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di Giorgio Bongiovanni

Riscrivere la storia, omettere fatti e nascondere le verità fin qui emerse che riguardano le stragi. E' ormai evidente la mission di governo ricevuta dalla Presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo. Un intento reso ancor più palese dopo l'intervento nel dibattito su '57 giorni nel nido di vipere: verità sulle stragi del 1992 - La via italiana nella lotta alla mafia e alla criminalità organizzata' ad Atreju, l’evento di Fratelli d’Italia voluto da Giorgia Meloni. 
A supportarla l'avvocato Fabio Trizzino, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, nonché genero del giudice; Luciano Violante (già Presidente della Camera dei deputati e già Presidente della Commissione Antimafia), Piero Sansonetti (giornalista, direttore de L'Unità); Raul Russo (Senatore FdI, Componente della Commissione parlamentare  di inchiesta sul fenomeno delle mafie).
Tra il pubblico, a pochi passi da Lucia Borsellino, non vi erano solo rappresentanti di Governo, ma anche quelli che, al di là delle sentenze di assoluzione, possiamo considerare servi infedeli dello Stato come il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno, che oggi scrivono libri che allontanano dalla verità sulle stragi. Mori che è stato salutato pubblicamente proprio dalla Colosimo all'inizio del suo intervento.
Nel dibattito non si è parlato in maniera profonda della strage di via d'Amelio, dei cinquantasette giorni che l'hanno separata da quella di Capaci, e degli elementi gravi che sono emersi in anni di indagini e processi sulla presenza di mandanti e concorrenti esterni.
Per lorsignori le stragi sono un fatto di mafia, legato all'interesse che Cosa nostra aveva nel mondo degli appalti; le stragi del 1993 non esistono e se esistono sono slegate da quelle delle 1992 (altrimenti in Commissione antimafia si allargherebbero gli orizzonti investigativi); le responsabilità di depistaggi e mancate verità sono da ricercare solo nella magistratura.
Ogni intervento, come quasi un mantra, puntava il dito contro due figure: Roberto Scarpinato e Nino Di Matteo. Il primo nominato in maniera diretta ed esplicita. Il secondo con riferimenti più o meno velati, ma altrettanto chiari.
Magistrati che qualcuno, come era avvenuto negli anni delle indagini sul processo trattativa Stato-mafia, ha anche accusato di eversione.
Anche in questo modo si vuole allontanare il Paese dalla verità. Mistificandola, omettendo importantissimi elementi e facendo credere che in questi trent'anni nulla è stato fatto.
Non è vero. E' una grande menzogna che delle stragi non sappiamo nulla.
Il processo più importante per la ricerca della verità per capire ciò che è accaduto su via d'Amelio non sono tanto il Borsellino primo e il Borsellino bis (con quest'ultimo che solo in parte è stato oggetto di revisione), ma il Borsellino ter, totalmente ignorato da tutti i relatori.
E' in quel processo,  condotto dai magistrati Nino Di Matteo ed Anna Maria Palma, che emergono i primi spunti sui mandanti esterni.
Vennero condannati in via definitiva boss del calibro di Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Michelangelo La Barbera, Cristoforo Cannella, Filippo Graviano, Domenico Ganci, Salvatore Biondo (classe '55) e Salvatore Biondo (classe '56).
E' in quel processo che emerse, con la deposizione del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, l'esistenza della trattativa Stato-Mafia.
La signora Colosimo, l'avvocato Trizzino e tutti gli altri non lo dicono, ma nella sentenza di primo grado la corte scriveva: “Risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare” una “forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica”.
Ricostruzioni basate sui pentiti come Pulvirenti, Malvagna, e, non da ultimo, Cancemi, il quale, si legge nella sentenza di primo grado, ha dichiarato come “Riina era solito ripetere che con quelle azioni criminose avrebbero messo in ginocchio lo Stato e mostrato la loro maggiore forza. E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia”.
Proprio Cancemi ha raccontato che Riina era stato “accompagnato per la manina” nell’organizzazione di quelle stragi.
Sempre nel Borsellino ter il boss di Porta Nuova fece anche i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri affermando che Riina li indicava come soggetti da appoggiare "ora e in futuro" rassicurando gli altri boss della Cupola che la strage Borsellino sarebbe stata alla lunga "un bene per tutta Cosa nostra".
Quegli stessi Dell'Utri e Berlusconi che sono finiti indagati dalla Procura di Firenze (con l'indagine condotta dal procuratore aggiunto Luca Tescaroli, assieme al pm Luca Turco) come mandanti esterni delle stragi del 1993.
Indagini che sono andate avanti anche se Berlusconi, oggi deceduto, è uscito di scena.
Eppure i Sansonetti di turno, libellisti del potere, continuano a gridare allo scandalo.


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Fabio Trizzino © Imagoeconomica

Oltre il depistaggio Scarantino

E' stato certamente riscontrato che sulla strage di via d'Amelio c'è stato grande depistaggio.
Sicuramente ci sono state delle responsabilità degli investigatori e sullo sfondo si intravedono responsabilità anche all'interno della magistratura (a cominciare dall'anomala richiesta del Procuratore capo Tinebra fatta a Contrada affinché il Sisde indagasse sull'attentato di via d'Amelio) ma non si possono mettere tutti dentro lo stesso calderone.
Certamente responsabilità non ha Nino Di Matteo, che da sostituto procuratore si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel "Borsellino bis" (dove entrò a partire dal novembre 1994 a dibattimento già avviato, ndr).
Spesso si dimenticano fatti che pesano come macigni.
Ilda Boccassini, che, nell'ottobre 1994, mandò una lettera scritta a quattro mani con il collega Roberto Saieva, in cui venivano avvisate le Procure di Caltanissetta e Palermo sui dubbi che riguardano il "picciotto della Guadagna", al tempo collaboratore di giustizia ed oggi "falso pentito", nel luglio 1994, assieme a Giovanni Tinebra, era di ben altro avviso.
Basta andare a risentire la conferenza stampa relativa all’arresto degli indagati nel procedimento “Borsellino Bis”. 
In quella occasione tanto le sue parole, quanto quelle di Tinebra, non lasciavano molti spazi a dubbi sull’attendibilità di Vincenzo Scarantino. “I collaboratori di giustizia sono una realtà essenziale per il paese - aveva affermato la Boccassini - Lo ha dimostrato ancora una volta l’indagine sulla morte di Paolo Borsellino. Ma è arrivata, lo ripeto, questo concetto va ripetuto fino alla noia, perché vi erano già delle indagini che hanno consentito di valutare appieno quello che Scarantino Vincenzo ci diceva”.
La vicenda Scarantino diventa complessa nel momento in cui vero e falso vengono mescolati in maniera inquietante e drammatica.
Sono gli stessi giudici di primo grado del Borsellino quater a ricordare come le dichiarazioni dello Scarantino "pur essendo sicuramente inattendibili, contengono elementi di verità".
Basti pensare che il "falso pentito" Scarantino aveva indicato come partecipi della fase cruciale della strage le medesime persone di cui ha successivamente parlato il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, autoaccusatosi del furto dell'auto utilizzata per la strage di via d'Amelio.
Scarantino, infatti, dice che quando la macchina viene portata nel garage per essere imbottita di esplosivo c'erano Graviano, Tagliavia e Tinnirello, così come poi dirà in perfetta coincidenza Spatuzza.
Quello Spatuzza che ha parlato della presenza di un uomo che non apparteneva a Cosa nostra: un soggetto esterno.
Ebbene, un altro falso pentito, Andriotta, aveva riferito al tempo di aver saputo da Scarantino che era presente anche un uomo che non era di Cosa nostra, uno specialista di esplosivi italiano.
Ma altri elementi di verità compaiono nelle indicazioni date da Scarantino sul furto dell'auto, avvenuto mediante la rottura del bloccasterzo, ed aveva aggiunto di avere appreso che sull’autovettura erano state applicate le targhe di un’altra Fiat 126, prelevate dall’autocarrozzeria dello stesso Orofino, e che quest’ultimo aveva presentato nel lunedì successivo alla strage la relativa denuncia di furto.
Ebbene si tratta di circostanze che sono "del tutto corrispondenti al vero ed estranee al personale patrimonio conoscitivo dello Scarantino, il quale non è stato mai coinvolto nelle attività relative al furto, al trasporto, alla custodia e alla preparazione dell’autovettura utilizzata per la strage" che successivamente saranno anche raccontate da Gaspare Spatuzza.
Ciò significa che al tempo era tutt'altro che semplice screditare le dichiarazioni del picciotto della Guadagna.
Non una parola di tutto questo nel dibattito della signora Colosimo.


Mafia-appalti centro di gravità

L'unica verità sostenuta da lorsignori è quella che riguarda la pista mafia-appalti, la Calcestruzzi spa e quant'altro.
Lo ripetiamo per l'ennesima volta: l'inchiesta mafia-appalti, seppur di interesse, non è certamente decisiva per spiegare ciò che avvenne nel 1992.
Il filo che lega la Calcestruzzi Spa, il gruppo Ferruzzi-Gardini e la mafia può dare una spiegazione, forse, assieme a ciò che stava emergendo nell'inchiesta Mani-Pulite, sul perché Raul Gardini, trent'anni fa, decise di togliersi la vita. E' noto che avrebbe dovuto essere interrogato da Antonio Di Pietro sulle tangenti ai politici per favorire Enimont, la joint venture tra Montedison ed Eni, ma ciò non basta a segnare un punto di non ritorno.
Ma l'idea generale è quella di porre sotto accusa i magistrati della Procura di Palermo che archiviarono alcuni filoni investigativi, usando la vicenda per attaccare i magistrati che si sono impegnati nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia e sui sistemi-criminali.
Anche in questo caso vengono mescolati i fatti e taciuti alcuni punti chiave.
L'ex Pg di Palermo, Roberto Scarpinato, ha più volte evidenziato come, dopo l’arresto di sette soggetti indagati tra i quali Angelo Siino, il 13 luglio 1992 era stata richiesta solo l’archiviazione della posizione di alcuni indagati perché a quella data non erano ancora state acquisite prove sufficienti nei loro confronti.
Diversamente era stato fatto lo stralcio della parte più importante della inchiesta che proseguiva e riguardava la gestione di appalti della SIRAP per mille miliardi delle vecchie lire, e che coinvolgeva il livello politico e amministrativo.
Viene sempre taciuto che la prima informativa, depositata dal Ros alla Procura di Palermo il 20 febbraio 1991, a differenza della seconda depositata il 5 settembre 1992, non conteneva nomi di importanti politici come Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi.
Viene dato per assodato che nell'incontro che Borsellino ebbe con De Donno e Mori alla Caserma Carini il 25 giugno 1992 parlarono dell'inchiesta mafia-appalti, senza tener conto che quel dettaglio “fondamentale” a detta degli stessi ufficiali del Ros, fu raccontato solo nel 1997.
Perché il contenuto di questo incontro, oggi ritenuto decisivo per spiegare l'accelerazione della strage di via d'Amelio, per anni è stato taciuto dagli stessi carabinieri?
Forse perché al tempo si parlò d'altro?


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Maria Mori e, sullo sfondo, l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino © Imagoeconomica


Nessuno tra la signora Colosimo, l'avvocato Trizzino ed il direttore de l'Unità Sansonetti si misura con questo dato.
Il tenente Carmelo Canale, ex braccio destro del giudice Borsellino, riferì che quell'incontro sarebbe stato voluto dal magistrato per discutere di altro.
Quando fu chiamato a deporre al processo Borsellino quater, disse che nelle ultime settimane di vita il giudice Borsellino stava cercando di fare luce sull'anonimo, conosciuto come 'Corvo 2', in cui si accennava a una sorta di trattativa che l’ex ministro Calogero Mannino avrebbe avviato con il boss Totò Riina.
Canale raccontò anche che Borsellino chiese di incontrare proprio il 25 giugno del 1992, Giuseppe De Donno, ufficiale del Ros dei carabinieri, perché un collega gli aveva detto che era lui l’autore dell’anonimo in cui si parlava anche di incontri (mai accertati) tra Mannino e Riina avvenuti nella sacrestia di una chiesa.
Ugualmente l'allegra compagnia insiste che al centro delle accuse deve essere posta la Procura di Palermo (utilizzando l'espressione del “nido di vipere” detta dallo stesso Borsellino ai magistrati Russo e Camassa).
E' certo che il Procuratore capo Pietro Giammanco è uno dei massimi responsabili dell'ostracismo e dell'isolamento subito da Giovanni Falcone (prima) e Paolo Borsellino (poi) nel corso degli anni.
Ma se si avesse un minimo di onestà intellettuale si ricorderebbe che quel modus operandi venne fortemente contestato in una lettera firmata da otto componenti della DDA di Palermo (Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Antonio Napoli, Teresa Principato, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi) in cui si diceva, in sostanza, che il Procuratore capo Giammanco non poteva restare alla procura della Repubblica. E gli stessi firmatari si esposero con il Csm a tal punto di minacciare le proprie dimissioni.


Una questione politica

La Colosimo, con l'appoggio dei figli di Borsellino, sceglie di non approfondire quei punti che il senatore Roberto Scarpinato ha segnalato in 57 pagine di documento perché evidenziano possibili legami tra Cosa nostra, ambienti legati alla destra eversiva e 007 italiani ed esteri, massonerie e molteplici interessi che si intrecciano e si amalgamano nel disegno stragista del 1992-'94.
Elementi che emergono in maniera chiara in trentadue anni di processi ed indagini compiute che, se davvero si ha a cuore la ricerca della verità, meriterebbero di essere scandagliati da una Commissione parlamentare seria.


Operazioni cupe

Per chi conosce veramente gli atti è impossibile non vedere 'l'elefante dentro la stanza' (tanto per usare le parole di Scarpinato nel suo intervento dello scorso 19 luglio in via d'Amelio) se si considera che vi è una sentenza passata in giudicato (quella Tagliavia sulle stragi del 1993, ndr) in cui si afferma che la trattativa “indubbiamente ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des” e addirittura che “l’iniziativa fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia”. Si ritennero sufficientemente provati i contatti avvenuti dopo la strage di Capaci tra l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, e il Ros.
Lo stesso ha fatto un'altra sentenza definitiva sulle stragi di Firenze, Roma e Milano. Quella scritta dai giudici di Firenze nel 1998: “L’esame congiunto di ciò che hanno detto testi e collaboratori dimostra in maniera indiscutibile che nella seconda metà del 1992 vi fu un contatto tra il Ros dei Carabinieri e i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino (…) iniziativa del Ros - perché di questo organismo si parla posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante, lo stesso comandante del reparto - aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa. L’effetto che ebbe sui mafiosi fu quello di convincerli definitivamente che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Questa iniziativa al di là delle intenzioni con cui fu avviata (…) ebbe sicuramente un effetto deleterio per le istituzioni confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato”.
Una vicenda ricostruita grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca ma anche degli stessi carabinieri (per l'appunto Mori e De Donno).
E' un fatto che la trattativa continua anche dopo la morte di Paolo Borsellino, con Cosa nostra che alza il tiro colpendo (su input di chi?) il patrimonio artistico a Firenze, Roma e Milano.
E' un fatto che vi fu un cambio di rotta dopo le perlustrazioni, che furono fatte, anche per la realizzazione di un partito proprio (Sicilia Libera).
Il collaboratore di giustizia Antonino Giuffré ha raccontato che Bernardo Provenzano, contravvenendo al suo abituale e cautelativo riserbo, non temette di esporsi personalmente nell’indicare a tutti gli uomini d’onore il nuovo partito di riferimento: Forza Italia.
Sappiamo che il processo trattativa si è concluso con le assoluzioni degli imputati istituzionali, ma i fatti restano.
Volutamente si dimenticano le sentenze, seppur di assoluzione, in cui l'operato del Ros viene messo in discussione.
Pensiamo al processo sulla mancata perquisizione del covo di Totò Riina in via Bernini, che vide alla sbarra Mori ed il “Capitano Ultimo” (alias del Colonnello dei Carabinieri Sergio De Caprio). Entrambi furono assolti dall'accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia, perché “il fatto non costituisce reato”.
La sentenza mise comunque in luce le pecche operative compiute nella scelta di non effettuare immediatamente la perquisizione ed individua condotte “certamente idonee all'insorgere di una responsabilità disciplinare”.
E' noto che la magistratura fu convinta a non effettuare la perquisizione con la garanzia che sarebbe stata fatta un'osservazione del covo, ma che le telecamere furono staccate dopo appena poche ore e non informarono le autorità competenti, sottraendosi al controllo di legalità della magistratura.
Così, quando il 2 febbraio venne fatta la perquisizione, gli inquirenti trovarono il rifugio del boss completamente ripulito, con mobili ammassati in una stanza, la cassaforte smurata, le pareti imbiancate e perfino le tappezzerie ed i rivestimenti staccati, per eliminare eventuali tracce di Dna.
Anche un'altra sentenza di assoluzione che ha riguardato Mori rappresenta delle ombre: quella per il mancato blitz a Mezzojuso dove si nascondeva Bernardo Provenzano.
In quel processo l'ex generale era imputato con il colonnello Obinu ed anche in quella occasione vi furono assoluzioni perché "il fatto non costituisce reato".
Tuttavia nelle motivazioni della sentenza d'appello il collegio presieduto da Salvatore Di Vitale aveva scritto che "la scelta di privilegiare qualsiasi altra esigenza investigativa rispetto al pericolo che il covo fosse ripulito appare davvero non adeguata per volere usare un eufemismo".
Sempre in quella sentenza, proprio per il mancato arresto di Provenzano, si legge che: “Le scelte tecnico-investigative adottate dagli imputati (soprattutto quelle di non curare adeguatamente gli spunti investigativi emersi dall'incontro di Mezzojuso), a maggior ragione ove si consideri che esse vennero adottate da esperti Ufficiali di Polizia giudiziaria, inducono più di un dubbio sulla correttezza, quantomeno dal punto di vista professionale, dell'operato dei due e lasciano diverse zone d'ombra che il dibattimento, nonostante lo sforzo profuso dalla Pubblica Accusa, non è riuscito a dipanare".


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Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo

La vicenda Terme Vigliatore

Ma non ci sono solo questi aspetti a sollevare interrogativi sull'operato del Ros di quegli anni. Altra vicenda riguarda l'episodio che ha visto sempre De Caprio (fedelissimo di Mori) coinvolto in una sparatoria a Terme Vigliatore, il 6 aprile 1993, che per poco non portava alla morte (un proiettile mancò la testa di un soffio) di un giovane ventenne di nome Fortunato Imbesi. Questi fu "scambiato", a detta degli uomini del Ros, per il boss mafioso ricercato Pietro Aglieri, allora trentacinquenne. Su quei fatti De Caprio fu sentito nel maggio 2015 al processo d'appello Mori-Obinu e giustificò la presenza del suo gruppo in quei luoghi come un fatto casuale. E nelle motivazioni della sentenza di quel processo vengono sottolineate le divergenze, sul punto, dei vari testimoni ascoltati nel corso del dibattimento. Infatti non si è capito se “ciò sia avvenuto casualmente durante il trasferimento da Messina a Palermo (come sostanzialmente riferito dai testi Randazzo, Mangano e dallo stesso De Caprio) o se ciò sia avvenuto nell'ambito di un servizio programmato, per il quale era stato ordinato ai militari operanti di convergere appositamente nella zona in questione (come risulterebbe dalle dichiarazioni dei testi Olivieri, Longu e - pur tra molte incertezze - dello stesso Calvi, che in sostanza, parzialmente modificando o non confermando quanto dichiarato al Procuratore generale in data 23/9/2014, non ha chiarito le ragioni per cui, pur trovandosi in quei giorni di servizio a Milano, si fosse recato a Messina, e forse nella zona di Terme Vigliatore, per incontrare il De Caprio)”. Scrivono sempre i giudici che "le notevoli perplessità derivanti dalle rilevate divergenze nella ricostruzione dei fatti da parte dei diretti protagonisti appaiono ulteriormente accresciute dal rilievo che l'erroneo riconoscimento dell'Aglieri nella persona dell'Imbesi Fortunato è circostanza scarsamente verosimile, ove si consideri la davvero poca somiglianza tra i due che, a prescindere dalla differenza di età tra costoro (comunque pari a circa nove anni), emerge chiaramente dai confronti dei tratti somatici dei medesimi, quali risultanti dalle fotografie prodotte dal Procuratore generale e risalenti all'epoca della vicenda in esame”. 
E se quel collegio non ritiene che lo svolgimento di certi fatti rientri in una messa in scena per mettere sull'allarme il boss Nitto Santapaola, (che si rifugiava proprio in quei luoghi, ndr) ed indurlo ad allontanarsi dalla zona, così da garantirne la latitanza, è comunque un dato di fatto che nell'emettere la sentenza la Corte aveva disposto “la trasmissione alla Procura di Palermo di copia dei verbali e delle trascrizioni delle deposizioni rese da Mauro Olivieri, Francesco Randazzo, Pinuccio Calvi, Giuseppe Mangano, Roberto Longu e Sergio De Caprio (meglio noto come “Ultimo”), per valutare l'eventuale sussistenza del reato di falsa testimonianza”. Nelle motivazioni, infatti, si legge: “Ciò che tuttavia è emerso dalle dichiarazioni dei predetti militari - e che appare indubbiamente singolare ed in definitiva inquietante - è l'estrema difficoltà dagli stessi manifestata nel corso delle loro deposizioni nell'indicare e chiarire in modo plausibile le ragioni della loro presenza a Terme Vigliatore, incorrendo anche in palesi contraddizioni”.


Passato oscuro

Che dire poi delle svariate ombre, emerse nel corso dei processi, sul passato del solito generale Mori quando si trovava in servizio al Sid (Servizio Informazioni difesa, ex Sismi, attuale Aise, ndr)?
Su tutti fatti che abbiamo elencato non si misurano mai né l'ufficiale dell'Arma né i suoi più accaniti sostenitori.
Anzi. Con la solita arroganza Mori e De Donno, approfittando della sentenza assolutoria della Cassazione “per non aver commesso il fatto” (ovvero la violenza e minaccia a un corpo politico dello Stato), si impegnano in prima persona per riscrivere i fatti della storia.
Così il dialogo avviato con Vito Ciancimino diventa a loro dire un'operazione di polizia giudiziaria, a loro dire, non solo per porre fine alle stragi, ma soprattutto per portare avanti proprio l'inchiesta mafia-appalti.
E' tutto scritto nel libro “L'altra verità”, uscito nei mesi scorsi. Una pubblicazione che nell'ultimo capitolo vede un attacco diretto, con una lunga sequela di falsità, dette nei confronti di Roberto Scarpinato e Nino Di Matteo. Non a caso sempre loro finiscono sistematicamente al centro del mirino di rappresentanti e simpatizzanti di questo governo fascista ed amico dei mafiosi.


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Paolo Borsellino © Imagoeconomica


Abbiamo già raccontato che Di Matteo non c'entra nulla con il depistaggio Scarantino, così come più volte abbiamo anche ricordato le pesantissime valutazioni sull'operato degli ufficiali del Ros, emersi nelle sentenze. Anche quelle sulla trattativa Stato-mafia che nelle sue sentenze, seppur difformi (condanna e assoluzioni) non hanno mai messo in dubbio la sussistenza del fatto.
Mori e De Donno, nel loro libro fanno intendere che Di Matteo avrebbe screditato il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza sulla strage di via d'Amelio.
Un'affermazione ripetuta spesso dai denigratori del sostituto procuratore nazionale antimafia, basata su una dichiarazione fatta nel 2009 da Di Matteo durante una riunione di coordinamento tra procure in cui si parlava dell'attendibilità dell'ex boss di Brancaccio.
Ciò che non viene mai ricordato è che Di Matteo intervenne dando un momentaneo parere negativo al programma di protezione, solo perché ci si stava misurando con sentenze che comunque erano definitive.
E gravemente taciuto che nel 2010 proprio Di Matteo si espose in più sedi proprio per difendere e promuovere il programma di protezione e l'attendibilità di Spatuzza, nel momento in cui la Commissione centrale del Viminale per la definizione e applicazione delle misure speciali di protezione, allora presieduta da Alfredo Mantovano, non stava ammettendo Spatuzza nel programma di protezione definitivo.
Se fosse stato responsabile del depistaggio si sarebbe opposto a Spatuzza in ogni sede. Così non è stato.
Perché la storia va raccontata per intero ed è ovvio che per i denigratori di Di Matteo è sconveniente parlare di certi argomenti.
Con una giravolta gli ex ufficiali del Ros nel loro libro, ad un certo punto, ipotizzano persino che possa esservi stata una trattativa con Cosa nostra da parte di alcune istituzioni, ma che essa non riguardi loro.
Peccato che, come è certificato dalle sentenze, sull'altare di quel dialogo avviato con don Vito Ciancimino nei cinquantasette giorni tra le stragi di Capaci e via d'Amelio morirono altre persone. Dopo la morte del giudice Borsellino e degli agenti di scorta vi furono anche altri attentati.
Nel maggio 1993 quelli di via Fauro a Roma e via dei Georgofili a Firenze, quindi in luglio via Palestro a Milano e le basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma. E solo un puro caso non ha permesso l'esecuzione della strage progettata e poi annullata allo stadio Olimpico di Roma nel gennaio 1994. 
Per tutti questi delitti morirono 15 persone, tra cui due bambine, una di 50 giorni e l'altra di nove anni, Caterina e Nadia. Vi furono decine di feriti a cui vanno aggiunti i danni al patrimonio artistico e alla sicurezza nazionale. I politici iscritti alla lista di morte di Cosa nostra, invece, ebbero salva la vita.
Altro che dialogo avviato “per fermare le stragi” (come dissero gli stessi carabinieri).
Altro che martiri della giustizia ed eroi della Patria.
“Obbedir tacendo e tacendo morir” Mori non dà mai conto di un altro fatto: la vicenda dell'interlocuzione avviata tra l'estremista di destra Paolo Bellini ed il boss Antonino Gioé poi morto in cella nel luglio 1993 in circostanze misteriose.
Nei processi è emerso che di quel dialogo Mori fu informato in tempo reale dal maresciallo dei carabinieri Tempesta che gli consegnò un manoscritto che il Bellini aveva ricevuto dai mafiosi, ma inspiegabilmente Mori di tale vicenda non solo non informò nessuno, non solo distrusse il manoscritto, ma ordinò a Tempesta di non redigere alcuna relazione scritta.
Anche di questo si parla nella sentenza d'appello sulla trattativa Stato-mafia. Una sentenza pesante, seppur di assoluzione, su cui poi la Cassazione ha voluto dare un ulteriore colpo di spugna.


Qualcuno mente

Menzogne, silenzi, sottrazioni di documenti e depistaggi hanno sempre caratterizzato stragi e delitti eccellenti. A proposito dei depistaggi che in qualche maniera hanno riguardato la strage di via d'Amelio c'è anche un altro spunto che andrebbe approfondito che emerse durante l'inchiesta per concorso in strage aperta nei confronti dell'ex Sisde Bruno Contrada.
Il pm Nino Di Matteo, riaprendo l'inchiesta che fu in un primo momento condotta da Ilda Boccassini, ebbe modo di assumere a verbale le dichiarazioni di alcuni ufficiali dei carabinieri e della polizia. 


contrada bruno da temi repubblica it micromega online

Bruno Contrada


“Fu aperta una indagine molto spinta sui Servizi Segreti - aveva ricostruito il magistrato nella sua testimonianza al processo sul depistaggio di via d'Amelio - Fui io a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell’attentato con una borsa, o dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende”.
“Vedendo quegli atti mi accorsi che c’era stato un ufficiale del Ros, Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l’esplosione aveva constatato la presenza di Contrada. E raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio e che poi sarebbe stata strappata in Questura - spiegò ancora -. Quel che mi fece trasalire è che quando fu sentito dalla collega Boccassini, nel 1992, mise a verbale quella circostanza dicendo di averlo saputo da un suo amico carissimo, non un confidente, di cui voleva tutelare l’identità. Andai a interrogarlo e ribadì le medesime parole. Quando io stavo per chiedere il rinvio a giudizio del carabiniere lui venne in Procura e depositò una memoria della quale avrebbe parlato con il colonnello Mori, facendo il nome della sua fonte: il funzionario di polizia Roberto Di Legami. Ricordo anche il momento dei confronti che fu drammatico. Di Legami negò tutto, fu anche rinviato a giudizio perché avevamo due militari contro uno (Sinico e Raffaele Del Sole, ndr). Dell’esito di quel processo appresi successivamente, quando già ero a Palermo e seppi che il funzionario fu assolto”.
La presunta confidenza di Di Legami a Sinico raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio. Questo documento sarebbe però stato distrutto.
Dal momento che Di Legami è stato dimostrato nei processi che non c'entra nulla, perché lo stesso venne tirato in ballo?
Furono gli uomini dell'arma ad aver dichiarato il falso? Se sì, con quale scopo? Il generale Mori c'entra in qualche modo con questa storia?


L'agenda rossa grande assente

Tornando al dibattito di venerdì scorso abbiamo notato un altro fatto grave.
Non si è parlato della sparizione dell'agenda rossa.
Eppure è proprio quello l'atto che dà il via al più grande depistaggio della storia. Ciò è avvenuto a pochi minuti dall'esplosione di via d'Amelio. La signora Colosimo, e quindi deduciamo la Commissione antimafia, pone diversamente la propria attenzione sull'ufficio in Procura di Paolo Borsellino, facendo intendere che qualcuno possa essere entrato in quel luogo. Ma è l'agenda rossa, vera “scatola nera” del segreto che si nasconde dietro le stragi, ad essere scomparsa.
Logica vuole che la sparizione dell'agenda rossa sia strettamente legata ai movimenti che il 19 luglio 1992 fece la borsa del giudice Borsellino ed è un dato di fatto che non furono uomini di Cosa nostra a trafugarla.
Un punto di partenza è sicuramente la foto in cui compare il capitano dei carabinieri (oggi colonnello) Giovanni Arcangioli, in passato finito sotto indagine per il furto dell'agenda rossa e poi assolto per "non aver commesso il fatto" con una motivazione ridicola in cui, incredibilmente, si arrivava persino ad escludere che la borsa contenesse l'agenda.
Che l'agenda fosse al suo interno è stato testimoniato nei processi dai familiari del giudice Borsellino ed è incredibile che Arcangioli, che ha deciso di non avvalersi della prescrizione, non sia mai stato portato a processo nonostante l'esistenza di immagini scioccanti.
Il carabiniere venne immortalato e filmato mentre si allontana dal luogo della strage negli istanti successivi all’esplosione dell’autobomba in via d’Amelio. Recandosi verso via dell’Autonomia Siciliana. 


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Giovanni Arcangioli con in mano la valigetta del giudice Paolo Borsellino


Quel fotogramma che lo ritrae con la valigetta di Borsellino è stato scattato tra le 17,20 e le 17,30 di quel tragico 19 luglio e venne scoperto nel 2005 quando il nostro vicedirettore, Lorenzo Baldo, segnalò alla Dia l'esistenza della foto.
I giudici della Corte d'assise di Caltanissetta nel processo Borsellino quater dedicarono un intero capitolo alla sparizione dell'agenda rossa evidenziando le "molteplici contraddizioni fra le deposizioni dei vari testi esaminati". Tra questi anche quella dell'allora capitano Giovanni Arcangioli del Nucleo Operativo Provinciale dei Carabinieri di Palermo.
E al contempo la Corte aveva ritenuto "doveroso" disporre la trasmissione al Pubblico ministero dei verbali di tutte le udienze dibattimentali in quanto "possono contenere elementi rilevanti per la difficile ma fondamentale opera di ricerca della verità".
Nessun riferimento a questa fotografia è stato fatto dai presenti al dibattito. Sappiamo che a fine 2023 notizie di stampa hanno riferito che un funzionario di polizia, sentito qualche anno prima dai magistrati di Caltanissetta, avrebbe dichiarato di aver ricevuto la borsa di Borsellino dal capitano dei carabinieri Arcangioli per poi portarla in Questura, ma se ciò fosse vero appare incredibile che lo stesso Arcangioli, per scagionarsi, non abbia mai riferito un dettaglio del genere.
Così come incredibile è il trentennale silenzio sulla vicenda.
Perché non si parla di tutto ciò? Perché si fa finta che quella foto del capitano dei carabinieri con in mano la borsa di Borsellino non esiste?


Il testamento di Agnese Borsellino

C'è un altro aspetto però che da cittadini ci indigna profondamente: le omissioni sulle parole dette da Agnese Piraino Leto, la moglie del giudice Borsellino, divenuta con il suo grande esempio, una madre per tutto il popolo italiano.
L'avvocato Trizzino le ha offerte al pubblico presente in maniera gravemente incompleta. E' vero che il giorno prima di morire il marito le confidò inquietanti convinzioni sulla propria fine, che considerava imminente, ma non le parlò solo di eventuali responsabilità di “colleghi”, ma anche di “altri”.
Basta leggere le molteplici dichiarazioni della signora Agnese, divenute un vero testamento per la ricerca della verità.“Era perfettamente consapevole che il suo destino era segnato, tanto da avermi riferito in più circostanze che il suo tempo stava per scadere - aveva raccontato - Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo”. Il riferimento ai colleghi da parte di Paolo Borsellino è testimone di quell'isolamento interno alla Procura che lo stesso magistrato aveva raccontato ai suoi più stretti collaboratori. E lo stesso fece in famiglia.  


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Ascolta le dichiarazioni di Agnese Piraino Leto: clicca qui!


Diceva sempre Agnese Borsellino: “Posso solo dire, per esserne stata testimone oculare, che mio marito si adirò molto quando apprese per caso dall'allora ministro Salvo Andò, incontrato all'aeroporto, che un pentito aveva rivelato: è arrivato il tritolo per Borsellino. Il procuratore Pietro Giammanco, acquisita la notizia, non lo aveva informato sostenendo che il suo dovere era solo quello di trasmettere per competenza gli atti a Caltanissetta”.
“Quella volta - ricordava in una nota dell'Ansa la signora Agnese - ebbe la percezione di un isolamento pesante e pericoloso. Non escludo che proprio da quel momento si sia convinto che Cosa nostra l'avrebbe ucciso solo dopo che altri glielo avessero consentito”.
Parole difficili da dimenticare: “Paolo mi disse: 'materialmente mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere. La mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno'. Queste sono parole che sono scolpite nella mia testa, e sino a quando sono in vita non potrò dimenticarle”.
Ecco. Borsellino disse alla moglie che a volerlo morto sarebbero stati “altri”. Chi erano questi altri? Non si può escludere che il riferimento fosse ad altri personaggi potenti.


La trattativa e Subranni punciuto

Nella sua ultima intervista al Corriere della Sera aveva affermato che “ci furono due trattative Stato-mafia. E mio marito fu ucciso per la seconda. Quella che doveva cambiare la scena politica italiana”.
Di certi argomenti Agnese Piraino Leto riferì anche davanti ai magistrati di Caltanissetta, nel 2009, spiegando anche il motivo per cui soltanto dopo tanto tempo decise di mettere a verbale certe dichiarazioni davanti al Procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e al procuratore aggiunto Domenico Gozzo (“Avevo paura, non tanto per me ma avevo paura per i miei figli e poi per i miei nipoti. Adesso però so che è arrivato il momento di riferire anche i particolari più piccoli o apparentemente insignificanti”).
Ai magistrati aveva indicato testualmente le motivazioni che portarono alla morte il marito.
“Dopo la strage di Capaci mio marito disse che c'era un dialogo in corso già da molto tempo tra mafia e pezzi deviati dello Stato”. E ancora: “Mio marito mi disse testualmente che c'era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato'. Ciò mi disse intorno alla metà di giugno del 1992. In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la 'mafia in diretta', parlandomi anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato italiano”. “Mi disse che il gen. Subranni era 'punciuto' - (punto in un rito di affiliazione a Cosa nostra, ndr) - Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito, ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto. Mi disse, comunque, che quando glielo avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui, infatti, l'Arma dei Carabinieri era intoccabile”.
Perché l'avvocato Trizzino omette questi dettagli rilevanti su uno dei riferimenti massimi, al tempo, per Mori e De Donno?
Forse dobbiamo credere che Trizzino ritenga che quelle parole non siano vere o, peggio, che la signora Agnese, quando le ha dette, non era lucida, così come ebbe l'ardire di dire lo stesso Subranni quando affermò che la donna era “malata di alzheimer”?
Se è così che abbia il coraggio di dirlo pubblicamente. O diversamente, abbia il coraggio di riconoscere che la signora Agnese aveva ragione. Non c'è una via di mezzo. 




Questione Messina

L'elenco dei fatti non emersi nel dibattito è ancora lungo e fa rabbrividire. In silenzio è rimasto anche Luciano Violante che solo timidamente ha suggerito di approfondire i punti proposti da Roberto Scarpinato in Commissione antimafia, “per non lasciare che si dica che non si è voluto fare qualcosa”. Lui che è iscritto all'elenco degli “smemorati di Stato”, per aver taciuto per anni ciò che gli disse Mori sull'incontro con Vito Ciancimino. Solo quando il figlio dell'ex sindaco di Palermo, Massimo Ciancimino, ha iniziato a parlare si è recato davanti all'autorità giudiziaria.
Avrebbe potuto raccontare molto di quegli anni. Ad esempio, quando si è parlato di Leonardo Messina, indicato dalla signora Colosimo come collaboratore di giustizia importante perché parlò a Borsellino dell'interesse di Riina per la Calcestruzzi.
E' vero. E' scritto nei verbali. Ma ciò che è emerso negli anni è ancor più drammatico. Per comprendere quanto siano state dirompenti, al tempo, le sue dichiarazioni basta riascoltare la sua deposizione davanti alla Commissione Antimafia presieduta proprio da Luciano Violante, il 4 dicembre 1992. L'ex uomo d'onore di San Cataldo si soffermava allora sui legami tra mafia e politica e sui rapporti da lui intrattenuti con il Sisde a partire dal 1986, con particolare riferimento alle indicazioni che dichiara di aver fornito su come catturare gli esponenti della "Commissione mondiale di Cosa Nostra riunita", ovvero i vertici di Cosa nostra e di alcune sue ramificazioni a livello internazionale.
In quella deposizione parlava anche dei rapporti tra le varie mafie ("Il vertice della 'Ndrangheta è Cosa nostra. I soldati non sanno che appartengono tutti ad un'unica organizzazione. Lo sa il vertice"). E' sempre lui ad aver raccontato delle riunioni tra i capi dell’organizzazione, tenutesi tra il '91 ed il '92, nel corso delle quali discutevano proprio di un “progetto politico finalizzato alla creazione di uno Stato indipendente del Sud, all’interno di una separazione dell’Italia in tre Stati". In tal modo Cosa Nostra si sarebbe fatta Stato. Il progetto era stato concepito dalla massoneria. Di questo progetto, ovviamente, Messina parlò anche il 5 dicembre 2013, quando fu sentito nel processo trattativa Stato-mafia.
Come dicevamo è noto che nei verbali ufficiali che Borsellino fa con Messina certe dichiarazioni non compaiono. Vi è solo un accenno quando fu sentito il 30 giugno 1992: "Signor giudice quei due delitti, la morte di Salvo Lima e di Giovanni Falcone, sono stati decisi in quella riunione, sono anelli di un'unica strategia. La commissione interprovinciale, quella che noi chiamiamo Regione, non si riunisce per niente, si riunisce soltanto per decidere cose di gravità eccezionale. Solo adesso ho capito, signor giudice: ad Enna, in quel giorno di febbraio, hanno deciso tutto. Solo ora sono in grado di mettere insieme cose diverse, solo ora ho capito. Ascolti, le voglio raccontare tutto”. Il dottor Borsellino lo interruppe, perché prima era necessario approfondire la sua storia all’interno dell’organizzazione e quelle che erano le motivazioni per cui si era deciso a intraprendere il percorso della collaborazione.
Nei verbali successivi parlò degli interessi della mafia nel mondo degli appalti. Diversamente le dichiarazioni sulle riunioni di Enna verranno messe a verbale nel novembre 1992 perché, come disse lo stesso pentito nel "processo trattativa", c'era un accordo per cui avrebbe parlato solo nel momento in cui la sua famiglia sarebbe stata messa al sicuro. Cosa che avvenne successivamente.
Ma il colpo di scena è emerso quando su precise domande dell'allora sostituto procuratore Nino Di Matteo, e del Presidente della Corte d'assise di Palermo Alfredo Montalto, Messina dichiarò che di queste cose ne aveva parlato anche con il giudice Borsellino: "Di interrogatori ne ho avuti diversi. Ma a volte io ero in caserma di Polizia e anche veniva a salutare... Non che mi interrogava... Noi parlavamo per ore e fuori verbale si parlava... si prendeva il caffè... e lui fumava parecchio... Io sia con lui che con Manganelli... loro avevano il mestiere dentro... e fuori verbale fanno una domanda... ed io gli ho spiegato come erano le cose".
Alle domande sempre più insistenti di Di Matteo aggiunse: "Abbiamo parlato di tutto. Anche che nelle riunioni non veniva fatto il suo nome. Gli interrogatori sono una fase. Poi c'è la trascrizione. Io, dato il personaggio che avevo davanti, gli ho parlato delle cose più forti che potevo parlare... delle riunioni, della strategia, della politica. Quello che avevo da dire ne ho parlato con Borsellino anche fuori interrogatorio".


colosimo ciavardini

Luigi Ciavardini e Chiara Colosimo


Ciavardini, la foto con la Colosimo e il conflitto d'interessi

Ecco un'altra verità taciuta, dunque.
In questo Paese al contrario, i magistrati che hanno lottato per la ricerca della verità e per contrastare questi sistemi criminali vengono messi alla gogna.
Diversamente, proprio dall'avvocato Trizzino, solidarietà è stata espressa in maniera chiara e incondizionata nei confronti della signora Colosimo nonostante sia lei in palese conflitto di interessi rispetto al ruolo che ricopre. 
E' un fatto l'esistenza della fotografia che la vede assieme al terrorista Luigi Ciavardini.
Uno scatto "con una posa poco istituzionale" (come la stessa Colosimo l'ha definita) che risalirebbe ai tempi in cui lei era Consigliera regionale del Lazio (2010-2013).
Una foto che non ha giustificazione per tutto ciò che Ciavardini, ex componente dei Nuclei Armati Rivoluzionari, rappresenta.
Perché non parliamo di un soggetto che ha collaborato o collabora con la giustizia. Ha una lunga militanza nelle formazioni eversive nere. Dal 2009 è in semilibertà dopo aver ricevuto condanne a 30 anni per la strage di Bologna, a 13 anni per l’omicidio del poliziotto Francesco Evangelista e a 10 anni per l’assassinio del giudice Mario Amato. Insieme a Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, è considerato uno dei terroristi neri più pericolosi degli anni Ottanta. Non solo.
Nell'aprile 2024 è stato condannato in primo grado dal Tribunale di Bologna alla pena di 3 anni e 7 mesi per il reato di falsa testimonianza commesso nell'ambito del processo di primo grado che ha portato alla condanna all'ergastolo (confermata in appello) dell'ex Nar Gilberto Cavallini, per la strage del 2 agosto 1980.
Anche per questo indigna la presa di posizione dell'avvocato Trizzino che, di fatto, rappresenta i figli di Borsellino. 
Tutto questo è mancato. E allora vengono in mente le parole di Saverio Lodato quando, intervenendo ad una presentazione del libro "Il Patto Sporco e il silenzio", nell'ottobre 2023: “La strage di via D’Amelio. Non può essere estrapolata dall’insieme. Non può finire da sola sotto la lente dell’accertamento della verità. 
Ci comporteremmo da nani. Ci sono ancora inchieste aperte a Caltanissetta, Firenze e in altre Procure, dalle quali emergono piste corpose e nomi di protagonisti che chiamano in causa l’eversione nera, gli apparati deviati dello Stato, le strutture militari clandestine, che tanto inorgoglivano l’ex capo dello Stato, Francesco Cossiga, per aver fatto il lavoro sporco anche nelle stragi di Roma, Milano e Firenze nel 1994”. E quindi concludeva: “Non è ancora tempo di riscrivere la storia. E’ ancora il tempo di scriverla. E per farlo, occorre riconoscere, e trarne le debite conseguenze, quei ricorrenti riferimenti a Gladio che Giovanni Falcone lasciò ripetutamente in quella parte, a oggi conosciuta, del suo diario.
E prendere atto che ci fu una trattativa fra Cosa Nostra e lo Stato durante la stagione delle stragi. E che Paolo Borsellino, a quella trattativa, non si volle piegare”. Tutto il resto è noia e menzogna.


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Paolo Borsellino e Giovanni Falcone © Shobha


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