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Non c’è pace per il generale e non ce ne deve essere

E' notizia di ieri che l'85enne generale dei Carabinieri Mario Mori, ex comandante del Ros ed ex direttore del Sisde, è indagato dalla Procura di Firenze nell'ambito dell'inchiesta coordinata dai procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli sui mandanti esterni delle stragi avvenute tra il 1993 ed il 1994 a Firenze, Roma e Milano, nonché il fallito attentato allo stadio Olimpico.
Il fatto contestato nel capo d’accusa dei magistrati fiorentini è semplice: Mori, “pur avendone l’obbligo giuridico, non impediva, mediante doverose segnalazioni e/o denunce all’autorità giudiziaria, ovvero con l’adozione di autonome iniziative investigative e/o preventive, gli eventi stragisti di cui aveva avuto plurime anticipazioni”.
Secondo l’accusa Mori era stato “informato, dapprima nell’agosto 1992, dal maresciallo Roberto Tempesta, del proposito di Cosa nostra, veicolatogli dalla fonte Paolo Bellini, di attentare al patrimonio storico, artistico e monumentale della Nazione e, in particolare, alla torre di Pisa” e successivamente anche dal pentito Angelo Siino (oggi deceduto, ndr) “durante il colloquio investigativo intercorso a Carinola il 25 giugno 1993, il quale gli aveva espressamente comunicato che vi sarebbero stati attentati al Nord”.
Ovviamente è partito il solito “battage” politico con i vari Gasparri, Mulé, Mantovano, Caiazza, Cantalamessa, Crosetto e persino Rita dalla Chiesa (che oggi è vicepresidente del gruppo di Forza Italia alla Camera) scesi in campo per difendere l'onorabilità di Mori.
C'è chi ha chiesto l'intervento del ministro Nordio con l'invio degli ispettori alla Procura di Firenze. Chi grida allo scandalo, al massacro, al martirio, all'accanimento giudiziario e al complotto. Chi propone onori e medaglie. E chi chiede per lui un po' di pace.
La verità, però, è che il generale Mori è tutt'altro che un martire o un corretto servitore dello Stato.
E' vero che lo stesso è stato già imputato e assolto in via definitiva (dopo una condanna a 12 anni in primo grado) nel processo sulla Trattativa Stato-mafia, in cui era accusato di violenza e minaccia a un corpo politico dello Stato per aver trasmesso (insieme agli alti ufficiali Giuseppe De Donno e Antonio Subranni) ai governi in carica la minaccia di Cosa nostra. Ed è altrettanto vero che è stato assolto con sentenza passata in giudicato anche in due processi in cui era imputato di favoreggiamento: quello sulla ritardata perquisizione del covo di Totò Riina dopo il suo arresto nel 1993 e quello sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995.
Ma a differenza di tutti coloro che preferiscono far finta di non vedere noi sappiamo, e vogliamo ricordare nuovamente ai nostri lettori, chi è stato il generale Mori nel corso della storia.
I benpensanti continuamente cercano di cancellare i fatti quando nelle stesse sentenze si parla anche di evidenti pecche operative, compiute da Mori e dai suoi uomini.
Nella sentenza sulla mancata perquisizione del covo di via Bernini, ad esempio, vengono individuate condotte “certamente idonee all'insorgere di una responsabilità disciplinare”.
E' noto che la magistratura fu convinta a non effettuare la perquisizione dicendo che si sarebbe garantita un'attività di osservazione del covo. Peccato che le telecamere furono staccate dopo appena poche ore e non furono informate le autorità competenti, sottraendosi al controllo di legalità della magistratura.
Anche nella sentenza d'appello che ha assolto "perché il fatto non costituisce reato" Mori ed il colonnello Obinu, per il mancato blitz a Mezzojuso, dove si nascondeva Bernardo Provenzano ci sono pesantissimi giudizi. In quella sentenza, divenuta definitiva, il collegio presieduto da Salvatore Di Vitale aveva scritto che "la scelta di privilegiare qualsiasi altra esigenza investigativa rispetto al pericolo che il covo fosse ripulito appare davvero non adeguata per volere usare un eufemismo".
E poi ancora che “le scelte tecnico-investigative adottate dagli imputati (soprattutto quelle di non curare adeguatamente gli spunti investigativi emersi dall'incontro di Mezzojuso), a maggior ragione ove si consideri che esse vennero adottate da esperti Ufficiali di Polizia giudiziaria, inducono più di un dubbio sulla correttezza, quantomeno dal punto di vista professionale, dell'operato dei due e lasciano diverse zone d'ombra che il dibattimento, nonostante lo sforzo profuso dalla Pubblica Accusa, non è riuscito a dipanare".
Al contempo non dimentichiamo che nel corso dei processi sono emersi diverse ombre sul passato di Mori quando si trovava in servizio al Sid (Servizio Informazioni difesa, ex Sismi, attuale Aise, ndr).
Altro che eroi. Altro che medaglie. Altro che servitori dello Stato.
E che dire della trattativa Stato-mafia?


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Tribunale di Firenze © Imagoeconomica


Nei processi, anche quelli di assoluzione, sono stati provati i contatti avvenuti dopo la strage di Capaci tra l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, e il Ros.
Una vicenda ricostruita grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca ma anche degli stessi carabinieri (il generale Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno).
Sentiti come testimoni nel processo di Firenze sostennero di avere preso quell'iniziativa per riuscire a catturare qualche latitante e per cercare di impedire altre stragi.
E cosa incredibile, ma vera, è che furono proprio Mori e De Donno a parlare di trattativa (non in maniera presunta) in quelle loro deposizioni.
Il racconto di Mori sul suo dialogo con Vito Ciancimino, riportato nella sentenza, è alquanto diretto: “Ma signor Ciancimino, ma cos'è questa storia qua? Ormai c'è muro, contro muro. Da una parte c'è Cosa Nostra, dall'altra parte c'è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente? La buttai lì convinto che lui dicesse: 'cosa vuole da me colonnello?' Invece dice: 'ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo'. E allora restammo... dissi: 'allora provi'. E finì così il secondo incontro, per sintesi ovviamente”. (…) “Lui capì a modo suo, fece finta di capire e comunque andò avanti. E restammo d'accordo che volevamo sviluppare questa trattativa”. E poi ancora in un altro passaggio" (…) “Si rividero, sempre a casa di Ciancimino, il 18-12-92. In questa occasione Ciancimino gli disse: ‘Guardi, quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l'intermediario sono io - Ciancimino - e che la trattativa si svolga all'estero. Voi che offrite in cambio?’”.
Nella Sentenza Corte d'Assise di Firenze sulle stragi '93, datata giugno 1998, anch'essa divenuta definitiva "l'iniziativa del Ros" viene valutata in questi termini: "L’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di 'trattativa', 'dialogo', ha espressamente parlato il cap. De Donno (il gen. Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo; costringere il Ciancimino a scoprirsi o per altro) di contattare i vertici di 'Cosa nostra' per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi). Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata".
Ecco la trattativa macchiata dal sangue dei martiri e degli innocenti.
Le stragi non si fermarono nel giugno 1992. Successivamente morirono Paolo Borsellino e gli agenti della scorta.
Nel maggio 1993 ci furono gli attentati  di via Fauro, a Roma, e via dei Georgofili a Firenze. Quindi in luglio quelli di via Palestro, a Milano, e alle basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano, a Roma. Morirono 15 persone, tra cui due bambine, una di 50 giorni e l'altra di nove anni, Caterina e Nadia. Vi furono decine di feriti a cui si aggiungono i danni al patrimonio artistico e alla sicurezza nazionale. Solo un puro caso non ha permesso l'esecuzione della strage progettata e poi annullata allo stadio Olimpico di Roma nel gennaio 1994.
Ecco ciò che avvenne nel corso della storia.
Così come storia sono le parole di Agnese Borsellino (verbale S.I.T del 27 gennaio 2010, Procura di Caltanissetta) quando disse: "Ricordo che mio marito mi disse testualmente che 'c'era un colloquio tra mafia e parti infedeli dello Stato'. Ciò mi disse intorno alla metà di giugno del 1992.
In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la 'mafia in diretta', parlandomi anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato italiano”. Sempre in quell'occasione la vedova Borsellino aveva raccontato che il marito le disse di aver saputo che il “generale Subranni (altro imputato assolto al processo trattativa, ndr) era 'punciuto'”. “Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito - aveva dichiarato ai magistrati che la sentivano - ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto. Mi disse, comunque, che quando glielo avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui, infatti, l’Arma dei Carabinieri era intoccabile”. Proprio quel Subranni, superiore di Mori, che depistò le indagini sull'omicidio di Peppino Impastato.
Le contestazioni della Procura di Firenze scavano su un'altra vicenda emersa nei processi, nota come la cosiddetta trattativa delle opere d'arte. Spetta alla magistratura verificare cosa avvenne.
Anziché dire menzogne o mezze verità, il generale Mori dovrebbe una volta per tutte collaborare con la giustizia. Allora sì che troverebbe la pace che cerca.

Rielaborazione grafica by Paolo Bassani

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