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de-donno-mori-subranni-tribunaledi Giorgio Bongiovanni ed Aaron Pettinari - 16 aprile 2014
Il 18 aprile la Cassazione deciderà sull'istanza di remissione presentata da Mori, De Donno e Subranni
Da quando il mese scorso è stata inviata alla Cassazione l'istanza di remissione del processo Stato-mafia (che vede alla sbarra lo stesso ex comandante del Ros, alcuni suoi colleghi dell’Arma, ex ministri, ex esponenti politici, collaboratori di giustizia e boss mafiosi di prima grandezza ndr), presentata dagli ex ufficiali dell'Arma, Mori, Subranni e De Donno, sullo stesso dibattimento aleggia un'aria sempre più pesante. La Corte d'Assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, in questi mesi è andata dritta per la sua strada, senza sospendere le udienze e fissando già prossime previste per il mese di maggio ma è ovvio che ora l'attenzione è completamente spostata su quel che accadrà venerdì 18 aprile a Roma, quando la Suprema Corte si dovrà pronunciare accogliendo o meno la richiesta dei tre imputati.
Se l'istanza non verrà rigettata gli effetti saranno devastanti. Si ricomincerebbe tutto da zero presso un'altra sede, una nuova Corte e nuovi pm che dovrebbero rappresentare l'accusa.
Ma ancor più devastante sarebbe il messaggio che la Corte di Cassazione manderebbe all'esterno, a quell'Italia onesta che su certi fatti vuole sapere la verità.

Sì perché a chiedere la remissione del processo non sono i boss di Cosa nostra, come spesso accadeva invece negli anni '70 quando i processi per mafia venivano celebrati a Bari o a Catanzaro, ma ex uomini delle istituzioni. E' lo Stato che non vuole processare se stesso, o che comunque fa di tutto pur di stoppare indagini e dibattimenti. Certo non sarebbe una novità visti i ripetuti tentativi da parte del Presidente della Repubblica per sottrarsi alla citazione in aula (dopo aver già chiesto ed ottenuto la distruzione delle telefonate con l'imputato Nicola Mancino ndr).

Dentro il “gioco sporco”
L'azione messa in atto da Mori, Subranni e De Donno però è ancora più subdola. Un “gioco sporco” che arriva a strumentalizzare certi fatti avvenuti nell'ultimo anno. Dalla condanna a morte espressa in carcere da Salvatore Riina nei confronti di Antonino Di Matteo, pm di punta del pool “trattativa”, al pericolo attentati che potrebbe coinvolgere anche quelle persone che con tanta passione civile seguono il processo.
Sono i “rischi per l'incolumità pubblica” ad essere messi in evidenza: “Ogni udienza – si legge nell’istanza – vede, in media, la partecipazione di circa un centinaio di persone che, in considerazione di tali minacce sono esposte al grave rischio di attentati e di azioni violente. In considerazione di ciò - ed a esclusiva tutela dell’ordine e dell’incolumità e sicurezza pubblica - potrebbe essere opportuno disporre la sospensione del processo in attesa della decisione di codesta Ecc.ma Corte Suprema”.
Per corroborare la propria “tesi strumentalizzata” viene riportato nella stessa un articolo del Corriere della Sera in cui è scritto che “Le minacce di Riina, sostiene più di un Pm, sono state utilizzate anche mediaticamente per rilegittimare un processo che era stato incrinato dall’assoluzione del generale Mori per la presunta mancata cattura di Provenzano nel 1995”. Nel riportare fedelmente il virgolettato del pezzo pubblicato lo scorso 18 gennaio, gli avvocati di Mori sottolineano che “il giornalista ha citato espressamente fonti provenienti dalla Procura della Repubblica, e quindi, autorevoli, secondo le quali ‘le minacce…sono state utilizzate…per rilegittimare un processo…’”.
Parole che a loro dire dimostrerebbero che “il clima, a Palermo, non è sereno ma condizionato”, in quanto “il giornalista del Corriere della Sera non ha utilizzato la particella verbale al ‘condizionale’ ma ha scritto ‘sono state utilizzate’, quindi ha dato per certo e per avvenuto (o comunque tentato) quanto sopra”. Persino l'intervento del procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, durante la manifestazione del 12 gennaio scorso, organizzata dal Fatto Quotidiano in sostegno al pool di Palermo, viene indicato come un tentativo di “condizionare il processo”.
Assolutamente meschino l'utilizzo di diverse interviste allo stesso Di Matteo in cui si parla dell'escalation di minacce nei suoi confronti e rispetto all'intero pool, composto anche dai pm Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene.
Le stesse parole di Nino Di Matteo, secondo i legali, certificherebbero quindi “un attuale, immanente, concreto ed inevitabile pericolo per l’ordine pubblico”. Addirittura vengono strumentalizzate le manifestazioni antimafia a difesa dei magistrati di Palermo arrivando alla conclusione che: “La prognosi sul fatto che il pericolo verrebbe meno spostando il processo va fatta indubbiamente ex ante, ma solo ex post si potrà avere la relativa certezza”. Di fatto, ad avviso dei legali, essendo che l'ordine di morte lanciato dal carcere è già noto la rimessione del processo “costituisce l’unico sicuro mezzo per eliminare il pericolo in atto e salvaguardare sia l’incolumità dei P.M. sia quella pubblica”.

Il problema sicurezza che non c'è
maxiprocesso-c-shobhaDetto della strumentalizzazione dei fatti, messa in atto pur di spostare il processo, non si può fare a meno di ricordare il perché lo stesso deve restare a Palermo. La “questione sicurezza” sollevata da Mori, Subranni e De Donno non sta in piedi per il semplice fatto che qualora il processo dovesse ricominciare a Caltanissetta o in qualsiasi altra Corte d'Italia i rischi nei confronti dei pm palermitani non sarebbero affatto estinti.
La città di Palermo è sicuramente la più sicura ed adatta per poter ospitare un procedimento di questo tipo. La prima dimostrazione si è avuta ai tempi del maxiprocesso. L'aula bunker venne realizzata in pochi mesi ed è forse la struttura più sicura e protetta d'Italia.
All'epoca il rischio attentati e ritorsioni da parte di Cosa nostra era per certi versi ancora più alto, considerato che i capimafia stragisti non erano in carcere ma latitanti, liberi di agire indisturbati e con una potenza militare senza precedenti. Oggi il quadro è leggermene diverso.
Anche sul piano della sicurezza dei magistrati Palermo è la città più pronta a difendere i pm. I tanti martiri che su quella terra hanno perso la propria vita, da Falcone e Borsellino al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, hanno comunque contribuito ad alzare il livello di attenzione sotto ogni punto di vista, a cominciare anche dai semplici spostamenti.
La riprova è nel fatto che ad Antonino Di Matteo non viene impedito di recarsi al processo presso l'aula bunker di Palermo, mentre a Milano lo Stato ha preferito evitare lo spostamento del magistrato in quanto non si era in quel momento pronti ad intervenire per evitare un'eventuale strage. Un fatto che resta grave, considerato che il primo compito dello Stato dovrebbe essere quello di permettere ai propri rappresentanti di compiere il loro lavoro, ma che comunque non ha pregiudicato lo svolgimento del dibattimento.
Resta aperta la questione “bomb jammer”, su cui ancora si attende la risposta definitiva da parte del ministro degli Interni Angelino Alfano per dotare le macchine dei magistrati di questo particolare strumento in grado di annullare le frequenze di un eventuale impulso a distanza, ma ciò non ha nulla a che vedere con la decisione che si dovrà prendere sull'istanza di remissione anche perché se verrà assegnato sarà un importante “plus” per la sicurezza dei pm.

Un “nuovo” processo di Norimberga
Quando è iniziato il dibattimento sulla trattativa l'avevamo definito come il “nostro” processo di Norimberga. Ed osservandolo con attenzione è sicuramente così. Dopo la seconda guerra mondiale era chiara a tutti l'importanza che i capi nazisti venissero processati in quella che era la loro terra, così come è stata importante la celebrazione del maxiprocesso a Palermo per il profondo significato che lo stesso aveva per la città e l'Italia intera. E questo procedimento non è da meno in quanto si scava proprio su quanto avvenuto in quei primi anni novanta (dalla sentenza del maxi al fallito attentato all'Olimpico, passando per l'omicidio Lima, la strage di Capaci e di Via d'Amelio, quindi gli attentati in continente nel 1993 ndr).
Anche il maxiprocesso subì diversi attacchi ed azioni ostruzionistiche. Il primo scontro vi fu proprio alla vigilia del Grande Processo. A provocarlo furono le polemiche sul rifiuto degli avvocati palermitani ad assumere l' incarico di patroni di parte civile. Preoccupati del clima generale che si andava creando intorno al processo, una volta respinta l'insinuazione, i penalisti minacciarono di chiedere la legittima suspicione, cioè lo spostamento del dibattimento ad altra sede. Poi, ci fu la ricusazione non accolta dalla Corte d' appello del presidente Giordano, accusato di aver suggerito una risposta al superpentito Contorno. Quindi, una lunga diatriba sul calendario delle udienze e sulle ferie estive. Infine la richiesta di lettura delle 750 mila pagine degli atti processuali. Tale possibilità era prevista dal Codice (artt. 462-466) ma in disuso; nel caso del maxiprocesso, tale lettura avrebbe richiesto circa due anni di tempo, col rischio di incanalare l’intero processo in un binario morto da cui non sarebbe, forse, più uscito. Fu necessaria una nuova legge emanata dal Parlamento, la n° 29/1987, per scongiurare tale pericolo.
Dal momento che i termini di custodia cautelare per un centinaio di imputati scadevano l’8 novembre 1987 (poi prorogati di poche settimane), era necessario che il processo di primo grado si concludesse entro quella data. Per questo motivo il presidente Giordano, nonostante le proteste di alcuni avvocati difensori e giudici popolari, dispose che il processo si sarebbe celebrato tutti i giorni, ad eccezione soltanto delle domeniche e di alcuni sabati.

Il primo tentativo di ricusazione in udienza preliminare
Il primo attacco nei confronti del processo trattativa aveva avuto luogo con l'istanza di ricusazione del Gup dell'udienza preliminare, Piergiorgio Morosini.
A presentare l'istanza era stata la difesa dell'ex capitano De Donno che si è visto rigettare la stessa in un primo momento dalla terza sezione della Corte di Appello di Palermo (novembre 2012), poi dalla Seconda Sezione Penale della Cassazione che ha rigettato la richiesta della difesa (giugno 2013), confermando la decisione della prima. L'ex ufficiale dei carabinieri sosteneva che Morosini, avesse espresso un convincimento sulla trattativa, perdendo in questo modo l'imparzialità, nel libro «Attentato alla giustizia» da lui pubblicato un anno prima e in alcune interviste rilasciate durante la presentazione del volume. Per i giudici nel suo libro Morosini aveva sì "considerato degna di attenzione la tesi della trattativa illecita formulata dalla Procura di Palermo" ma questo "non denota un convincimento sulla sua fondatezza e non è idoneo a configurare quell'anticipazione di giudizio che la norma indica come causa di astensione e di ricusazione a tutela dell'imparzialità del giudice". "Del resto - scrivono i giudici - se il giudice Morosini nel libro avesse ritenuto improbabile l'ipotesi accusatoria, la Procura avrebbe potuto di contro dolersi dell'espressione di un convincimento precostituito nella direzione opposta".

Il nuovo attacco
Da quando il processo è iniziato a Palermo il numero di attacchi nei confronti dello stesso si è fatto sempre più forte e sibillino. In campo sono scesi giornalisti, giuristi e storici nel bieco tentativo di abbassare l'attenzione nei confronti del procedimento più importante d'Italia. La “trattativa” di cui in un primo momento si metteva in dubbio l'esistenza adottando terminologie come “presunta” o “fantomatica”, in breve tempo si è guadagnata l'appellativo “a fin di bene”, con la fiandaca-lupo-ottstesura del libro scritto a quattro mani da Fiandaca e Lupo (nella foto), o comunque “necessaria per evitare altre stragi”. L'ultima azione messa in atto in sede dibattimentale con la richiesta di remissione è soltanto l'ennesimo tentativo per stoppare l'accertamento della verità.
Non solo. A Palermo si respira un'aria simile a quella dei primi anni Novanta (le continue minacce contribuiscono ad alzare il livello di attenzione ndr) ma la sensazione è che l'interesse per un'eventuale eliminazione di Di Matteo e degli altri membri del pool non sarebbe proprio della mafia, ma di altre forze che temono lo svelamento del “gioco grande” che ha affossato le sue radici tra il 1992-1993 e che ha poi portato alla nascita della Seconda Repubblica.
E' forse per questo motivo che il processo Stato-mafia fa paura? L'Italia come reagirebbe ad una nuova strage? E' forse questo il motivo per cui, prima di armare nuovamente la mano di Cosa nostra, si cerca in tutti i modi di fermare questo processo e delegittimare il lavoro e le indagini degli inquirenti?
In questi primi mesi di processo ampio spazio è stato dato alle audizioni dei collaboratori di giustizia ma sin dalle prossime udienze sarà la volta di personaggi istituzionali. Sono forse queste le testimonianze che incutono timore?
L'istanza di rimessione che verrà discussa venerdì rappresenta un nuovo bivio della nostra storia. La speranza è che la Cassazione non si presti al “gioco sporco” rispedendola al mittente. Questo sì che sarebbe un bel segnale di giustizia.

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