che vittima di mafia ho un grande senso dello Stato, come lo aveva Giovanni, quindi capisco che in tanti momenti di grande pericolo anche lo Stato deve attuare delle scelte che normalmente non dovrebbe e non potrebbe fare. Dobbiamo pensare che quel determinato momento era tragico. Non dico che si debbano legittimare le stragi, né mi voglio sovrapporre al giudizio dei magistrati, ripeto, ma la questione della trattativa bisogna inserirla nel momento storico della grande preoccupazione degli uomini addetti alla sicurezza nello Stato. Come dicevo poc’anzi ho un grande senso dello Stato, lo metto al di sopra di tutto, anche al mio dolore di sorella. Non credo che Giovanni sia stato ucciso dopo il patto, Paolo non lo so, me lo devono dire i magistrati con le prove. Mettendo da parte il mio dolore chiedo quindi alle istituzioni, quelle di allora, che dicano chiaramente: “Lo abbiamo fatto perché c’era un pericolo storico enorme e abbiamo salvato l’Italia”.

In realtà questa trattativa non ha salvato inermi cittadini, la strage di via dei Georgofili è un esempio, bensì ex ministri, insomma uomini potenti.
Non vorrei fare questo genere di discorso perché siamo nel campo delle ipotesi. Mi piace invece parlare di sentenze, di cose acclarate. I teoremi validi ci sono, ma ci sono anche quelli che non hanno le basi scientifiche per essere dimostrati. Io non so quale sarebbe potuta essere la realtà italiana se non si fosse arrivati a “patti”, non so dove saremmo… già la mancata strage dell’Olimpico dimostra che poteva essere una cosa ancora più pesante, però dopo quella mancata strage tutto si blocca… Non credo quindi che si sono voluti salvare i potenti, ma che si sia cercato di proteggere la sicurezza italiana. Come uomo delle istituzioni mi ha impressionato l’ex ministro Giovanni Conso che, con le sue dichiarazioni, si è voluto prendere personalmente tutta la colpa (per la questione della mancata proroga dei 334 provvedimenti di 41 bis nel mese di novembre del ’93, ndr).

E’ evidente che Conso non ha deciso tutto da solo.
Di fatto mi riferivo ai vertici delle istituzioni preposte alla sicurezza del nostro Paese. E comunque io non legittimo la trattativa come fa Giovanni Fiandaca, non dico: “È sicuro, si doveva fare”. Ma vorrei sapere se le condizioni di necessità erano tali da giustificare un patto con la mafia.

Secondo lei ci sono stati i mandanti esterni nelle stragi?
Sì, ci sono stati, su questo non ci sono dubbi. Che ce lo dicano! La vera giustizia si avrà quando scopriremo in che modo costoro hanno contribuito a realizzarle.

Come vanno interpretate secondo lei le recenti intercettazioni di Totò Riina che rappresentano una vera e propria condanna a morte nei confronti del pm Nino Di Matteo?
Non lo so, di fatto Riina l’odio maggiore lo manifesta tuttora nei confronti di Giovanni Falcone.

E allora perché poi Riina si riferisce anche a Di Matteo?
Io apprezzo e sostengo tutti i magistrati del pool che lavorano per conoscere questa verità che tutti auspichiamo prima o poi venga allo scoperto. Al di là di questo non so come leggere le dichiarazioni di Riina su Di Matteo visto che lo stesso pm in queste indagini (sulla Trattativa, ndr) non se la prende con la mafia… se la prende con i “protettori esterni”… Non credo che Totò Riina sia rimbambito, ma penso che ormai gli sia sfuggita di mano la conoscenza. Il magistrato che in tutta Italia Riina ha visto di più, come esempio di lotta alla mafia, è indubbiamente Di Matteo e quindi diventa per lui un altro nemico come Giovanni Falcone.

E comunque il pm Nino Di Matteo è un magistrato da proteggere.
Ma ci mancherebbe altro! Nino Di Matteo è un bravo magistrato che rischia la vita ogni giorno.

Recentemente al processo Borsellino Quater sono stati sentiti Gianni De Gennaro e Pino Arlacchi. Entrambi sono stati molto vicini a Giovanni Falcone, ma le loro dichiarazioni sono andate in contraddizione tra molti “non ricordo” e altrettante reticenze. Come reputa tutto ciò?
Non le posso dire proprio niente… forse veramente il passare degli anni ha annebbiato la mente, oppure anche loro non vogliono parlare… questo non lo so.  

La cosa l’ha sorpresa?
No, non mi sorprendono queste dimenticanze… capisco che il passare degli anni anche negli uomini crea problemi. Sono abituata alle disillusioni, ho visto tante persone che credevo fossero in un modo, che erano veramente amici, e invece non lo sono stati.

Ma Giovanni Falcone voleva bene a queste persone…
Più a Gianni (De Gennaro, ndr) che ad Arlacchi. Con Gianni ha lavorato veramente. Posso affermarle che di lui mi fido perché amava molto Giovanni Falcone.

Allora si può dire che questi silenzi sono legati ad una ragione di Stato?
Ecco, siamo là… Più che Arlacchi è Gianni che aveva questo senso delle istituzioni… una ragione di Stato…che gli impedisce forse… non lo so...

Nel senso che gli impedisce di parlare, magari con dolore…
Sicuramente. Ma di Gianni mi fido.

Siamo di fronte ad uno Stato che si piega?
A me non farà dire mai che lo Stato si piega, perché se lo Stato fa questo me ne vado dall’Italia! Io devo portare avanti il pensiero di uno Stato che cerca di essere una vera democrazia.

E’ evidente che il processo sulla Trattativa lo si vuole fermare, gli attacchi al pool sono sotto gli occhi di tutti.
Ma io non credo che, nonostante tutti gli attacchi, questo processo si possa fermare.

Ma sono stati particolarmente duri…
Non mi deve parlare di attacchi… perché tanti ne ebbe anche Giovanni. Non credo che i nuovi magistrati si scoraggeranno, così come non lo fece Giovanni Falcone.

Su questo punto siamo d’accordo, anche se sembra che questo Paese non voglia la verità.
Perché dobbiamo generalizzare? Io non voglio generalizzare sempre. Secondo me ci sono dei soggetti che proteggono il segreto per fini… quasi “etici”, per un senso dello Stato. Altri invece lo fanno perché avevano interessi, uno scopo... Penso che in quei momenti molti uomini delle istituzioni sono stati costretti a fare delle cose che adesso non ci diranno mai.

Quindi, oltre a Totò Riina, servirebbe un pentito di Stato.
Cerchiamoli, se ci saranno sarò felice. Io sono dalla parte della verità e dalla parte delle istituzioni. Non voglio che la verità venga minimamente traviata o che le istituzioni democratiche vengano messe fortemente in discussione perché ciò sarebbe un danno peggiore per tutti noi italiani.

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di Saverio Lodato

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