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In corso a Palermo il processo per la mancata cattura di Provenzano
di Anna Petrozzi
Un’altra possibilità. Un’altra sperata occasione per fare chiarezza sul periodo più buio e drammatico della storia repubblicana recente. Questo rappresenta di fatto il processo che si celebrerà a partire da luglio a Palermo e che vede come imputati il prefetto Mario Mori, ex capo del Sisde (oggi Aisi), e il colonnello Mauro Obinu, all’epoca dei fatti ai vertici del Ros dei carabinieri, impegnato in prima linea nella cattura dei latitanti.


Riina e Provenzano, i due grandi capi corleonesi, introvabili per anni, protetti dall’omertà e da oscuri giochi di potere che alla fine, proprio quando era più necessario, li hanno travolti, dopo che la loro furia omicida ha smesso di essere funzionale.
I due alti ufficiali dovranno rispondere della grave accusa di favoreggiamento a Cosa Nostra basata principalmente sul “mancato blitz di Mezzojuso” che avrebbe potuto portare all’arresto di Bernardo Provenzano nel 1995 quando l’organizzazione si trovava allo sbando in seguito alla cattura di Riina, altro evento dai risvolti equivoci.
L’inchiesta, per cui più volte è stata rifiutata l’archiviazione, nasce dalle dichiarazioni del colonnello dei carabinieri Michele Riccio che nel 1995 stava raccogliendo le confessioni di Luigi Ilardo, reggente del mandamento di Caltanissetta, da poco reinserito dopo un periodo di detenzione al vertice mafioso. Quella notte, il 31 ottobre 1995, Ilardo era riuscito ad avere un appuntamento con Provenzano in seguito ad una fitta corrispondenza. Come da accordi aveva avvertito Riccio che a sua volta aveva segnalato ai suoi superiori, gli imputati in questione, la possibilità di catturare il latitante.
Secondo il colonnello non gli furono dati volutamente uomini e mezzi per irrompere in quel casolare dove anni dopo è stato arrestato Benedetto Spera accudito da quelle stesse persone attraverso le quali Ilardo aveva raggiunto l’allora capo di Cosa Nostra.
Secondo Mori e Obinu fu Riccio, invece, a decidere di non intervenire perché le circostanze non lo consentivano e perché da lì a breve si pensava ci potesse essere un secondo incontro da poter pianificare con più anticipo e sicurezza.
Sul punto le divergenze sono rimaste insanabili in tutti i confronti tra le parti.
Il pubblico ministero rappresentato dai sostituti Di Matteo, Ingroia e Gozzo, ha chiesto che venisse incluso nella lista dei testi anche Massimo Ciancimino, figlio di Vito, ex sindaco di Palermo e rappresentante diretto degli interessi dei corleonesi in politica e imprenditoria.
Sentito a Caltanissetta, nell’ambito del filone di inchiesta ancora aperto sulle stragi, il più giovane dei figli di don Vito, già condannato in primo grado per riciclaggio e intestazione fittizia dei beni, ha rilasciato importanti e inquietanti dichiarazioni circa la trattativa e il papello, vale a dire quella sorta di scellerato dialogo intercorso tra Cosa Nostra, rappresentata proprio da Ciancimino, e lo Stato, rappresentato dall’allora colonnello Mori e dal capitano De Donno, di cui Massimo fu testimone oculare.
Una scelta che lascia presagire l’intenzione della procura di contestualizzare l’episodio in questione e di collegarlo, come è logico che sia, con tutti quegli eventi a dir poco nebulosi che caratterizzano quegli anni di stragi e di scontro di poteri che con la mafia hanno determinato il passaggio dalla cosiddetta prima alla seconda repubblica.

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