di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo - 11 dicembre 2013 - Foto e Video all'interno!
Milano. Questa giornata comincia con un fallimento. Quello di uno Stato che non consente ad un magistrato di andare ad un processo con la dovuta sicurezza. Che non vuole proteggere il pm Nino Di Matteo e non fa nulla per nasconderlo. Questo non è un Paese “civile”, ma uno Stato-mafia. A portare invece tutta la solidarietà a questo magistrato, che fin dall’inizio si è occupato dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, c’è la gente comune. Tante persone che molto prima dell’inizio dell’udienza sono al freddo, fuori dall’aula bunker, dietro un enorme striscione: “Milano sta con Di Matteo”. Uno spiraglio di speranza in mezzo a tutta questa oscurità istituzionale. La temperatura è di zero gradi, ma questo non impedisce a diversi uomini e donne, e a tanti ragazzi, di manifestare tutto il proprio sostegno nei confronti del dottor Di Matteo, così come verso i suoi colleghi del pool. Insieme a loro c’è Salvatore Borsellino e i militanti delle Agende Rosse che hanno indetto il presidio davanti al bunker di via Ucelli Di Nemi. Dopo due ore di attesa in strada per problemi “tecnici” (degni di un Paese del terzo mondo) finalmente si entra in aula. E’ il giorno della deposizione dell’imputato Giovanni Brusca. Il collaboratore di giustizia che per primo in un’aula di giustizia ha parlato del “papello” e del relativo patto tra Stato e mafia. Proprio per questo era importante che tutto il pool fosse al completo. Ma ormai è fatta.
L’epopea criminale
Il pentito Brusca risponde alle domande del pm Vittorio Teresi ripercorrendo le tappe salienti della sua scalata ai vertici di Cosa Nostra. In aula, accanto ai pm Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, c’è anche il procuratore di Palermo Francesco Messineo. Poco più in là anche Massimo Ciancimino. “Da adolescente portavo i viveri al latitante Leoluca Bagarella – racconta il collaboratore –. Sono stato affiliato formalmente nel ‘75 prima dell’omicidio del colonnello Russo al quale ho partecipato. Mi hanno insegnato che prima veniva Cosa Nostra, poi il resto. Io questa regola l’ho seguita”. Il procuratore aggiunto di Palermo Teresi introduce la questione degli omicidi eccellenti e l’ex boss di San Giuseppe Jato riaccende un film fatto di morti e di patti. “Nel corso di una riunione, nel ‘91, Totò Riina disse che dovevano morire tutti, che si voleva vendicare, che i politicanti lo stavano tradendo. (Riina, ndr) Fece i nomi di Falcone, che era un suo chiodo fisso, di Borsellino, di Lima, di Mannino, di Martelli e di Purpura. Disse: ‘gli dobbiamo rompere le corna’. Tutti ascoltavano in silenzio. Per amore o per timore”. “Mannino, ad esempio – specifica Brusca – doveva morire perché non aveva aggiustato, tramite il notaio Ferraro, il processo per l’omicidio del capitano Basile. Riina mi diede l’ordine di ucciderlo e io chiesi tempo per studiarne le abitudini”. Nel raccontare le minacce agli alti vertici istituzionali Giovanni Brusca spiega le diverse “scelte” di Cosa Nostra. “Si parlò anche di Andreotti, ma non nel senso di ammazzarlo, bensì di non farlo diventare presidente della Repubblica. Politicamente c’era tutta la volontà di metterlo in difficoltà”. “Per l’eliminazione di Martelli, invece, che era concreta – sottolinea – facemmo dei piani veri. Mandai degli uomini a studiarne le mosse”. “La priorità degli omicidi la decideva Riina. Ad esempio si cominciò con Lima perché si vociferava delle aspirazioni di Andreotti alla presidenza della Repubblica e noi sapevamo che con quel delitto avremmo condizionato quella vicenda. Per questo si decise di ammazzarlo allora: in realtà nella lista di Cosa nostra Falcone e Borsellino venivano prima”. Di seguito lo stesso Brusca racconta del progetto di attentato nei confronti di Piero Grasso, successivamente archiviato per un “problema tecnico”.
Il ruolo di Brusca nell’inferno di Capaci
E proprio in merito alla strage di Capaci, colui che premette il pulsante del telecomando, che fece saltare in aria il giudice insieme ai suoi agenti di scorta, evidenzia come il suo ruolo non fosse stato pianificato a priori. “Io nell’attentato di Giovanni Falcone, nel suo piano esecutivo, ci sono entrato per sbaglio”. Tante sono ancora le ipotesi investigative che ruotano attorno all’eccidio del 23 maggio ‘92. Una su tutte riguarda lo stranissimo eclissamento di Pietro Rampulla, detto “l’artificiere”. Ex ordinovista originario di Mistretta (Me), Rampulla era legato alla destra eversiva, vicino alle cosche di Nitto Santapaola, nonché legato da un’antica amicizia a Rosario Cattafi, l’avvocato-pregiudicato di Barcellona Pozzo di Gotto, anche lui con un passato tra gli ordinovisti. Ma soprattutto Rampulla era l’uomo che quel giorno avrebbe dovuto premere il telecomando (che lui stesso aveva procurato, ndr) e che invece all’ultimo momento aveva addotto misteriosi impegni sopraggiunti, lasciando così il compito allo stesso Brusca.
L’incontro con Rita Borsellino
“Decisi di dire anche quel che avevo fino ad allora taciuto dopo un incontro con la sorella del giudice Borsellino, Rita, che mi chiese di sapere tutta la verità sulla morte di suo fratello”. Nel ricordare “l’emozione” di quell’incontro Brusca si interrompe alcuni secondi palesemente commosso. “Io in quei momenti alla signora Borsellino dò l’anima…”, ribadisce successivamente specificando come quel colloquio gli abbia dato la spinta a rispondere alla richiesta di giustizia e verità della sorella del giudice. Un impulso che lo porta ad approfondire con i magistrati quel riferimento ai contatti di Vittorio Mangano con Marcello Dell’Utri, omesso per paura all’inizio della sua collaborazione. Un dettaglio che viene quindi riportato all’attenzione della Corte di Assise presieduta da Alfredo Montalto. Quei contatti lo stesso Brusca li aveva già anticipati al compianto magistrato Gabriele Chelazzi nel 2001 ed erano stati discussi successivamente nello stesso processo Dell’Utri. In quella occasione l’ex braccio destro di Berlusconi veniva collocato “tra Mangano e Berlusconi” e allo stesso tempo “tra Riina e Berlusconi”.
Nicola Mancino: il terminale del papello
“Circa 20 giorni dopo l’attentato a Giovanni Falcone, Totò Riina mi disse ‘si sono fatti sotto, mi hanno chiesto cosa vogliamo per finirla e io gli ho consegnato un papello così’. Era contentissimo. Riina non mi disse a chi aveva dato il papello ma mi fece capire che alla fine era andato a finire a Mancino”. Per l’ennesima volta Giovanni Brusca riporta sotto i riflettori il ruolo nevralgico dell’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, attualmente sotto processo (in questo stesso procedimento) per falsa testimonianza. Per il collaboratore di giustizia è lui “il terminale” di quell’elenco di richieste fatte da Cosa Nostra per far cessare le stragi. Durante l’interrogatorio il pm Roberto Tartaglia affronta la questione delle stragi nel “Continente”. Le bombe del ’93 erano legate al papello e alla trattativa? chiede il magistrato. Dal canto suo Brusca è alquanto esplicito. “Tutto questo era finalizzato per farli tornare a trattare, per costringerli a riaprire questo dialogo”. Il riferimento è a quella sorta di pausa di riflessione da parte di chi trattava con Cosa Nostra di fronte alle tracotanti richieste di Riina (dalla chiusura delle supercarceri, all’abolizione del 41bis e via dicendo) che evidentemente intendeva invece proseguire una strategia mirata a destabilizzare il Paese a suon di bombe.
La cattura di Totò Riina
Nel ripercorrere il biennio di sangue ‘92/’93 Brusca ammette che Provenzano “era a conoscenza del covo in cui Riina si nascondeva prima di essere catturato”. Ed è proprio in merito alla cattura del capo dei capi che l’ex boss racconta come all’interno di Cosa Nostra “inizialmente si pensava che a farlo arrestare fosse stato Di Maggio (Balduccio, ndr). Poi ci vennero i primi dubbi dopo il suicidio del maresciallo Lombardo che in una lettera scrisse di avere avuto un ruolo nella cattura di Riina. Allora sono cominciati vari retropensieri e abbiamo collegato Lombardo a un suo confidente, Francesco Brugnano, che a sua volta era vicino all’area provenzaniana”. Nel suo lungo excursus storico Brusca specifica che lo stesso Riina nascondeva documenti riservati in alcune casseforti nei covi in cui si nascondeva. “Temevamo che l’ultimo nascondiglio fosse perquisito, invece, questo non avveniva e non capivamo perché”. Di seguito Brusca sottolinea come i familiari di Riina vennero portati via dal rifugio di via Bernini. Il collaboratore riferisce quindi che il covo venne ripulito per bene. “Con Bagarella commentammo anche la perquisizione di cui sapemmo in tv fatta in una casa che non era di Riina (Fondo Gelsomino, ndr). Dicemmo: ‘ma perché fanno questa buffonata’?”. Subito dopo l’arresto di Totò Riina si apre dentro Cosa Nostra una questione particolarmente delicata che riguarda la decisione di proseguire o meno la linea di sangue indicata dal boss di Corleone. “Parlando della strategia stragista – specifica Brusca – Bagarella mi disse di andare avanti. Provenzano era perplesso e chiese come l’avrebbe giustificato con gli altri. Bagarella provocatoriamente rispose: ‘ti metti un cartello con scritto: non so niente’”.
Quell’articolo di giornale
Prima di concludere la prima parte delle tre giornate che lo vedono unico protagonista del processo sulla trattativa, Giovanni Brusca ricorda quel vecchio articolo di Repubblica firmato da Francesco Viviano e Attilio Bolzoni, letto nel ’96, che a tutti gli effetti aveva sortito l’effetto di aprirgli gli occhi sul fronte della trattativa. Nell’articolo si faceva esplicito riferimento a Vito Ciancimino, Antonino Cinà e Mario Mori con riferimento al “tentativo di trattativa tra spezzoni dello Stato e lo stesso Riina”. “Da lì ho capito… – sottolinea Brusca – ho fatto due più due… e quindi poi ho fatto le dichiarazioni spontanee al processo di Firenze (per le stragi del ’93, ndr) e il generale Mori è dovuto venire a confermare quello che avevo detto”. Secondo Brusca la lettura di queste notizie “chiudono il quadro (completano, ndr), cioè vengo a conoscenza di chi erano i ‘tramiti’, chi ‘si erano fatti sotto’ e chi aveva proposto a Riina di finirla…”. “A quel punto mi dissi: ‘…di male in peggio… qui trattiamo con i carabinieri per avere dei benefici…”. Fine dell’udienza.
Dall’altra parte della barricata si intravede sempre quello Stato-mafia che intavola “dialoghi”, “patti” e “trattative” con Cosa Nostra. Il processo che si sta celebrando sta iniziando a scalfire il muro di gomma di uno Stato colluso. Che reagisce quindi in maniera scomposta per bloccare in tutti i modi questo procedimento penale. Utilizzando anche l’arma dello sfinimento psicologico nei confronti di chi quel processo l’ha istruito. Appuntamento a domani. Prosegue l’esame del collaboratore di giustizia e inizia il controesame.
FOTOGALLERY © Federico Ferme
AULA BUNKER MILANO I° giorno - Udienza TRATTATIVA STATO-MAFIA
VIDEO Brusca: "Per Riina il papello finì a Mancino"
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