Il ministro della Giustizia lo erge ad eroe e dimentica ciò che è scritto nelle sentenze
“Un servitore dello Stato che ha reso lustro all’Istituzione in Italia e all’estero”. Ecco la considerazione che il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha del generale Mario Mori.
Tutto bene (ma non troppo) se l'opinione rimanesse confinata al proprio pensiero. Peccato che la considerazione è scritta nero su bianco in una risposta ufficiale a un’interrogazione parlamentare del capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, che chiedeva al ministro quale fosse il suo indirizzo sull’inchiesta aperta nei confronti dell'ex ufficiale del Ros a Firenze, con l’accusa di strage e associazione mafiosa per gli attentati del 1993.
L'ennesima grave ingerenza della politica e del Governo nel lavoro della magistratura.
A riportare la notizia questa mattina è stato Il Fatto Quotidiano.
Poco conta se Nordio, nella sua risposta, specifica che nel suo ruolo di Guardasigilli non può esprimere “alcuna opinione per il doveroso rispetto dell’attività giudiziaria”.
Il suo pensiero è noto da tempo e lo aveva già espresso chiaramente nel gennaio 2023 quando, in una relazione in Aula alla Camera dopo l'arresto del boss trapanese Matteo Messina Denaro (oggi deceduto), aveva parlato di “errori giudiziari” prendendo tra i riferimenti anche il caso dell'ex comandante del Ros.
“Ieri abbiamo reso omaggio alle forze dell’ordine, soprattutto ai Ros, che sono stati determinanti nella cattura di Matteo Messina Denaro, vorrei ricordare che il comandante generale dei Ros, che praticamente è quello che ha fondato questo organismo che funziona così bene, è stato sottoposto per 17 anni a un processo penale nel quale è stato assolto alla fine con formula piena, con una carriera rovinata e sembra che nessuno lo abbia risarcito”.
Oggi rincara la dose con una nuova serie di considerazioni a difesa del suo “eroe”. “Certo è – scrive il ministro della Giustizia – che la passata vicenda giudiziaria dell’ex generale Mori, già definita con sentenza di assoluzione nell’ambito del processo sulla ‘trattativa Stato-mafia’, è emblematica di una battaglia che questo governo sta compiendo sin dal suo insediamento. Garantire l’effettività della presunzione di non colpevolezza”.
Mori viene eretto come simbolo della malagiustizia subita e casi come il suo vengono usati a pretesto per condurre l'ennesima “schiforma” della giustizia che vuole legare le mani ai magistrati e al contempo imbavagliare definitivamente la stampa.
Obiettivo dichiarato è “evitare le negative ripercussioni (...) del cosiddetto processo penale mediatico, divenuto un ‘circuito giudiziario’ parallelo a quello della giustizia penale ordinaria”.
Secondo il ministro Nordio, dunque, il generale Mario Mori non è altro che un “Cittadino innocente prima del processo a cui è stato sottoposto, cittadino innocente dopo essere stato prosciolto dalla Corte di cassazione da tutti i capi di incolpazione”.
Infine, tanto per “mantenere” la parola data sull'impossibilità di non esprimere opinioni, usa le parole scritte in una nota divulgata dall'Arma dei carabinieri (anche quella fu un'iniziativa gravissima e senza precedenti) proprio per esprimere al generale la propria vicinanza dopo la notizia sull'inchiesta di Firenze: Mori è “un servitore dello Stato che ‘con il suo servizio, ha reso lustro all’Istituzione in Italia e all’estero’”.
Mario Mori © Imagoeconomica
Parlano le sentenze
Ma la realtà è ben diversa e il ministro Nordio, che fu magistrato, dovrebbe saperlo.
Il generale Mori è tutt'altro che un martire o un corretto servitore dello Stato. Come abbiamo scritto più volte è vero che lo stesso è stato già imputato e assolto in via definitiva (dopo una condanna a 12 anni in primo grado) nel processo sulla Trattativa Stato-mafia. Ed è altrettanto vero che è stato assolto con sentenza passata in giudicato anche in due processi in cui era imputato di favoreggiamento: quello sulla ritardata perquisizione del covo di Totò Riina dopo il suo arresto nel 1993 e quello sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995.
Ma un ministro preparato dovrebbe sapere che le sentenze non si fermano ai dispositivi.
I fatti restano e tutti questi processi hanno messo in luce inquietanti verità riguardo alla storia di Mori che rendono evidente come possa essere definito tutt'altro che un eroe o una vittima di malagiustizia.
Nella sentenza sulla mancata perquisizione del covo di via Bernini, ad esempio, vengono individuate condotte “certamente idonee all'insorgere di una responsabilità disciplinare”.
E' noto che la magistratura fu convinta a non effettuare la perquisizione dicendo che si sarebbe garantita un'attività di osservazione del covo. Peccato che le telecamere furono staccate dopo appena poche ore e non furono informate le autorità competenti, sottraendosi al controllo di legalità della magistratura.
Così, quando il 2 febbraio 1993 venne fatta la perquisizione, gli inquirenti trovarono il rifugio del boss completamente ripulito, con mobili ammassati in una stanza, la cassaforte smurata, le pareti imbiancate e perfino le tappezzerie ed i rivestimenti staccati, per eliminare eventuali tracce di Dna.
Anche nella sentenza d'appello che ha assolto "perché il fatto non costituisce reato" Mori ed il colonnello Obinu, per il mancato blitz a Mezzojuso, dove si nascondeva Bernardo Provenzano, ci sono pesantissimi giudizi da parte dei giudici. In quella sentenza, divenuta definitiva, il collegio presieduto da Salvatore Di Vitale aveva scritto che "la scelta di privilegiare qualsiasi altra esigenza investigativa rispetto al pericolo che il covo fosse ripulito appare davvero non adeguata per volere usare un eufemismo".
E poi ancora che “le scelte tecnico-investigative adottate dagli imputati (soprattutto quelle di non curare adeguatamente gli spunti investigativi emersi dall'incontro di Mezzojuso), a maggior ragione ove si consideri che esse vennero adottate da esperti Ufficiali di Polizia giudiziaria, inducono più di un dubbio sulla correttezza, quantomeno dal punto di vista professionale, dell'operato dei due e lasciano diverse zone d'ombra che il dibattimento, nonostante lo sforzo profuso dalla Pubblica Accusa, non è riuscito a dipanare".
Perché non si ricordano mai queste pesanti considerazioni dei giudici? Parliamo di sentenze passate in giudicato.
Vito Ciancimino © Archivio Letizia Battaglia
Le ombre di una trattativa
Inquietanti sono le ombre che riguardano il passato di Mori quando si trovava in servizio al Sid (Servizio Informazioni difesa, ex Sismi, attuale Aise, ndr). Tutte vicende che, ovviamente, benpensanti e giornaloni si guardano bene dall'affrontare.
Ma senza andare troppo indietro nel tempo basta già soffermarsi sull'operato di Mori negli anni delle stragi, rispetto a quella trattativa (come lui stesso la definì quando fu sentito nel processo di Firenze nel 1998), che avviò con il sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino.
Il racconto merita di essere ricordato ai lettori: “Ma signor Ciancimino, ma cos'è questa storia qua? Ormai c'è muro, contro muro. Da una parte c'è Cosa Nostra, dall'altra parte c'è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente? La buttai lì convinto che lui dicesse: 'cosa vuole da me colonnello?' Invece dice: 'ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo'. E allora restammo... dissi: 'allora provi'. E finì così il secondo incontro, per sintesi ovviamente”. (...) “Lui capì a modo suo, fece finta di capire e comunque andò avanti. E restammo d'accordo che volevamo sviluppare questa trattativa”. E poi ancora in un altro passaggio (…) “Si rividero, sempre a casa di Ciancimino, il 18-12-92. In questa occasione Ciancimino gli disse: ‘Guardi, quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l'intermediario sono io - Ciancimino - e che la trattativa si svolga all'estero. Voi che offrite in cambio?’”.
Da sempre i carabinieri sostennero di avere preso quell'iniziativa per riuscire a catturare qualche latitante e per cercare di impedire altre stragi.
Tuttavia nella sentenza della Corte d'Assise di Firenze sulle stragi '93, datata giugno 1998, anch'essa divenuta definitiva "l'iniziativa del Ros" viene valutata in questi termini: "L’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di 'trattativa', 'dialogo', ha espressamente parlato il cap. De Donno (il gen. Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo; costringere il Ciancimino a scoprirsi o per altro) di contattare i vertici di 'Cosa nostra' per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi). Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata".
Ecco a cosa ha portato la trattativa dell'eroe Mario Mori.
E' un dato di fatto che le stragi non si fermarono nel giugno 1992. Successivamente morirono Paolo Borsellino e gli agenti della scorta.
Nel maggio 1993 ci furono gli attentati di via Fauro, a Roma, e via dei Georgofili a Firenze. Quindi in luglio quelli di via Palestro, a Milano, e alle basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano, a Roma. Morirono 15 persone, tra cui due bambine, una di 50 giorni e l'altra di nove anni, Caterina e Nadia. Vi furono decine di feriti a cui si aggiungono i danni al patrimonio artistico e alla sicurezza nazionale. Solo un puro caso non ha permesso l'esecuzione della strage progettata e poi annullata allo stadio Olimpico di Roma nel gennaio 1994.
Oggi la Procura di Firenze cerca di far luce su un'altra vicenda emersa nei processi, nota come la cosiddetta trattativa delle opere d'arte. E un ministro della Giustizia serio si sarebbe astenuto da ogni commento su indagini in corso.
Mario Mori e, sullo sfondo, Vito Ciancimino © Imagoeconomica
Mario Mori è stato un fedele servitore, sì, ma di quale Stato?
Di quello stesso Stato che ancora oggi conserva nei suoi armadi i segreti sulle stragi che da Portella della Ginestra in poi hanno insanguinato la nostra Repubblica?
Di quello stesso Stato che ha avuto Presidenti del Consiglio che pagavano la mafia (Berlusconi) o che hanno avuto incontri diretti con mafiosi conclamati come Stefano Bontade (Berlusconi e Andreotti). Di quello Stato che ha visto sedere negli scranni del Parlamento uomini condannati per fatti di mafia (vedi Marcello Dell'Utri, Nicola Cosentino o Antonino D'Alì, per citare i più famosi)?
Sono queste le domande che sorgono spontanee anche guardando al presente. Perché di fronte alle ultime riforme della giustizia è sempre più evidente la volontà di questo Governo di riscrivere la storia, di smantellare la normativa antimafia, di mettere i bastoni tra le ruote dei giudici, anche delegittimandoli, ed infine di mettere una pietra tombale sulla ricerca della verità sui mandanti esterni. Un volere di Stato. O forse dovremmo dire di Stato-mafia?
Foto di copertina © Imagoeconomica
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