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de-gennaro-arlacchi-bigdi Giorgio Bongiovanni - 28 marzo 2012
C’è un altro episodio indecoroso da aggiungersi a quelli già pietosi che hanno offerto i vari uomini di “stato” sfilati davanti ai magistrati di Caltanissetta impegnati nella ricerca della verità sulla morte di Paolo Borsellino e dei suoi angeli custodi.
Tra le pagine della richiesta e poi dell’ordinanza di rinvio a giudizio per il nuovo troncone del processo, nella sezione dedicata ai possibili moventi dell’accelerazione della strage ed in particolare all’individuazione di un traditore, i giudici hanno riportato gli interrogatori effettuati a Pino Arlacchi, parlamentare europeo e amico personale dei due magistrati uccisi e al prefetto De Gennaro, oggi capo del DIS (Dipartimento informazioni per la sicurezza), amico fraterno di Giovanni Falcone e amico di Paolo Borsellino.

Se il contesto e la situazione non fossero così drammatici i racconti di quei due testimoni privilegiati della vita di Falcone e Borsellino potrebbero costituire la trama di una commedia. Tragica s’intende.
In un verbale di interrogatorio dell’11 settembre 2009 Arlacchi rispondeva alle domande dei pm in merito ad un’intervista del giornalista de La Stampa, Francesco La Licata. Il testo riportato è lungo ma merita davvero di essere letto nella sua interezza.

“Lei, poi, ha detto al quotidiano "La Stampa" del 27 luglio 2009 (rispondendo alla domanda del giornalista La Licata "Sta dicendo che erano di dominio pubblico gli ammiccamenti con la mafia e gli inciuci?") "Oddio, non so quanto fosse condivisa la conoscenza di certe anomalie. lo posso dire che ne parlavamo con Falcone e Borsellino che incontravo regolarmente ogni settimana. Ma non era questa la nostra preoccupazione principale: i contatti tra investigatori particolarmente audaci e boss della mafia sono sempre esistiti e sono esistiti patti ed accordi ...dico semplicemente che non bisogna fare confusione, perché trattative fra Stato e mafia ce ne sono sempre state. In quegli anni cruciali ce n'erano in piedi più d'una, addirittura tre o quattro ed erano intrattenute da centri marginali dello Stato. Marginali non vuol dire ininfluenti: era gente che stava nei servizi, nei Ros e negli apparati investigativi d'eccellenza. Perché trattavano? Un po' per cercare pentiti, molto per arginare i successi della polizia molto ben organizzata da Parisi e da De Gennaro. Perché è bene che si sappia: il cancro della lotta alla mafia è sempre stata la concorrenza, le gelosia tra apparati dello Stato".
Può riferirci, dunque, cosa le dissero i dott.ri FALCONE e BORSELLINO al riguardo?
Quali erano le trattative in corso, e chi le conduceva? Di quali contrasti era a conoscenza tra apparati investigativi, o tra questi e l'intelligence?
Risposta: Oltre a quanto ho dichiarato nell'intervista, che qui confermo, devo premettere che, nel frattempo, ho rammentato che il giorno del mio compleanno, il 21 febbraio del 1993, in occasione di una festa che feci a casa mia, cui presenziarono, tra gli altri, il Prefetto PARISI, il dott. DE GENNARO ed anche il Prefetto Luigi ROSSI, Conversando con quest'ultimo su chi potesse esservi "accanto a cosa nostra" nell'esecuzione delle stragi di Capaci e via D'Amelio, ROSSI mi disse che sul luogo della strage di via D'Amelio, almeno così credo, venne trovato un biglietto con un numero di telefono di un dirigente del SISDE.
Il dott. DE GENNARO si arrabbiò molto per tale scambio di battute, dicendomi che non avevo titolo per apprendere queste notizie, cosa che, a dire il vero, mi infastidì molto, avendola trovata una reazione poco educata nei miei confronti.
II discorso col Prefetto ROSSI nacque poiché era mia convinzione, che effettivamente Cosa Nostra nell'eseguire le stragi di Capaci e via D'Amelio avesse agito in sinergia con ambienti deviati delle Istituzioni, soprattutto del SISDE, che si trovavano in quel momento in difficoltà, poiché stavano per venir meno gli storici referenti di carattere politico ed avevano, pertanto, per così dire, "cavalcato" la reazione comunque autonoma di Cosa Nostra, pilotandola per asservire allo scopo di riacquisire quella centralità che avevano avuto nel passato.
Si trattava di un'analisi - quella delle difficoltà in cui si trovavano questi ambienti istituzionali in quel periodo - che era condivisa anche dal dott. FALCONE e dal dott. BORSELLINO.
Difficoltà che nascevano dall'abolizione dell'Alto Commissariato, che aveva sempre costituito il terreno fertile di questi soggetti e dalla perdita di potere della parte politica che li aveva sempre garantiti.
Faccio riferimento, in particolar modo, allorquando parlo di ambienti istituzionali al gruppo del SISDE che aveva come punto di riferimento il dott. CONTRADA, ed anche qualche gruppo appartenente all'Arma dei Carabinieri che aveva nell'allora Colonnello MORI il punto di riferimento. Il Colonnello MORI ed il dott. CONTRADA mi risulta che fossero ambedue in forte contrapposizione col dott. DE GENNARO. Lo stesso non condividevo il metodo con il quale il colonnello MORI agiva in quel periodo, contrassegnato da un ricorso a confidenti e da un'azione che definirei poco trasparente.
Preciso, tuttavia, che il giudizio su MORI e sui soggetti allo stesso vicini non era così negativo come quello che si aveva su CONTRADA, che ritenevamo davvero pericoloso e capace anche di compiere omicidi.

omissis

Dopo le stragi del 1993 si consolidò presso i vertici della D.I.A. l'idea che le stragi avevano una valenza politica precisa, e cioè erano finalizzate a costringere lo Stato a venire a patti ed instaurare una trattativa.
Sul punto formulammo insieme a DE GENNARO delle ipotesi, ritenendo che il gruppo andreottiano, tramite i suoi referenti di cui ho detto - e cioè il gruppo CONTRADA - fosse uno dei terminali della trattativa.
Quando nell'intervista faccio riferimento per le trattative allora in corso "al R.o.S." intendo riferirmi al colonnello MORI; sospettavamo, infatti, che vi fosse in atto un'azione di depotenziamento delle indagini della Procura di Palermo, anche tramite contatti con appartenenti a cosa nostra che convincevano l'associazione della possibilità di uscire in qualche modo indenne dalla fase delle indagini compiute dal pool di Palermo.
Il Prefetto PARISI era certamente a conoscenza di questa situazione, ma il suo atteggiamento è sempre stato quello di cercare una mediazione con questi ambienti – intendo riferirmi al gruppo di CONTRADA - poiché era a conoscenza di quanto potessero essere pericolosi e cercava, pertanto, di contenerne l'azione.


In tale contesto, ricordo anche che il dott. DE GENNARO, già all'epoca, mi parlava di contatti "ambigui" tra appartenenti a cosa nostra e Marcello DELL'UTRI, che fungeva da anello di congiunzione tra la mafia ed il mondo dell'economia e della politica.
Domanda: Sempre nella medesima intervista a "La Stampa" alla domanda "Ma il capo della Polizia, Vincenzo Parisi, non bastava a fermare le spinte, diciamo, antagoniste?" lei ha risposto: «Lui era l'elemento di equilibrio, per cultura e per matrice, essendo un uomo di intelligence più che poliziotto. Ovviamente sapeva cosa si muoveva attorno all'attività antimafia, ma riusciva sempre a blandire, ad addomesticare, calmare e, in sostanza, a controllare queste frange che remavano contro e cercavano successi in qualunque modo, anche i più disdicevoli ... La spaccatura era fra chi aveva scelto la strada maestra,diretta e trasparente, quella dei pentiti sottoposti al vaglio della magistratura, e chi continuava col vecchio metodo dei confidenti e del rapporto fiduciario e incontrollato con le fonti allargatosi parecchio dopo lo sforzo, anche economico, profuso dallo Stato. Questa situazione era ben chiara a tutti: sapevamo che in quel guazzabuglio c'erano fior di delinquenti, capaci anche di uccidere, e sapevamo pure che avevano alle spalle coperture politiche di alto livello che, tuttavia, in quegli anni cominciavano ad essere perdenti. Chi remava contro, in sostanza, lo faceva con la benedizione di un gruppo politico che cercava di mantenere lo status quo e fermare l'emorragia di consensi che cominciava ad essere pesante, specialmente in concomitanza con le inchieste sulla corruzione». Ed alla domanda "Ha qualche idea circa l'identità di questi politici?" ha risposto: "Non è un discorso che può esaurirsi in una intervista. Le posso dire che quegli apparati infedeli tentarono il colpo grosso, nel 1989, con la bomba all'Addaura contro Giovanni Falcone. Gli andò male, ci riprovarono con successo tre giorni (sic! anni) dopo a Capaci".
Lei ha riferito anche al giornalista La Licata che "il giorno dell'Addaura andai da Falcone e gli chiesi: "Chi è stato?" Giovanni mi ripose con la sua solita ironia: "Ti potrà sembrare letterario e retorico, ma è stata proprio la prima persona che mi ha telefonato per darmi la solidarietà e ti dico che nel ricevere quella telefonata mi è sceso un brivido luogo la schiena". Ovviamente è inutile che mi chieda il nome del portatore di solidarietà".
Orbene, può riferirci:
l) chi blandiva, ed in che modo, il dott. Parisi?
2) chi seguiva la via maestra dei pentiti, e chi, invece, quella dei confidenti?
3) Chi erano i "fior di delinquenti" di cui parla, "capaci anche di uccidere"?
4) Quali erano le coperture politiche che avevano, e che in quegli anni cominciavano ad essere perdenti? In cosa consistevano queste coperture?
5) Perché collega l'attentato all'Addaura con queste "coperture politiche"?
Risposta:
Come ho già detto PARISI cercava una mediazione col gruppo del SISDE che faceva capo al dott. CONTRADA.
Allorquando faccio riferimento all'uso dei confidenti, come ho detto, intendo riferirmi a quegli ambienti dell' Arma dei carabinieri che faceva capo al colonnello MORI.
Con l'espressione i "delinquenti... capaci di uccidere" intendo riferirmi, come ho detto, al gruppo di CONTRADA, le cui coperture politiche erano assicurate dal gruppo andreottiano.
Il collegamento tra il gruppo andreottiano e l'ADDAURA deriva dal fatto che, dopo il fallito attentato, mi incontrai col dott. FALCONE, cui chiesi la sua opinione su quanto era avvenuto.
Ricordo che il dott. FALCONE mi disse, scherzando, che subito dopo l'attentato era stato contattato per primo dal Presidente ANDREOTTI e, cambiando espressione e divenendo serio, mi disse pure che gli era corso un brivido lungo la schiena.
Faccio riferimento a questo episodio, poiché, secondo la mia analisi - condivisa peraltro anche dal dott. FALCONE con il quale ne parlai moltissime volte - era la parte politica che faceva capo al Presidente ANDREOTTI quella che garantiva copertura politica a quegli ambienti istituzionali di cui sto parlando, in special modo del gruppo di CONTRADA.
Ancora, devo precisare che il colloquio con FALCONE sull'ADDAURA avvenne non il giorno dopo, ma alcuni giorni dopo l'attentato.
Ricordo che parlai con FALCONE dei possibili mandanti, e lui mi disse che nel 1989 aveva con la dott.ssa DAL PONTE delle indagini che riguardavano un gruppo di imprenditori del nord, tra cui tale TOGNOLI.
Domanda: Lei ha riferito anche al giornalista La Licata che le stragi del 1993 furono "il proseguimento coerente di quel disegno e proprio le cosiddette trattative, i contatti anomali aprirono la strada all'eversione mafiosa, ancora una volta protetta da false analisi e depistaggi come quello - sostenuto da Sismi e Sisde - che, nell'immediatezza degli attentati di Roma, Firenze e Milano, invitavano a indagare sulla criminalità colombiana, balcanica o sul terrorismo internazionale. Solo la Dia indicò la pista inconfondibile del terrorismo mafioso".
A quali depistaggi fa esattamente riferimento? Perché SISMI e SISDE dovevano "depistare"? Può fornirci maggiori particolari? Perché dice che le trattative aprono la strada all' eversione mafiosa?
Risposta: Mi riferisco proprio ai servizi segreti, e ricordo che nell'ambito di alcune riunioni governative e/o investigative, pervenivano le dette fantasiose ricostruzioni su possibili mandanti esteri delle stragi.

Sebbene i magistrati nisseni ci tengano a precisare che si tratti solo delle “deduzioni di uno studioso” appare di grande interesse l’analisi e soprattutto il fatto che Arlacchi attribuisca quel tipo di ragionamento anche a Falcone e Borsellino.
Non possiamo dimenticare che Falcone in riferimento allo scampato attentato all’Addaura ma anche in altri contesti, aveva parlato di “menti raffinatissime” e di “gioco grande” e persino di “ibridi connubi tra centri di potere occulto e settori devianti dello Stato” intendendo evidentemente riferirsi non certamente alla sola attività criminale di Cosa Nostra tanto che indicò senza indugi una “saldatura di interessi” dietro la sua condanna a morte.
Non sono perciò del tutto peregrine sue possibili considerazioni su giochi di potere, confidenti al limite della legalità e trattative vecchie e nuove di ogni risma delle quali era certamente a conoscenza, anche per le dichiarazioni fuori dai denti di Buscetta.
Ed è altrettanto noto che Paolo Borsellino era consapevole, come riportato nel documento in questione nelle parole della moglie Agnese, che Cosa nostra lo avrebbe ucciso anche su mandato di altri.
Non è difficile capire quindi con quanto sgomento avesse appreso di qualcuno che lo voleva tradire, qualcuno appartenente a quello Stato per il quale lui era disposto a dare la vita.
I magistrati suppongono che potesse trattarsi del generale Subranni perché il giudice aveva confidato alla moglie di aver saputo che era “punciuto”, cioè affiliato a Cosa nostra e in conseguenza alle testimonianze dei giovani colleghi Camassa e Russo, ma nessuna ipotesi di reato è stata formulata, per ora.
Certo, sarebbe stato tutto più semplice per i pm se avessero avuto la certezza della veridicità delle dichiarazioni di Arlacchi. Tuttavia chiesto il riscontro di tutti quei discorsi in libertà all’odierno capo dei servizi segreti Gianni De Gennaro si sono sentiti rispondere in questo modo, come riporta il verbale del 15 dicembre 2010.

Devo premettere che conosco molto bene l'on. ARLACCHI, che in quel periodo tra l'altro aveva anche svolto funzioni di consulente per la D.I.A.
Ritengo tuttavia che l’on. ARLACCHI abbia riferito di scambi di opinioni avvenute nel mio ufficio nel periodo di cui trattasi, ma mai avutesi in questi termini. Escludo che io possa aver detto che il gruppo andreottiano era il gruppo di riferimento di cosa nostra, e posso al più aver formulato una mera deduzione in conseguenza dell'omicidio LIMA, ma mai come valutazione conseguente a risultanze investigative. Non ho mai avuto contrapposizioni con alcuno, sono, anzi, amico da tempo del Gen. MORI; con lo stesso non ho mai discusso dei suoi rapporti o contatti con Vito CIANCIMINO, anche perché, come è noto, v'è sempre stata “sana competizione” tra forze di polizia diverse, il che comporta un naturale riserbo circa le indagini che ciascuna forza di polizia sta conducendo.
Sui miei rapporti con CONTRADA sono sempre circolate chiacchiere, ma con lo stesso non ho mai avuto contrapposizioni; so che anche la moglie di CONTRADA ha reso dichiarazioni amareggiate che sembravano far riferimento alla mia persona, ma posso dire che forse conservo ancora un telegramma di auguri affettuosi che CONTRADA mi mandò.
Con CONTRADA non ho mai lavorato, così come con MORI quando era al SISDE ma ribadisco non sono mai stato in contrapposizione con costoro, al più vi possono essere state divergenze di opinione sui metodi investigativi, ma mai legate a circostanze specifiche.
Le dichiarazioni del prof. ARLACCHI costituiscono frutto di sue opinioni, ma non costituiscono il risultato di mie valutazioni, in special modo laddove egli riferisce che il gruppo andreottiano, tramite il gruppo CONTRADA, fosse uno dei terminali della trattativa. Inoltre, a quel tempo non avevo mai nemmeno sentito parlare di Marcello DELL'UTRI, così come escludo che il prefetto PARISI mi abbia mai dissuaso dal proseguire nella mia azione intransigente nei confronti di Cosa Nostra. Sono certo che MORI e PARISI si conoscessero, ma non so se quest'ultimo abbia mai appreso da MORI dei suoi contatti con Vito CIANCIMINO.
In buona sostanza, le dichiarazioni di ARLACCHI costituiscono il frutto di valutazioni dello stesso, anche se non posso certamente dire che si tratti di dichiarazioni false”. 

Insomma secondo De Gennaro le dichiarazioni di Arlacchi forse non sono false ma non sono neanche vere. I due che si conoscono da lungo tempo avranno forse anche chiacchierato del più e del meno, ma a vent’anni dalla morte dei loro fraterni amici dicono l’uno il contrario dell’altro. Alle affermazioni gravissime di Arlacchi corrisponde la doccia gelata di De Gennaro che oltre a smentirlo su tutta la linea ridimensionando la rivalità con il Ros in “sana competizione”, arriva persino a lanciare un messaggio di “conforto” a Contrada, un condannato in via definitiva sul cui operato, è risaputo, Falcone e Borsellino nutrivano ben più di un dubbio.
A questo punto chiediamo al prefetto Gianni De Gennaro, capo dei servizi segreti italiani e al deputato europeo Pino Arlacchi, a nome di tutti i cittadini onesti in cerca della verità e in memoria del sangue versato da Falcone e Borsellino, vostri amici:
Chi è bugiardo, chi ha mentito all’autorità giudiziaria? Lei prefetto Gianni De Gennaro? O Lei onorevole Pino Arlacchi? Gli italiani vogliono sapere la verità.

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