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Categoria: Inchieste
Editore: Aliberti editore
Anno: 2010

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Recensione

Le troppe verità ignorate introduzione di Edoardo Montolli

«Nel dicembre del 1991 Giovanni Falcone incontrò Gaspare Mutolo nel carcere di Spoleto. Si trattava di un colloquio segreto, mai registrato negli archivi della prigione, ma un colloquio fondamentale. Mutolo era stato l’attendente di Riina, killer infallibile, l’uomo che, tra i primi, si preparava a collaborare con la giustizia raccontando la Cosa nostra dei corleonesi. E soprattutto le loro collusioni con le istituzioni, la politica, la magistratura.

Nessuno, o quasi, ne seppe nulla fino a quando, dopo la strage di Capaci, analizzando le agende e i pc del giudice, l’allora commissario di polizia Gioacchino Genchi ne trovò traccia in un appunto digitale. Uno dei pochi appunti rimasti: i file del computer erano infatti stati manomessi dopo il sequestro, così come era stata cancellata una sua agenda elettronica che tanti autorevoli testimoni, prima, avevano giurato si fosse smagnetizzata in aeroporto. Scomparsa per sempre anche la memoria esterna delle agende, di cui rimase soltanto parte dei diari pubblicati nel giugno del ’92 da Liana Milella sul «Sole 24Ore».

Non si sa come e quando, ma pare che, pur non essendo nessuno, o quasi, a conoscenza dell’incontro segreto tra Falcone e Mutolo, Riina ne fosse venuto a conoscenza.

Passarono meno di due mesi. Con la morte del giudice, Mutolo non fece marcia indietro, ma chiese espressamente di parlare solo con Borsellino. Si videro tre volte, fino a due giorni prima della strage di via D’Amelio. Ciò che il pentito raccontò, sulle collusioni istituzionali, non venne verbalizzato. Ci sarebbe voluto diverso tempo. E Borsellino, che non amava particolarmente la tecnologia, segnò ogni dettaglio sopra un’Agenda Rossa. Nessuno, o quasi, seppe cosa appuntò lì dentro.

Ma di quest’agenda da cui il magistrato non si separava mai, com’è noto, non si è mai saputo nulla. Nella sua borsa ritrovata integra nonostante l’esplosione, non c’era. Le indagini non hanno portato a nulla. Anzi, secondo i giudici della sesta sezione penale della Cassazione, non è affatto detto che fosse custodita all’interno della sua borsa.

Sicché le morti di Falcone e Borsellino si portano dietro due singolari coincidenze: la scomparsa delle loro annotazioni, e l’argomento principale di quelle stesse annotazioni.

E cioè le dichiarazioni di Mutolo sulla connivenza tra istituzioni e mafia. Dichiarazioni di cui nessuno, o quasi, doveva sapere nulla. Oggi a Caltanissetta hanno riaperto le indagini sui mandanti occulti delle stragi del ’92. Si ipotizza che Borsellino sia stato ucciso perché si oppose  a una trattativa tra lo Stato e Cosa nostra per far cessare una scia di sangue mai vista prima. E un sacco di gente sembra avere ritrovato la memoria, ricordando episodi e fatti che Mutolo aveva narrato quasi vent’anni fa. Si va alla ricerca di quel “quasi nessuno” che sapeva e che di fatto fece da trait d’union tra la mafia e lo Stato, una talpa o forse un’entità in grado di interagire con entrambi gli apparati.

Di lei, della talpa, o di una di esse, ha parlato nell’ultimo anno Massimo Ciancimino, figlio di Don Vito sindaco, chiamandola “signor Franco” (o signor Carlo), un uomo appartenente ai servizi segreti sempre presente accanto a suo padre quanto l’ingegner Lo Verde, noto al resto del mondo come Bernardo Provenzano, l’imprendibile per quarantatré anni che, per contro, era libero di muoversi per la capitale, andando a casa di Ciancimino per discutere i loro affari.

Ed è come se tutto ciò costituisse un puzzle, di cui mancano i tasselli fondamentali, in grado di collegare Capaci e via D’Amelio alla trattativa, al Papello, e al tavolo al quale, per tanti, tantissimi anni, sembrano essersi seduti contemporaneamente boss e servizi segreti, deviati non si sa bene a favore di chi. Si sa però ora, ormai quasi con certezza, che i boss non avevano mentito quando non avevano riconosciuto il pentito Vincenzo Scarantino, il cui racconto aveva portato alla ricostruzione dell’attentato e del gruppo di fuoco che costò la vita a Borsellino. La tesi, dopo le dichiarazioni di un vero killer di Cosa nostra, e cioè Gaspare Spatuzza, è che qualcuno abbia imboccato Scarantino con una falsa verità, sviando così le indagini. Spatuzza era uomo dei Graviano e il suo è un racconto che porta dannatamente lontano, per quanto a nessuno è davvero chiaro perché solo diciotto anni dopo la strage di via D’Amelio abbia deciso di dire che fu lui, e non Scarantino, a rubare la 126 poi imbottita di esplosivo e usata per la strage.

E tutto sta diventando febbrile. Diversi poliziotti del gruppo Falcone-Borsellino, che coordinò l’inchiesta su via D’Amelio, sono stati inquisiti. È emerso che forse il capo di quel gruppo, l’ex questore scomparso Arnaldo La Barbera, era legato ai servizi col nome in codice “Catullo”.

Ogni dettaglio fa dunque supporre che ci vorrà ancora molto tempo per arrivare, se ci si arriverà, alla verità. E a capire, quantomeno, se la trattativa fu una sola o se ci fu qualcosa di più. Perché intanto altre cose sono successe.

Pare che la misteriosa morte dell’agente Nino Agostino, e la scomparsa nel nulla del giovane Emanuele Piazza, siano da ricondurre alla loro presenza per conto dei servizi segreti all’Addaura, quando si consumò il primo attentato fallito ai danni di Falcone. E forse non solo ai suoi danni. Un attentato del 1989 cui seguì un anno più tardi, secondo il racconto del pentito Francesco Di Carlo, un approccio nel carcere inglese in cui era detenuto, di alcuni esponenti dei servizi segreti di diversi Stati: gli avrebbero chiesto un contatto per poter organizzare l’omicidio di Falcone. E lui avrebbe detto loro di rivolgersi ad Antonino Gioè, uno dei capi allora sconosciuti di Cosa nostra, che fu effettivamente tra gli ideatori dell’attentatuni, così come lo chiamavano in gergo i mafiosi. E che, manco a farlo apposta, morì suicida in carcere, poco dopo il suo arresto. Un suicidio misterioso, con tanto di bigliettino nel quale faceva riferimento a un infiltrato dai servizi, un certo Paolo Bellini, in effetti tramite acclarato di una trattativa tra i carabinieri e Cosa nostra per il recupero di opere arte rubate.

C’è dunque un filo rosso che collega sempre, in ogni strage e delitto o suicidio, elementi di Cosa nostra ed elementi dei servizi segreti, ufficiali o ufficiosi. Un filo che si manifesta fin dal 1989 e che fa pensare che tutto sia cominciato molto prima e non certo per iniziativa dei caprai corleonesi.

In questo intricato groviglio, Francesco Viviano, da giornalista di razza qual è, ha scavato come un cane da tartufo, scoprendo elementi totalmente destabilizzanti. Dopo anni di silenzio è andato a recuperare Mutolo, diventato pittore come Luciano Liggio, in località segreta, spillandogli il racconto di quegli incontri con Falcone e Borsellino, e di ciò che accadde durante i loro colloqui. Attraverso un lungo dialogo con l’ex pm di Caltanissetta Luca Tescaroli, il primo a credere a un’unica pista che portava dall’Addaura fino a Capaci, ricostruisce la palude in cui si sono consumate via via le collusioni tra istituzioni e Cosa nostra. E infine imbecca il trait d’union, focalizzandosi su due punti cruciali: le lettere autografe di Vito Ciancimino in cui l’ex sindaco chiedeva insistentemente di essere sentito in Parlamento a proposito di ciò che era accaduto in quel periodo.

E, scelto come depositario del testamento di Massimo Ciancimino, Viviano rivela qui per la prima volta l’identità del signor Franco, alias Keller Gross, un tizio forse appartenente ai servizi segreti, ma che comunque sia appare in una lista insieme a personaggi dell’ex Alto Commissariato dell’epoca in un documento di Don Vito.

Un rompicapo cui insieme a Viviano si intrufola e scoperchia un vaso di Pandora Alessandra Ziniti, tra i giornalisti che più conoscono la realtà della Palermo grigia fin dalla metà degli anni Ottanta, autrice di miriadi di scoop sui veleni al Palazzo di giustizia di Palermo dai tempi in cui il Corvo seminava zizzania attaccando Falcone e De Gennaro. Ma è un rompicapo a cui non sta a noi dare risposta. E infatti Viviano e la Ziniti fanno domande. Una se la pongono a proposito di Riina che dice che Borsellino «l’hanno ammazzato loro», e cioè lo Stato.

L’altra la fanno suscitare da un documento straordinario sino a oggi ignorato: un appunto scritto a mano allegato agli atti sulle stragi in cui qualcuno segnava i punti da dettare a Scarantino per la verità che il “falso” pentito doveva raccontare su via D’Amelio.

Non si sa chi fosse quel qualcuno, né per conto di chi agisse. Probabilmente fa parte di quel “quasi nessuno” che sapeva e faceva da filtro, o da talpa, chiamatelo come vi pare.

L’unica cosa certa è che, dopo la pubblicazione di questi documenti, non si potrà più far finta di nulla. E qualcuno si dovrà decidere a riscrivere la storia».

Edoardo Montolli






Edoardo Montolli
‘Le troppe verità ignorate’,
tratto da I misteri dell’agenda rossa
di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti





IL LIBRO

«Secondo me, lui, il dottor Borsellino, capiva che doveva morire, era come un morto che camminava però non ha saputo… Lui pensava che con le parole poteva smuovere gli animi e i cuori delle persone, però lui secondo me doveva reagire diversamente, doveva essere cattivo, siccome lui era un uomo buono (…) e vabbè ci fanno fare quella fine che deve fare…» GASPARE MUTOLO

Con un’intervista
al giudice Luca Tescaroli sostituto procuratore a Roma, pubblico ministero nel processo per la strage di Capaci, Luca Tescaroli ha condotto le indagini sui mandanti occulti per gli eccidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e a Gaspare Mutolo, pentito, ex uomo d’onore della famiglia di Partanna Mondello che parlò a Giovanni Falcone e poì a Paolo Borsellino, testimone del 1mo luglio 1992, vicinissimo a Totò Riina. Le sue testimonianze sono considerate addirittura più importanti di quelle di Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi che spiegò Cosa nostra a Giovanni Falcone.

… E, sempre questo “signor Franco”, secondo quanto dichiarato da Massimo Ciancimino, sarebbe stato l’anello di congiunzione tra Cosa nostra e alcune istituzioni italiane, in particolare servizi segreti e alcuni politici che ancora oggi tacciono o ricordano vagamente.

Avrebbe un nome e un volto il “signor Franco”, l’uomo che secondo Massimo Ciancimino apparterrebbe ai servizi segreti e che fu l’ombra vicina a suo padre tanto quanto l’ingegner Lo Verde, alias Bernardo Provenzano, capo dei capi di Cosa nostra. L’identità, che Francesco Viviano e Alessandra Ziniti attribuiscono al personaggio più misterioso della storia della Repubblica, è solo uno dei tanti tasselli inquietanti che i due giornalisti hanno ritrovato e riportato in questo libro, portando le lancette del tempo indietro al 1992, l’anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio.

Andando a scovare documenti rimasti nei cassetti per vent’anni, ignorati o dimenticati troppo a lungo, come la lettera autografa di Don Vito Ciancimino in cui chiedeva insistentemente di essere ascoltato in Parlamento a proposito di ciò che successe in quegli anni. O come l’appunto di un anonimo funzionario di Stato in cui veniva suggerito, punto per punto, ciò che il pentito Vincenzo Scarantino avrebbe dovuto “confessare” per incastrare il gruppo di fuoco che aveva ammazzato Borsellino e la sua scorta. Confessioni ritrattate più volte e ora minate dalle dichiarazioni del boss Gaspare Spatuzza. E allora, cosa accadde davvero in quegli anni? Ci fu davvero una trattativa tra lo Stato e Cosa nostra?

Attraverso un percorso fatto di carte inedite e nuove rivelazioni, gli autori hanno incontrato in località segreta Gaspare Mutolo, le cui dichiarazioni a Falcone prima e a Borsellino poi, sulle collusioni tra istituzioni e mafia, furono per molti la causa della morte dei due magistrati.

Ne emerge un quadro fosco, fatto di connivenze e servizi segreti deviati, di accordi indicibili e prolungati negli anni, di silenzi e omertà. Un ritratto impietoso che si rispecchia nelle parole del pm della strage di Capaci Luca Tescaroli, che in una lunga intervista rilasciata a Viviano e Ziniti, spiega come e perché fu il primo a credere che per risolvere il mistero dei mandanti occulti delle stragi si dovesse e si debba cercare di risolvere il fallito attentato all’Addaura ai danni di Falcone. Un attentato del 1989 sul quale solo ora, a Caltanissetta, stanno emergendo nuove devastanti verità. Come sottolinea lo stesso giudice:

«Ci fu un’ulteriore trattativa che inizia in un momento molto particolare della stagione stragista: tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. (…) E viene invece accelerata l’esecuzione di una strage già decisa volta a colpire Borsellino. Allora il punto è: perché ci fu questa accelerazione? (…) E c’è un legame tra la nascita di questa trattativa, l’uccisione di Borsellino e in particolare questa accelerazione?»

E soprattutto, cosa c’era di tutto questo nell’Agenda Rossa di Borsellino?

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