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“Sbirritudine”

Innanzitutto il covo di Riina, la lussuosa villa di via Bernini custodita nel cuore di Palermo rimasta priva di sorveglianza per 18 giorni. Il tempo più che sufficiente per trasferire la famiglia del boss a Corleone e svuotare completamente la casa e soprattutto la cassaforte.
Il processo, a carico sempre di Mori e questa volta del capitano Ultimo, si è concluso con l’assoluzione di entrambi e senza nessuna spiegazione plausibile.
Un errore imperdonabile, “un disguido” non giustificabile che nell’Italia dei misteri e delle trame rosse e nere non è nemmeno credibile.
Si sono formulate decine di ipotesi, ma è dalla voce interna di Cosa Nostra che sono giunte le chiavi di lettura più importanti per comprendere i retroscena che fanno da cornice a tutta questa serie di “disattenzioni” che volenti o nolenti, hanno finito per favorire la mafia, quella di Provenzano.
Proprio su di lui, sull’imprendibile fantasma di Corleone si è rivolta l’attenzione di tutti anche all’interno di Cosa Nostra.
Racconta Nino Giuffré, il suo braccio destro passato poi dopo la cattura dalla parte dello Stato, che all’indomani della cattura di Riina vi era molto fermento tra le varie anime dell’organizzazione. Così come già avevano spiegato Brusca e Cancemi la designazione del successore non era stata automatica e immediata. Da una parte la cordata di Provenzano, dall’altra quella di Bagarella il quale dopo l’arresto di Raffaele Ganci e la consegna di Cancemi sembrava avere la meglio.
In un dato momento, prosegue il collaboratore, i due corleonesi si incontrarono un po’ perché erano paesani, un po’ perché il loro ruolo li obbligava e Provenzano, a volte gli sembrava quasi irriconoscibile, “non prendeva posizioni, se ne stava al balcone a guardare”, come avesse paura e si adeguasse alle scelte di Bagarella mostrando di volerne appoggiare la reggenza.
Poi però sopravvennero tutti gli arresti e uno dopo l’altro i boss cosiddetti stragisti, tra cui Bagarella stesso, Brusca, Aglieri, Greco, i Ganci ecc uscirono di scena, tutti tranne Provenzano.
Cominciò quindi a serpeggiare all’interno di Cosa Nostra, senza neanche troppa discrezione, la voce che proprio lui, il capo in persona, fosse un confidente dei Carabinieri e che la moglie Saveria Benedetta Palazzolo fosse “l’ambasciatrice di questi discorsi”.
Giuffré riferisce poi che la delicatissima maldicenza giungeva da Catania, in particolare da Eugenio Galea, uno degli uomini più fidati di Nitto Santapaola.
Fortemente imbarazzato e ben consapevole che una parola detta male può costare la vita Giuffré aveva deciso di non affrontare direttamente il suo capo, ritagliando e conservando un articolo di giornale che aveva messo nero su bianco il più infame dei sospetti.
Fu lui, invece, Provenzano stesso, un giorno a chiedergli a bruciapelo: “Ninuzzo, ma tu ci criri ca io sugnu sbirro? Io siccai assittatu ‘a seggia, no? L’ho guardato in faccia: ma che dice zio? ‘Ca che dico, ci sunnu, c’è in giro sta voce …. Gli dissi: ma va lassa perdere, che va credendo ste cose? No, non ci puozzu cririri mai!”.
La conversazione finì così, ma nella mente di Giuffré questi dubbi cominciavano a maturare.
“Mi diceva sempre, spesso e volentieri Totò Riina, mi faceva scuola, mi diceva, Ninù devi stare attento alle coincidenze perché, una volta è possibile una coincidenza, la seconda no, è sbirritudine”.
Troppe coincidenze quindi: “iddu già come s’affaccia n’anticchia, eeh arrestato, chiddu arrestato … ma cca che è?”
Più passa il tempo più anche sulla cattura di Riina, Giuffré andò formandosi un’opinione che andava al di là della mera ipotesi ricollegando eventi che si dispiegavano sotto i suoi occhi e vecchi discorsi.
“C’era una divinità che dovevano essere offerti dei sacrifici umani”, sintetizza con questa vivida metafora, oggi a distanza di anni, tutti quei ragionamenti per spiegare ciò che ritiene di aver compreso: se si voleva salvare Cosa Nostra occorreva consentire ad una cessione straordinaria.
“Quello era il sacrificio più importante, per quel momento per cercare, da un lato di mettere fine alla figura di Riina come la persona che aveva scatenato il finimondo, … diciamo principalmente diciamo Totò Riina lo sapevano gente nostra dov’è che stava… e per l’intento che era ben preciso, sacrifichiamo Riina per salvare Cosa Nostra e tutto il resto”.
Nella stessa logica quindi, secondo Giuffré, va inserita la questione della mancata perquisizione.
“Nel momento in cui ci danno il tempo ai familiari di andarsene, di ripulire tutto, mi consenta, abbiamo ben capito tutti che il discorso era stato perfettamente pilotato. (…) Perché non ci sono andati, ci siamo chiesti  noi quando parlavamo, nella casa? Perché appositamente nel momento in cui andavano nella casa … ci potevano essere delle tracce, degli appunti che potevano portare agli stessi….a funzionari dello Stato, a Ministri cioè a discorsi ben in alto cioè fatti, non chiacchiere… perché chiacchiere in Cosa Nostra non ce ne sono, su’ fatti c’hanno a essere i fatti, chista è a documentazione… ci sono tante persone ca sunnu sutta stipendio e per quanto riguarda tutte le Forze dell’Ordine politici e cosi via dicendo”.
Oggi che anche Provenzano è sparito dalla scena la domanda più logica è dove siano questi documenti che, se Giuffré ha ragione, contengono in sé un potere di ricatto non indifferente.
“Ce li ha Matteo Messina Denaro”, risponde il collaboratore, l’unico cui Bagarella, dopo averli presi in consegna dalla sorella, avrebbe potuto affidarli.
L’ultimo dei “corleonesi” rimasto, quello che era nel cuore di Riina sin da ragazzo e che era ed è in grado di gestire il suo mandamento in totale autonomia.
All’appello però non mancano solo quei documenti, ma anche due agendine elettroniche che Giuffré ha visto con i suoi occhi su cui Provenzano annotava i suoi conti e che chiaramente non aveva con sé al momento della cattura a Montagna dei Cavalli.
Chi le custodisce?
Matteo Messina Denaro rimane l’ultimo baluardo di una Cosa Nostra lontana dai tempi dello stragismo eversivo. Difficile comprendere se una sua cattura rappresenti davvero la fine o se inauguri un nuovo inizio senza più volti noti e invece molti volti insospettabili.
Per il momento il boss di Trapani è riuscito a dribblare anche l’ultima trappola, proprio grazie a quell’archivio di Provenzano di cui si era tanto scandalizzato nella lettera alla spia, suo tanto amico, che lo voleva incastrare.

In edicola dal 18 luglio 2008
ANTIMAFIADuemila N°59

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