L’intervista del sostituto procuratore nazionale antimafia a wordnews.it
“Le riforme Nordio, ed ancor prima la riforma Cartabia, affondano le radici in un passato ormai lontano e rispondono ad una caratteristica di fondo”. A dirlo, in un’intervista a wordnews.it, è il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo. Il magistrato, rispondendo a una domanda sulle varie riforme della giustizia approvate dal governo Meloni, e ancor prima dal governo Draghi, segnala la loro effettiva inefficacia e dannosità. “Piuttosto che occuparsi dell’annoso problema della lentezza dei processi (alla cui soluzione nessuno sembra seriamente intenzionato) si disegna uno scudo di protezione per i potenti; si indeboliscono gli strumenti investigativi per la repressione dei reati tipici dei colletti bianchi; attraverso le riforme costituzionali delle quali si discute (a partire da quella sulla separazione delle carriere di Pubblici Ministeri e Giudici) si tende pericolosamente alla limitazione della indipendenza della magistratura e si rischia di far diventare il Pubblico Ministero un ‘avvocato della Polizia’ e le Procure della Repubblica uffici collaterali e serventi del potere esecutivo”. Un panorama che Di Matteo descrive come “complessivamente preoccupante rispetto al quale tutti, per primi noi magistrati, dobbiamo sentire l’obbligo della pubblica denuncia. Non a protezione di un interesse di casta - sottolinea il magistrato palermitano - ma per la tutela effettiva dei diritti costituzionalmente garantiti a ciascun cittadino”.
Quindi il giornalista Antonino Schirillò ha chiesto a Di Matteo di illustrare la genesi del processo Trattativa Stato-mafia di cui si è occupato come sostituto procuratore di Palermo in primo grado. Prima di rispondere Di Matteo fa una premessa: “In un percorso professionale lungo più di trent’anni, ho istruito e rappresentato l’accusa in centinaia di processi di mafia, conclusi definitivamente con innumerevoli e pesanti condanne, anche all’ergastolo. Mafia “militare” e rapporti criminali di politici, pubblici amministratori ed imprenditori con Cosa nostra. Tra gli altri processi: il via d’Amelio ter, quello per la strage Chinnici, per l’omicidio del Giudice Saetta e del figlio Stefano ed ancora, l’omicidio di Pio La Torre, del giovane collaboratore dei servizi Emanuele Piazza, altri processi molto complessi per tanti fatti di sangue connessi alle ‘normali”’dinamiche criminali della mafia gelese e di quella corleonese dei Riina e dei Provenzano. Eppure, il mio nome è accostato quasi esclusivamente al processo ‘trattativa’”.
Da sinistra: i pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia © ACFB
“Forse - ha aggiunto - a qualcuno conviene così; magari fingendo di dimenticare che anche questo processo in primo grado si era concluso con il pieno accoglimento della nostra tesi di accusa e la condanna di tutti gli imputati”. Scendendo nel merito del processo, e soprattutto degli albori dell’inchiesta, Di Matteo ha ricordato che “con i colleghi, fin dall’inizio delle indagini, abbiamo respirato la diffusa omertà istituzionale ed il subdolo e sistematico tentativo di inquinare e confondere il quadro investigativo”. “Se dovevamo accertare cosa si fossero detti tre soggetti nel corso di una conversazione tra loro, ciascuno dei tre finiva per rendere dichiarazioni diverse e incompatibili con gli altri; tre testimoni, tre versioni diverse. Una vera e propria strategia di intorbidimento delle acque”.
Venendo ai contenuti dei vari pronunciamenti dei giudici sul processo Trattativa, Di Matteo ha rammentato che “in realtà, aldilà dell’esito solo parzialmente difforme, i fatti principali sono stati ricostruiti allo stesso modo dalle Corti di Assise di primo e secondo grado”. A partire dal “ricatto a suon di bombe dei vertici della mafia nei confronti di tre diversi governi della Repubblica; il ruolo svolto da alcuni uomini delle istituzioni che avevano operato fungendo da cinghia di trasmissione delle richieste di Cosa nostra allo Stato; l’avvio di una interlocuzione istituzionale con la fazione ‘moderata’ che faceva capo a Provenzano per contrastare la fazione più intransigente e violenta riconducibile a Riina e Bagarella; la mancata perquisizione del covo di Riina come segnale di distensione e affidabilità alla controparte della trattativa; la protezione della latitanza di Provenzano come frutto avvelenato di ‘un’alleanza con un nemico per sconfiggerne un altro ritenuto ancor più pericoloso’”. Ancora. Dal processo è emerso che “mentre il sangue delle vittime della strage di Capaci era ancora caldo, autorevoli esponenti delle istituzioni si rivolsero, tramite Vito Ciancimino, a Riina e Provenzano per capire cosa volessero per abbandonare la strategia stragista che avevano intrapreso”. “Per far venire meno, sono parole del Generale Mori, il ‘muro contro muro tra lo Stato e la mafia’”. Una manifestazione di disponibilità al dialogo ed alla mediazione che, ha sottolineato Di Matteo, “di fatto contribuì ad alimentare nei vertici di Cosa nostra il preciso convincimento che quella stragista fosse proprio la strategia giusta per far piegare le ginocchia allo Stato e ottenere i benefici desiderati”.
Secondo Di Matteo quelle conclusioni delle Corti di merito, consacrate complessivamente in oltre diecimila pagine di motivazione delle sentenze, costituiscono “un fardello troppo pesante e scabroso per poter essere accettato dal sistema di potere”.
© Paolo Bassani
Quindi il procuratore della Dna ha osservato come “la Cassazione, giudice di legittimità, è invece inopinatamente entrata nel merito dei fatti processuali”. “Ad esempio sostenendo (per riqualificare il delitto di minaccia a corpo politico dello Stato in semplice tentativo di minaccia) a discapito di numerose e significative prove di segno opposto, che i governi allora in carica non avevano neppure percepito la minaccia mafiosa e non avevano collegato le stragi alle richieste dei mafiosi, prima tra tutte quella dell’affievolimento del 41 bis, del carcere duro. Per arrivare a quelle conclusioni la cassazione ha dovuto perfino ignorare e disattendere la testimonianza di autorevoli esponenti istituzionali, primo tra questi il Presidente Napolitano”.
Durante l’intervista, Di Matteo ha risposto a una domanda sulle minacce di morte lanciate nei suoi confronti da Totò Riina, il Capo dei Capi. “Riina non era un capo mafia qualsiasi. Era colui il quale per decenni aveva ideato e organizzato una lunga teoria, senza precedenti, di stragi ed omicidi eccellenti, in Sicilia e fuori dalla Sicilia. Le frasi intercettate, durante l’ora d’aria al carcere di Opera con il compagno di socialità Alberto Lo Russo, non erano semplici minacce. Rappresentavano chiaramente la volontà di Riina di far pervenire all’esterno, tramite il Lo Russo, la richiesta di uccidermi. Qualche tempo dopo, il collaboratore di giustizia Vito Galatolo raccontò nei particolari la preparazione di un attentato nei miei confronti con l’utilizzo di esplosivo che era già pervenuto a Palermo; il quadro era divenuto ancora più chiaro e preoccupante”.
L’intervista si conclude con una domanda rispetto agli attacchi ricevuti dal magistrato da certi ambienti della politica e della magistratura.
“Perché avviene questo? Ho le mie idee politiche, ma non sono mai stato collaterale a nessun partito, a nessuna corrente della magistratura, a centri di potere di qualsiasi tipo, dai quali cerco di mantenermi distante. Non ho mai chiesto aiuto o protezione da nessuno”, ha risposto Di Matteo. “Quando l’ho ritenuto doveroso, ho preso posizione contro alcune riforme o progetti di riforme in tema di giustizia a prescindere dal colore politico dei proponenti. Forse anche per questo posso aver dato e continuare a dare fastidio a qualcuno”.
Foto di copertina © Imagoeconomica
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