A parlare è Calogero Sortino che racconta dello scontro tra i due magistrati per il “Protocollo Farfalla”
Dopo la recentissima inchiesta della procura di Caltanissetta nella quale è emersa la presunta appartenenza di Giovanni Tinebra a una loggia massonica deviata, nuovi, inediti aspetti emergono sulla figura dell’ex procuratore della repubblica nissena. A rivelarli è Calogero Sortino, maresciallo in pensione e in passato collaboratore dell'ex procuratore, che mesi fa sarebbe stato sentito dagli inquirenti che indagano sui depistaggi sulla strage di via d'Amelio e in passato a Perugia nell'ambito dell'inchiesta sulla ''Loggia Ungheria''. Avrebbe depositato una memoria raccontando di essere stato "testimone diretto per oltre dieci anni di un aspro conflitto" tra Tinebra e uno dei suoi più stretti collaboratori al Dap, l’attuale procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita. "Dopo un'iniziale collaborazione Tinebra e Ardita si scontrarono aspramente, in particolare sul cosiddetto Protocollo farfalla che consentiva agli uomini dei servizi segreti interni, guidati allora dal generale Mario Mori, di avere libero accesso ai collaboratori di giustizia", si legge nel quotidiano 'La Verità'. "La tensione peggiorò sempre di più specie dopo il pentimento di un mafioso di spicco, Nino Giuffrè. Il dottor Tinebra si lamentò del fatto che il dottor Ardita non lo aveva informato. Mi ordinò di non frequentarlo e di cancellare anche il suo numero telefonico dalla mia rubrica". La situazione presto precipitò: "Da quel momento iniziò il tentativo di controllare i dati e le informazioni dell'ufficio detenuti (guidato dal magistrato catanese, ndr) da parte dello staff del capo dipartimento, anche attraverso un utilizzo anomalo della sala situazione". Sul tema Sortini è un fiume in piena. "Un giorno notai che sulla strada dal lato della stanza del dottor Ardita era parcheggiato" un mezzo con a bordo "un GA900 (conoscevo bene quell'apparato per intercettazioni perché era in dotazione al mio reparto dei carabinieri in cui io ero effettivo). Quell'autovettura rimase lì diversi giorni. Percepii quel fatto come una cosa grave potenzialmente ai danni del dottor Ardita e informai subito il dottor Tinebra di questo episodio. Lui minimizzò quella notizia negando addirittura la presenza dell'auto". Il maresciallo, nella memoria, ribadisce che in questo scontro "era il dottor Ardita ad avere sempre operato in modo legittimo".
A un certo punto Tinebra avrebbe cercato "in tutti modi di recuperare un rapporto anche di facciata con il dottor Ardita”, ma questi avrebbe declinato tutti gli inviti, rifiutandosi anche di partecipare al matrimonio di Tinebra. Che non la prese bene. "In una circostanza per rabbia mi disse di cancellare il suo numero dalla rubrica, che io gli gestivo", ha precisato Sortino.
Giovanni Tinebra © Imagoeconomica
Sentito dall’AdnKronos Ardita si dichiara non sorpreso dalla ricostruzione dell’ex collaboratore di Tinebra: ''Non mi stupisce quel che riporta 'La Verità' perché quando dirigevo l'ufficio detenuti del Ministero della Giustizia, sulla base di alcuni fatti ho avuto il sospetto di essere intercettato illegalmente. Di questo pericolo di intercettazioni illegali, di un dossieraggio anonimo cui ero stato sottoposto e del clima invivibile che si era determinato per me al Dap in quel periodo ebbi a parlare con alcuni soggetti istituzionali, ma senza ottenere alcun risultato concreto, ad eccezione delle iniziative della Procura di Roma. Mi auguro che si riesca a sapere se qualcuno aveva ordinato ed effettuato quelle intercettazioni illegali; chi ne trasse beneficio e chi ne fosse a conoscenza nel mondo istituzionale. Spero che si faccia luce su tutti gli altri gravi tentativi di condizionare la gestione penitenziaria e che si comprenda bene - afferma ancora Ardita - quale grave rischio di inquinare i processi e di depistare comportassero quelle manovre illegali''.
L’incompatibilità della signora Colosimo come presidente dell’Antimafia
Quest’ultima vicenda delle intercettazioni su Ardita ai tempi del Dap guidato da Tinebra e del “Protocollo Farfalla”, coordinato e comandato dal capo del Sisde di allora (il gen. Mario Mori) è di estrema gravità.
Qualche anno fa i magistrati che indagavano sulla trattativa Stato-mafia, ritrovarono un documento di sei pagine stilato nel 2004 tra il Dap ed il Sisde in cui non compaiono timbri, intestazioni o firme ma una semplice dicitura “Riservato”. La procura di Palermo, oltre al protocollo, aveva trovato anche un elenco di boss che avevano dato una “disponibilità di massima a fornire informazioni”. Una decina di detenuti appartenenti a Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita, che in quel momento erano quasi tutti in regime di 41 bis.
Ricordiamo che il “Protocollo Farfalla” aveva lo scopo, occulto, di controllare i detenuti al 41bis e stringere con loro un rapporto informativo senza il controllo di legalità da parte della magistratura. In pratica, qualsiasi notizia proveniente dai detenuti in regime di 41 bis, sarebbe stata girata dall’amministrazione penitenziaria direttamente agli 007, senza informare i pm competenti, come invece previsto dalla legge. Non solo. Si permetteva l'ingresso totale dell'intelligence nelle carceri. Magari anche per lanciare segnali ed impedire, con l’intimidazione, che un capo di Cosa nostra a conoscenza di misteri inconfessabili, come Salvatore Biondino o i fratelli Graviano, potesse collaborare con la giustizia. Come racconta Sortino, Tinebra divenne particolarmente irascibile quando si pentì Giuffrè. L’ex collaboratore del procuratore di Caltanissetta ha rivelato che si infuriò perché Ardita non lo avrebbe informato della scelta del boss al tempo. La realtà, però, è che molto probabilmente Tinebra si arrabbiò, anzitutto, perché Giuffré svelò segreti scottanti sugli anni ’90. In un certo momento, rammentiamo, il pentito parlò di “toccatine di polso” in merito alle stragi. Va sottolineato che il “Protocollo Farfalla” è qualcosa di ancor peggiore della trattativa Stato-mafia per certi aspetti, perché è servito a minacciare i boss in carcere per non farli parlare.
Chiara Colosimo © Imagoeconomica
Una porcata, un atto diabolico dello Stato. Ci sono fatti su cui, ancora oggi, non sappiamo tutta la verità e che, potenzialmente, potrebbero rientrare proprio all'interno di certe attività.
Come dimenticare Bernardo Provenzano, che di fatto fu picchiato in carcere dopo aver manifestato la volontà di parlare. Oltre al sacchetto di plastica rinvenuto in cella che avrebbe potuto essere usato per togliersi(gli) la vita. Anche Giuffré fu “invitato”, ma in maniera più esplicita, al suicidio. “Sono stato oggetto, per due volte, dell’invito a mettermi un sacchetto di plastica in testa, un invito a suicidarmi”, raccontò nel 2015 al processo Mori-Obinu. Misteri su misteri. Come quelli che in un certo periodo hanno riguardato le manovre per appoggiare la “dissociazione” dei mafiosi. Fu il caso del boss, mai pentito, Salvatore Biondino. Arrivò addirittura a presentare domanda per svolgere il lavoro di scopino all’interno della sua sezione a Rebibbia. Una richiesta insolita: il braccio destro di Riina era disposto a svolgere una mansione squalificante per il suo rango pur di circolare più liberamente nel carcere dove erano rinchiusi i boss che - insieme a Pippo Calò - un anno e mezzo fa tentarono di avviare una trattativa con lo Stato per ottenere la dissociazione. Un fatto raccontato da Alfonso Sabella (fino al 2001 Capo dell'ufficio ispettorato al Dap anno in cui viene cacciato dal nuovo capo Giovanni Tinebra, da poco insediatosi a capo del Dipartimento al posto di Gian Carlo Caselli). “Nell’ottobre del 2001 - diceva Sabella - mi telefona mia sorella Marzia, pm antimafia a Palermo. Mi dice che le è giunta da Rebibbia una richiesta di nullaosta per Salvatore Biondino, che vuole lavorare come ‘scopino’ in carcere, così la direzione del penitenziario chiede l’autorizzazione a tutte le procure che si occupano di lui. Chiedo un po’ in giro, e scopro che, facendo lo scopino, Biondino avrebbe libero accesso alle celle di Aglieri, Farinella, Madonia e Buscemi, i quattro ideologi della dissociazione. Avverto mia sorella che nega l’autorizzazione a Biondino e blocca tutto. Subito dopo stilo una relazione al mio nuovo capo, Tinebra, e suggerisco di allertare la polizia penitenziaria perché impedisca contatti anche casuali tra i boss coinvolti nel progetto dissociazione”. Una lettera morta, di fatto. E poco tempo dopo Tinebra soppresse l'ufficio di Sabella revocandogli l'incarico. I contatti tra boss e servizi, regolati da quell’accordo tra Dap e Sisde privo di firme e timbri, sono rimasti segreti per anni. Venendo al dunque, la vicenda delle intercettazioni contro Sebastiano Ardita (o il tentativo di intercettarlo) rappresenta l’ennesimo scandalo da aggiungere al corollario di scandali in cui è incappato Mario Mori. La presidente della Commissione Antimafia Chiara Colosimo, che ha scambiato Mori per oracolo di verità sulle stragi facendosi da questo pilotare nelle audizioni e nella scelta dei consulenti, già “inciampata” precedentemente nello scatto con il terrorista Ciavardini, non ha altra scelta dopo questo grave ed imbarazzante scandalo. Dimettersi e chiudere una volta per tutte la storia di questa Commissione antimafia farsa.
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