Il figlio di Andreotti nega i rapporti accertati del padre con Cosa nostra. Rita dalla Chiesa iscritta a Forza Italia il partito fondato da un uomo della mafia
Siamo nel 2024. Circa duecento anni sono passati dai “Beati Paoli”, in Sicilia, che diedero poi origine a Cosa nostra. Anni in cui Stato e mafia si sono confrontati in un gioco di ammiccamenti, compiacenze, convergenze di interessi ed indicibili accordi.
Chi si opponeva a quella “partita truccata” sul piano sociale, culturale, politico e giudiziario è stato eliminato.
Da Emanuele Notarbartolo a Joe Petrosino; da Pio La Torre a Peppino Impastato; da Libero Grassi a Pippo Fava; da Giovanni Falcone a Paolo Borsellino, Carlo Alberto dalla Chiesa e tanti altri martiri.
Nonostante il loro esempio e sacrificio la situazione di oggi, che siamo nel ventunesimo secolo, è davvero inquietante, drammatica ed inaudita. Inspiegabili, forse, ma non troppo.
In questo nostro Paese accade che Stefano Andreotti, figlio del sette volte Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, scende in campo a difesa del padre dopo l'intervista rilasciata da Rita dalla Chiesa e l'accusa che il “Divo” Giulio, fosse responsabile della morte del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. “Accusare mio padre di un suo possibile coinvolgimento in un omicidio o di avere rapporti con la mafia è uno schiaffo alla sua memoria e alla sua storia” ha dichiarato il giorno dopo.
La verità, però, è che le sentenze parlano chiaro. Accusato dalla Procura di Palermo di associazione a delinquere di stampo mafioso, Andreotti fu assolto in primo grado, assolto in secondo grado per i fatti successivi al 1980, mentre in Cassazione fu dichiarata la prescrizione. Non assoluzione come in molti, da sempre, vogliono far credere.
In particolare, come scritto dai giudici, furono provati gli incontri con mafiosi, così come raccontato dal collaboratore di giustizia Marino Mannoia che fu testimone oculare.
Perché, dunque, Stefano Andreotti, si ostina a dire falsità? Buona fede? Cattiva fede?
E' tutto scritto nero su bianco.
La sentenza Andreotti
Venivano confermati già in primo grado i rapporti di Andreotti con i cugini Salvo, la relazione con Vito Ciancimino e Michele Sindona (definito, all’interno della sentenza, un uomo “legato ad autorevoli esponenti dell’associazione mafiosa, per conto dei quali svolgeva attività di riciclaggio”).
Ma soprattutto furono ritenuti provati gli incontri di Andreotti con membri di grande peso di Cosa Nostra come Stefano Bontate, al tempo ai vertici di Cosa nostra assieme a Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio (che a Palermo era rappresentato da Totò Riina e Bernardo Provenzano).
All'ex Presidente del Consiglio fu preannunciata l’eventualità di uccidere Piersanti Mattarella, il quale si era posto in contrasto con l’attività dei mafiosi cugini Salvo. La Corte fu perentoria. Andreotti, seppur “certamente e nettamente contrario” all’omicidio di Mattarella, al tempo non si mosse seguendo “logiche istituzionali”. E in quel dialogo con i mafiosi, scrivono sempre i giudici, stava “palesando, pertanto, la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e fruttuose relazioni con costoro, che in quel contesto, non possono interpretarsi come meramente fittizie e strumentali”.
Giulio Andreotti © Imagoeconomica
Anche dopo la morte di Mattarella Andreotti tornò in Sicilia, secondo i giudici, al fine di “chiedere conto al Bontate della scelta di sopprimere il Presidente della Regione: anche tale atteggiamento deve considerarsi incompatibile con una pregressa disponibilità soltanto strumentale e fittizia e […] non può che leggersi come espressione dell’intento [fallito] di verificare, sia pure attraverso un duro chiarimento, la possibilità di recuperare il controllo sulla azione dei mafiosi riportandola entro i tradizionali canali di rispetto per la istituzione pubblica e di salvaguardare le buone relazioni con gli stessi, nel quadro della aspirazione alla continuità delle stesse”.
Possiamo comprendere l'amore per il proprio genitore, ma come mai Stefano Andreotti non tiene conto, addirittura nascondendoli, fatti così eclatanti?
E che dire dei segreti che il padre si è portato nella tomba su tanti fatti e misfatti; stragi e delitti di Stato?
Solo nel 1990 rivelò al Parlamento l'esistenza di Gladio, quella struttura paramilitare "Stay Behind" posta sotto diretta dipendenza dei Servizi Segreti Militari, prima dal Sifar, poi dal Sid e infine dal Sismi nel 1956 grazie ad un accordo con la Cia statunitense.
Su di essa avrebbe voluto indagare Giovanni Falcone, poi ucciso nel maggio 1992, prima che potesse tornare a fare il magistrato alla Procura nazionale antimafia dopo il periodo trascorso all'Ufficio Affari Penali.
Come si può difendere la memoria di questo “Belzebù” (come lo aveva definito Bettino Craxi) che è stato tra i principali fautori di quella politica compromessa con la mafia e corrotta della Prima Repubblica?
Ma torniamo a Rita dalla Chiesa e a quanto da lei espresso sull'omicidio del padre, ucciso per fare un favore a qualcuno.
Il suo riferimento, pur senza fare il nome, è implicito: "Potrebbe essere passato il tempo per dirlo" il nome, "ma c'è una famiglia di questo politico e io evito di parlarne. Comunque, era una persona che quando mio padre è andato a Palermo gli aveva detto 'Stia attento a non mettersi contro la mia corrente perché chi lo ha fatto è sempre tornato praticamente in una bara'".
Considerazioni legittime.
E' risaputo che il Generale dalla Chiesa prima di assumere l’incarico di prefetto di Palermo, disse in faccia ad Andreotti che non avrebbe avuto riguardi “per quella parte dell'elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori".
A raccontarlo è stato il figlio, Nando dalla Chiesa, nel libro "Delitto Imperfetto". "Mio padre disse a noi dopo quel colloquio: 'Sono stato da Andreotti e quando gli ho detto tutto quello che si dice sul conto dei suoi in Sicilia è sbiancato in faccia'".
Il Generale, che aveva già combattuto contro il Terrorismo Rosso, non si sarebbe certo fermato. Avrebbe fatto il suo dovere contro Cosa nostra, indagando a fondo sui legami che l’organizzazione criminale stava portando avanti con gli altri segmenti del potere, quello dell’economia fino ad arrivare ai segmenti deviati della politica.
Carlo Alberto dalla Chiesa © Franco Zecchin
Per questo aveva chiesto i poteri speciali. Poteri mai pervenuti.
No, non c'era solo Cosa nostra a voler morto dalla Chiesa.
La prova è nelle parole del boss Giuseppe Guttadauro con Salvatore Aragona, intercettato nel 2001 dai magistrati di Palermo coordinati dal pm Nino Di Matteo (oggi sostituto procuratore nazionale antimafia e già consigliere togato del Csm): “Ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare dalla Chiesa, andiamo, parliamo chiaro”. “Ma perché noi dobbiamo sempre pagare le cose”, accennò Aragona. “E perché glielo dovevamo fare questo favore”, rispose Guttadauro. “Non l'ho capito - insistette Guttadauro - questo spingere determinate esasperazioni. Perché farci mettere nel tritacarne”.
“Salvo, noi a parole non possiamo risolvere e capire tutte cose - proseguì Guttadauro - ci sono delle cose che io non dirò mai, non mi usciranno mai”.
Guttadauro non nomina Andreotti, ma è facile pensare che si parli di alti vertici della politica. Ecco perché l'ipotesi che Andreotti possa essere stato il mandante esterno è legittimo.
Ci furono mandanti e concorrenti esterni.
Quel che è certo è che se il 3 settembre 1982 ad uccidere il Prefetto assieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro e all'agente di scorta Domenico Russo, fu la mafia, non furono uomini di mafia a sottrarre i documenti dalla cassaforte a Villa Pajno durante la notte fra il 3 e il 4 settembre 1982.
Persino il capo dei capi, Totò Riina, intercettato nell'ambito dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, disse al compagno d'ora d'aria Lorusso alcuni particolari.
“Loro - disse il boss corleonese - quando fu di questo ... di dalla Chiesa ... gliel'hanno fatta, minchia, gliel'hanno aperta, gliel'hanno aperta la cassaforte ... tutte cose gli hanno preso”. E per loro intendeva ambienti esterni a Cosa Nostra.
La storia delle mafie è collegata direttamente al Potere. E in quegli anni a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta è proprio la Dc a rappresentare quella compagine politica più affidabile.
Questa è la verità dei fatti.
Una verità dei fatti però, dobbiamo dirlo, di cui anche Rita dalla Chiesa dovrebbe tener conto sotto un altro punto di vista.
In questo gioco del mondo al contrario accade che lei è iscritta a un partito Forza Italia, che è fondato da un uomo della mafia a tutti gli effetti come Marcello Dell'Utri (condannato in via definitiva nel maggio 2014 a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa) e da uno che la mafia l'ha pagata, come Silvio Berlusconi (oggi deceduto), almeno fino al 1992.
Secondo i giudici Dell'Utri è stato il garante “decisivo” dell’accordo tra l'ex premier Silvio Berlusconi e la mafia per proteggere interessi economici e i suoi familiari.
E' scritto in quella sentenza che “la sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell’Utri a Gaetano Cinà sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”. E ancora, la Suprema corte - nelle motivazioni depositate nel luglio del 2014 - sottolineava come vi fosse un “patto di protezione andato avanti senza interruzioni” in cui Dell’Utri era il garante per “la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa, in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore”.
Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi © Imagoeconomica
E' emerso nel processo che Berlusconi si è incontrato, come riferito dal collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo (testimone oculare), con boss di primissimo piano come Stefano Bontate (lo stesso di Andreotti), Gaetano Cinà e Mimmo Teresi.
Ed è ugualmente storia che Berlusconi ha avuto ospite in casa propria, come “stalliere”, Vittorio Mangano, non semplice "picciotto", ma capomandamento di Porta Nuova.
E non si può dimenticare che l'ex Cavaliere, fino al proprio decesso, sempre assieme all'amico Marcello, era indagato a Firenze come mandante esterno delle stragi del 1993.
Che Forza Italia è il partito scelto dalla mafia immediatamente dopo le stragi è stato raccontato da decine e decine di collaboratori di giustizia.
Persino gli stessi boss non hanno fatto mistero di quella che fu la loro “scelta”.
Dunque cosa ci fa in quel partito?
Come può avere dignità e coraggio di stare in quel partito ricolmo di rappresentanti che hanno avuto a che fare con le organizzazioni criminali?
L'elenco è eccellente.
Condannato definitivo a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa è Antonino D'Alì, ex senatore ed ex sottosegretario all'Interno dal 2001 al 2006. Per i giudici è stato vicino alla mafia trapanese e a Matteo Messina Denaro.
Altro politico colpito dal reato di contiguità con la criminalità organizzata è Nicola Cosentino. Tra le altre cose è stato sottosegretario all’Economia e Finanze. In primo grado venne condannato a 9 anni per concorso esterno, divenuti poi 10 in Appello e infine confermati in Cassazione lo scorso aprile. Le sentenze lo ritengono il referente del clan dei Casalesi.
Non va poi dimenticato il ruolo avuto da Amedeo Matacena, deputato di Forza Italia dal 1994 al 2002 e condannato in via definitiva nel 2014 a tre anni di reclusione per essere stato contiguo alle ‘ndrine reggine. Matacena, morto a Dubai nel 2022, era accusato di avere richiesto l’appoggio elettorale della ‘Ndrangheta alla famiglia dei Rosmini.
Possibile che Rita dalla Chiesa, vista la propria storia personale, non si senta stretta in un partito del genere?
Ecco perché parliamo di situazione grave, drammatica ed inquietante in questo 21esimo secolo.
Ci troviamo di fronte alle mafie che non sono affatto sconfitte, che controllano ancora i territori, che guadagnano miliardi grazie al traffico di stupefacenti, che investono capitali non solo in Italia, ma anche all'estero. Che posseggono una quantità smisurata di beni mai sequestrati.
E' vero, diversi capomafia sono tutt'oggi in carcere, ma sulle stragi ed i delitti eccellenti abbiamo scoperto una grossa fetta di verità, ma non tutta.
Di fronte a questa situazione ci troviamo che alcuni dei figli (per fortuna non tutti) dei Padri della nostra Patria, sono divenuti come delle pallide statue di marmo. Nella migliore delle ipotesi impassibili di fronte all'indecenza. Nella peggiore (speriamo almeno inconsapevolmente) favoreggiatori di quello stesso sistema criminale che ha permesso, se non addirittura acconsentito o ordinato, la morte dei propri congiunti.
Un mondo al contrario dal sapore amaro.
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