di Giorgio Bongiovanni
In questi giorni è uscito il libro del capo redattore di questo giornale Aaron Pettinari "Il mistero sul caso Gioè", per la collana "Mafie", disponibile in edicola con la Gazzetta dello Sport ed il Corriere della Sera. Una pubblicazione in cui vengono messi in evidenza tutti quegli elementi per cui si può dire con quasi certezza che Antonino Gioè, boss di Altofonte, la notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993 non si suicidò, ma fu ucciso da qualche manina legata a funzionari di Stato.
In questi ultimi anni è emerso il dato che Gioè, uno dei responsabili della strage di Capaci, in quell'estate in cui le stragi si spostarono in Continente, era davvero ad un passo dall'iniziare una collaborazione con la giustizia.
Le carceri, ha giustamente osservato l'avvocato Fabio Repici in una recente intervista, “sono state il buco nero della nostra democrazia e in talune occasioni lo snodo di stipula di accordi indicibili”. L'esistenza del protocollo farfalla, l’accordo segreto stipulato tra i servizi segreti e l’amministrazione penitenziaria per gestire il flusso d’informazioni proveniente dai penitenziari di massima sicurezza, è stato dimostrato documentalmente e non mancano le prove su “accessi abusivi” dei servizi ben prima che l'accordo venisse messo nero su bianco nel 2004 dal capo del Sisde di allora, Mario Mori, e dal capo del Dap, Gianni Tinebra.
Non deve stupire, dunque, se in quell'estate del 1993 uomini di Stato possano essere entrati nel carcere di Rebibbia per uccidere Antonino Gioè.
Che fu ucciso è un fatto. Molti elementi erano già emersi nell'inchiesta che nel 2013 fu realizzata su Left dai giornalisti Maurizio Torrealta ed Emanuele Lentini.
Analizzando le fotografie scattate la notte del delitto è evidente che i segni della corda sul collo non vanno verso l'alto, come sarebbe lecito aspettarsi se Gioè si fosse veramente appeso alla grata, ma verso il basso. Il che fa pensare più ad una corda tirata da qualcuno.
Il ritrovamento del corpo di Nino Gioè nella sua cella di detenzione
Per non parlare delle escoriazioni sulla fronte, le ecchimosi al sopracciglio sinistro, o le costole fratturate in un punto diverso dal luogo in cui in genere si effettua il massaggio cardiaco.
Elementi che messi in fila rendono impossibile l'ipotesi che il boss di Altofonte si sia impiccato.
Ma perché, dunque, qualcuno voleva Gioè morto?
Il motivo è semplice, per i segreti di cui era depositario che avrebbero indubbiamente fatto luce sui misteri delle stragi.
Come fedelissimo del boss Giovanni Brusca era perfettamente a conoscenza della trattativa tra Stato e mafia che era in corso in quegli anni. Era stato anche uno dei protagonisti di quella interlocuzione che fu avviata con l'ex primula nera di Avanguardia Nazionale Paolo Bellini e che verrà anche definita “trattativa delle opere d'arte”.
Non solo.
E' altamente probabile che Gioè fosse a conoscenza anche di quella partecipazione di soggetti esterni a Cosa nostra nella preparazione e nell'esecuzione della strage di via d'Amelio. Sicuramente aveva saputo degli “infiltrati nella polizia” di cui Mario Santo Di Matteo parlava con la moglie Francesca Castellese in un dialogo drammatico registrato dopo il sequestro del figlio, il piccolo Giuseppe Di Matteo. E' nota l'amicizia tra Di Matteo e Gioè ed è un fatto che entrambi trascorrevano la latitanza assieme in via Ughetti, il covo dove fu registrata la conversazione su “L'Attentatuni” di Capaci.
L'arresto di Giovanni Brusca il 20 maggio 1996, oggi collaboratore di giustizia
E ancora.
Paolo Bellini, oggi sotto processo per la strage di Bologna ed indagato per le stragi del 1993, in questi anni ha deposto al processo Stato-mafia, a Caltanissetta e a Reggio Calabria parlando di una "seconda trattativa" che non si riferiva a quella delle opere d'arte, che lo vedeva direttamente coinvolto con il boss Antonino Gioè, ma ad una sorta di "triangolazione tra la mafia, gli Stati Uniti e i piani alti del governo italiano”.
"Gioè mi raccontava di Capaci - aveva detto Bellini - e ripeteva: 'Ci hanno consumati', 'Ci hanno usati'. E poi mi spiegò che Riina aveva un ulteriore canale di trattativa, con lo scopo di ottenere benefici per l’organizzazione mafiosa. Era una trattativa triangolare fra l’Italia e gli Stati Uniti d’America, nel senso che Cosa nostra aveva dei tramiti negli Stati Uniti per una trattativa da condurre in porto con ambienti italiani che Gioè non mi disse'. Svelò soltanto che i 'tramiti negli Stati Uniti' erano in contatto con alcuni 'parenti americani di Totò Riina'".
Gioè, l'unico che avrebbe potuto offrire un contributo decisivo sul punto, è morto.
L'ex boss di Altofonte era in contatto diretto con gli Stati Uniti d'America. La prova è nel suo telefonino clonato con telefonate fatte a un’utenza del Minnesota.
Con chi era in contatto il 23 maggio 1992? Chi doveva essere informato negli Stati Uniti della strage riuscita? Uomini di mafia o degli ambienti dei Servizi?
Le tracce sulla presenza di certi apparati negli ambiti delle stragi, come abbiamo scritto in più occasioni, è dimostrata da varie prove. Dai guanti di lattice, con tracce di Dna femminile a Capaci, al ritrovamento nei pressi del cratere di un bigliettino con un numero riferito ai servizi. Dalle dichiarazioni di Spatuzza sulla presenza di un uomo che “non era di Cosa nostra” durante le fasi di caricamento dell'esplosivo per la strage di Borsellino, alle testimonianze sulla presenza di donne nelle stragi di Firenze e Milano.
Paolo Bellini
E poi ancora qualche anno fa il criminologo Federico Carbone, in un'intervista a Il Giornale, aveva raccontato di aver saputo in via confidenziale da una fonte (un generale dell'esercito USA di stanza a Camp Darby, una donna vicina alla Cia) di un coinvolgimento proprio della Cia nella strage di Capaci (“In una delle nostre conversazioni mi fece capire che anche a Capaci erano coinvolti loro. Non so in quali termini precisi, ma l’ha fatto intendere. Quando parlo di loro parlo della struttura, quindi della Cia”).
Ecco la verità indicibile dietro le stragi dello Stato-mafia.
Dal caso Abu Omar, con l'operazione di extraordinary rendition, ad Ustica, è ormai provato che i nostri servizi di sicurezza sono alle dipendenze dirette di quello americano.
Gioè viene indicato da molti collaboratori di giustizia come un elemento di raccordo proprio con i servizi di sicurezza. Era a conoscenza anche di quei dettagli? Solo lui avrebbe potuto dare una risposta concreta a questi quesiti.
Ecco perché una sua eventuale collaborazione con la giustizia avrebbe potuto svelare tante verità non solo sulla mafia, ma soprattutto su quegli altissimi rapporti che Cosa nostra in quegli anni aveva o che stava coltivando. Era un pericolo ed andava eliminato.
E non stupiamoci se l'input per l'eliminazione ai nostri servizi segreti possa essere arrivato da poteri Oltreoceano.
L'immagine di copertina di Antonino Gioè è stata editata dal nostro team per mezzo dell'intelligenza artificiale sulla base dell'originale reperibile online solo in scarsa qualità.
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