Nelle sentenze la loro condanna morale
In due atti, il primo lo scorso 16 aprile ed il secondo il 13 maggio, davanti al “Teatro dell'assurdo” della Commissione parlamentare antimafia, presieduta dalla signora Chiara Colosimo, in rapporti amicali (come testimonia l'ormai nota foto dei due sottobraccio) con il terrorista stragista dell'eversione di destra Luigi Ciavardini (esponente del gruppo eversivo neofascista dei Nar, condannato definitivamente per l'omicidio del poliziotto Francesco Evangelista e del magistrato Mario Amato e ovviamente per la strage della stazione di Bologna), è andata in scena l'audizione degli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno.
Con grande attenzione abbiamo sentito le mirabolanti avventure dei due “paladini” di questa maggioranza di Governo che da tempo ha deciso di riscrivere la storia delle stragi d'Italia e cancellare ogni elemento che dimostra come dietro quelle stragi ci sono uomini potenti della politica, della massoneria e, per l'appunto, della destra eversiva.
Da tempo la Commissione antimafia della Colosimo (che non capiamo cosa aspetta a dimettersi visto il palese conflitto di interessi) ha deciso di parcellizzare ed atomizzare la storia delle stragi concentrandosi unicamente su quella di via d'Amelio seguendo l'unico filone del possibile interesse di Paolo Borsellino per la nota inchiesta “Mafia-appalti”.
Una richiesta che era giunta da tempo dallo stesso Mario Mori che si era recato personalmente con l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli del giudice Borsellino, ed una delegazione del Partito radicale, per “esprimere solidarietà dopo le critiche sulla sua elezione” ed auspicare “un cambio di gestione politica della commissione antimafia che tenga anche conto di alcuni membri che sono in palese conflitto di interessi rispetto ai loro compiti precedenti”.
Detto fatto, ecco che i membri della maggioranza di Governo si sono scatenati, con tanto di disegno di legge proposto per allontanare dalla Commissione antimafia i magistrati Roberto Scarpinato e Federico Cafiero de Raho.
In particolare il primo è una figura da colpire, come ricordato dal sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, con l'obiettivo di “neutralizzare chi, per le conoscenze e le esperienze maturate in tanti anni di indagini e processi, può mettere in crisi la rassicurante versione per la quale le stragi furono frutto esclusivo del delirio di onnipotenza di Salvatore Riina e magari di qualche imprenditore in odore di mafia".
Una versione di comodo che i vari Mori e De Donno vorrebbero far passare con prepotenza ed arroganza a colpi di pubblicazioni (basta leggere gli ultimi libri) ed ora anche di fronte all'organo parlamentare di inchiesta più importante.
Cosa grave, come emerso in queste audizioni, è che la realtà viene distorta anche con elementi “falsi e depistanti”.
Dalla conoscenza dei fatti emersi in questi anni di inchieste e processi appare evidente come ciò avviene in quanto necessario a coprire “l’improvvida iniziativa” - come l'aveva definita la Corte d’Appello di Palermo del processo trattativa Stato-mafia - di contattare Riina, generando una catena di eventi che portò all’attentato di via d’Amelio.
Nella relazione depositata dal Movimento Cinque Stelle vengono messe in evidenza tutte le aberrazioni della ricostruzione di Mori e De Donno su quanto avvenuto in quei primi anni Novanta.
Giuseppe De Donno, Mario Mori e Chiara Colosimo
I fatti nelle sentenze
La storia non si può cancellare. E la storia dice che Mori non è stato un buon servitore dello Stato. E' scritto proprio nelle sentenze, a partire da quelle di assoluzione tanto amate dai due ex ufficiali del Ros.
Pensiamo, ad esempio, al processo sulla mancata perquisizione del covo di Riina, in cui Mori era imputato assieme a Sergio De Caprio, anche noto come capitano Ultimo.
Nelle motivazioni della sentenza si parla di evidenti pecche operative, compiute nella scelta di non perquisire immediatamente il covo di via Bernini.
E' noto che la magistratura fu convinta a non effettuare la perquisizione dicendo che avrebbero fatto l'osservazione del covo, ma che le telecamere furono staccate dopo appena poche ore e non informarono le autorità competenti, sottraendosi al controllo di legalità della magistratura.
Così, quando il 2 febbraio venne fatta la perquisizione, gli inquirenti trovarono il rifugio del boss completamente ripulito, con mobili ammassati in una stanza, la cassaforte smurata, le pareti imbiancate e perfino le tappezzerie ed i rivestimenti staccati, per eliminare eventuali tracce di Dna.
Non solo.
Anche la sentenza d'appello che ha assolto "perché il fatto non costituisce reato" Mori ed il colonnello Obinu, per il mancato blitz a Mezzojuso, dove si nascondeva Bernardo Provenzano, non era poi così tenera.
In quella sentenza, divenuta definitiva, il collegio presieduto da Salvatore Di Vitale aveva scritto che "la scelta di privilegiare qualsiasi altra esigenza investigativa rispetto al pericolo che il covo fosse ripulito appare davvero non adeguata per volere usare un eufemismo".
Sempre in quella sentenza, proprio per il mancato arresto di Provenzano, si legge che: “Le scelte tecnico-investigative adottate dagli imputati (soprattutto quelle di non curare adeguatamente gli spunti investigativi emersi dall'incontro di Mezzojuso), a maggior ragione ove si consideri che esse vennero adottate da esperti Ufficiali di Polizia giudiziaria, inducono più di un dubbio sulla correttezza, quantomeno dal punto di vista professionale, dell'operato dei due e lasciano diverse zone d'ombra che il dibattimento, nonostante lo sforzo profuso dalla Pubblica Accusa, non è riuscito a dipanare".
Questi elementi vengono continuamente taciuti o sminuiti. E' nostro dovere ricordarli così come le ombre sul passato di Mori quando si trovava in servizio al Sid (Servizio Informazioni difesa, ex Sismi, attuale Aise, ndr) emerse da svariate inchieste. Ma evidentemente c'è chi si accontenta dell'assoluzione anche quando viene dimostrata l'inettitudine nel proprio lavoro.
Mario Mori e, sullo sfondo, Vito Ciancimino
Condanna morale
Ciò che più di ogni altra cosa però dovrebbe ammutolire questi “sepolcri imbiancati” è la condanna morale che altre sentenze definitive hanno fatto sul loro operato nel contatto con il sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino.
Basta leggere la sentenza definitiva sulle stragi del 1993, scritta dai giudici di Firenze: “L’esame congiunto di ciò che hanno detto testi e collaboratori dimostra in maniera indiscutibile che nella seconda metà del 1992 vi fu un contatto tra il Ros dei Carabinieri e i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino (…) iniziativa del Ros - perché di questo organismo si parla posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante, lo stesso comandante del reparto - aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa. L’effetto che ebbe sui mafiosi fu quello di convincerli definitivamente che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Questa iniziativa al di là delle intenzioni con cui fu avviata (…) ebbe sicuramente un effetto deleterio per le istituzioni confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato”.
E allora vengono in mente le parole dell'avvocato dell'Associazione Familiari Vittime dei Georgofili, Danilo Ammannato, nella sua arringa al processo Trattativa: “Se Mori non fosse andato da Vito Ciancimino ci sarebbe stata la strage di Firenze? La risposta è logica. Mario Mori e gli altri carabinieri del Ros imputati sono moralmente responsabili della strage dei Georgofili. Sono moralmente responsabili del sangue di quei 5 morti e dei 48 feriti. La strage di Firenze, infatti, non ci sarebbe stata se Mori e i suoi non fossero andati a trattare con Riina. Perché fu proprio la trattativa a rafforzare la volontà stragista dei corleonesi. Un dato che è scritto (come abbiamo visto, ndr) anche in sentenze passate in giudicato”.
Una condanna morale ed etica che resterà impressa nella memoria di tutti coloro che non vogliono dimenticare.
Forse per figure come Mori sarebbe stata meglio un'eventuale detenzione “ingiusta” (come certamente la definirebbe), anziché avere degli epiteti sulla sua carriera che rimarranno ai posteri ed ai giovani.
Altro che eroe e servitore dello Stato, dunque. Noi non dimentichiamo e continuiamo a denunciare i fatti con forza.
Anche di fronte le burle e le intimidazioni.
Nella prima delle loro audizioni, e lo ringraziamo per la pubblicità, il colonnello De Donno, ha voluto anche indicare la mia persona non mettendo in evidenza eventuali imperfezioni o inesattezze nelle indagini o negli approfondimenti che ANTIMAFIADuemila ha condotto su vicende come la trattativa Stato-mafia, ma con parole irrispettose su quella che è la mia vita privata.
E' vero mi dichiaro credente in Gesù Cristo, figlio di Dio, e credo che ci sia vita nell'Universo. Sono considerato un eretico perché affermo di vivere delle esperienze, nel mio corpo e nella mia anima, che scandalizzano i luoghi comuni e dichiaro di aver avuto un'esperienza di fede a Fatima con la Santa Madre Maria.
Mario Mori e Basilio Milio
Un tentativo, quello di De Donno, accompagnato dai sorrisetti della signora Colosimo, di screditare il lavoro che da anni conduco come giornalista che si occupa di cronaca giudiziaria, mafie e sistemi criminali. Anche la nostra testata fa parte di quei media che hanno avuto l'ardire di raccontare i fatti e fare domande. Siamo stati anche citati durante il processo Stato-mafia nel corso dell'arringa di primo grado, dal legale di Mori, Basilio Milio.
Un modo, per i due ex ufficiali dell'Arma di indicare i propri “nemici”. Qualche anno addietro sempre il solito Mori in un'intervista aveva dichiarato: “Io sono molto reattivo: mi curo per vivere a lungo, perché devo veder morire qualcuno dei miei nemici”.
L'arroganza con cui si è presentato, anche non rispondendo a certe domande, in Commissione antimafia dimostra che la pensa ancora così.
Prossimamente è stata annunciata una nuova audizione per i due militari. Se hanno un briciolo di dignità, anziché dire menzogne o mezze verità, dovrebbero spiegare una volta per tutte perché, quando andarono da Ciancimino chiesero cosa fosse, al tempo delle stragi, quel "muro contro muro" e se si "potesse parlare con questa gente qua (i mafiosi, ndr)". Altro che dialogo per convincere l'ex sindaco di Palermo a collaborare con la giustizia e parlare di mafia e appalti.
Foto © Imagoeconomica
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