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Marco Bettini

 

Credo che la biografia di un autore di romanzi e racconti debba riguardare essenzialmente il suo rapporto con la scrittura. Quando è iniziata la  frequentazione, in che modo si è tradotta in un’attività concreta.

Nel mio caso la passione si è instaurata lentamente. All’università, che ho frequentato a Bologna dal ‘78 all’83, non pensavo a scrivere. Mi piaceva il cinema, pensavo alla regia. Come tanti, allora, mi iscrissi al Dams.

Anche se i corsi avevano un’impostazione molto più teorica che pratica, gli studi mi permisero di incontrare il buon cinema e di familiarizzare con le strutture narrative che ne costituiscono l’ossatura.

Vedevo film continuamente, all’università, nei cineclub, nelle grandi sale e in quelle parrocchiali, frequentavo i festival, da Venezia a Salsomaggiore, da Pesaro a Porretta Terme. Vedevo di tutto, pellicole che non avrebbero mai trovato una distribuzione in sala e film di trenta o più anni prima. Allora si potevano ancora godere  sul grande schermo i film degli anni Quaranta e Cinquanta. Titoli straordinari, soprattutto americani, come <Il mistero del falco>, <La fiamma del peccato>, <Eva contro Eva>, <Il bacio della pantera>.

Ma più mangiavo cinema e più mi convincevo che non sarei mai stato in grado di dominare una macchina così complessa. Per girare un film servono molte persone, molti soldi, molte mediazioni, molta pazienza. Bisogna saper mantenere integra la propria creatività spendendo fiumi di energia in attività collaterali di coordinamento. Eppure il mondo che scorreva sullo schermo, la magia che emanava, l’impasto di finzione e realismo che lo contraddistingueva, continuava ad affascinarmi più che mai.

Non sapevo come dare uno sbocco concreto a questa passione, poiché l’idea di dirigere un set mi appariva  poco adatta al mio temperamento, quando successero due cose.

La prima: il professore di Storia del Cinema organizzò una serie di incontri tra alcuni sceneggiatori e i  laureandi della sua materia, tra i quali figuravo anch’io. Partecipai alla lezione che Suso Cecchi D’Amico tenne al Dams, dominato dal pregiudizio che questa anziana signora avesse dato molto al cinema italiano, ma che ormai fosse adatta al massimo a movimentare una riunione per il tè delle cinque. Fortunatamente la realtà a volte si incarica di smentire le convinzioni cretine.

Mi trovai davanti una donna affascinante, colta, curiosa, che riteneva il cinema, al quale doveva la sua fama, un fratello minore della letteratura. Soprattutto, trasmetteva una libertà creativa assoluta, cosa sorprendente considerato che le sue idee dovevano assoggettarsi alla volontà del regista con cui di volta in volta lavorava.

La seconda cosa che successe, invece, appartiene alla  cronaca: nel 1983 a Bologna morirono assassinate tre persone che erano legate al Dams: Angelo Fabbri, Francesca Alinovi e Leonarda Polvani. Le vittime non si conoscevano: Fabbri era uno studente, la Alinovi una docente nelle discipline artistiche, la Polvani lavorava in un’oreficeria e si era iscritta al corso di laurea  senza frequentare. Eppure tanto bastò ai quotidiani per parlare di un mostro del Dams, ardito parallelismo con il mostro di Firenze che continuava ad uccidere proprio in quegli anni.

Da gennaio, quando fu ritrovato sulle colline il corpo accoltellato di Angelo Fabbri, a dicembre, quando il cadavere di Leonarda Polvani affiorò dalla  grotta dove era stato scaricato, lessi resoconti romanzeschi su questi delitti, conditi con descrizioni fantasiose del Dams. Il succo poteva riassumersi così: in quella facoltà studenti e docenti sono  strani, e quindi non c’è da stupirsi se qualcuno di tanto in tanto li ammazza un po’.

Come tutti i miei compagni di corso, sapevo che la fama da covo di creativi psicotici, che il Dams vantava in città, era posticcia. La maggior parte degli studenti non era più deviante o dedita agli stupefacenti di quanto non fossero i loro coetanei bolognesi e gli iscritti alle altre facoltà dell’Alma Mater, da ingegneria a fisica. Però, leggendo i giornali, compresi che i cronisti sceneggiavano la realtà, senza rispettarla troppo, perché, più dei fatti, il loro vero riferimento era il pubblico. Preferivano confermare e sostenere i pregiudizi dei lettori, che raccontare la banalità della vita universitaria. Distribuivano a grandi dosi l’alibi dietro al quale in tanti amiamo nasconderci: l’orrore è diverso da me.

Che fosse una strategia commerciale o inconscia, intravidi uno spazio di creatività, nella cronaca, che poteva essere utilizzato meglio di quanto facessero i quotidiani che leggevo. Mi orientai verso il giornalismo, aiutato dal fascino che esercitava su di me la figura dell’uomo solo che arriva sul luogo di un fatto eclatante, ne coglie gli elementi essenziali e li trasmette ai suoi lettori. In quel lavoro c’era adrenalina sufficiente, pensai, da riprodurre quella del set cinematografico.

Non è forse un set il luogo dove è avvenuto un omicidio? Non bisogna ricostruire i movimenti dei protagonisti, ancorarli agli avvenimenti certi, descrivere la scenografia, indagare sulle ragioni di quanto è accaduto, cercare di dare un volto ad ogni personaggio?

Naturalmente l’impatto con il lavoro concreto, nei quotidiani locali del Trentino, dove tornai a vivere dopo essermi laureato, fu meno esaltante. Avvenimenti clamorosi ne accadevano pochi, e li coprivano cronisti più esperti di me. Tuttavia quel tirocinio conteneva elementi preziosi: primo fra tutti, la necessità di ricostruire i fatti nel modo più accurato possibile per poterli raccontare ai lettori.

Lavorai per alcuni anni nella convinzione che i costituenti del racconto cinematografico, esclusa l’immagine in movimento e l’audio, fossero interamente contenuti nella   cronaca: c’era la storia, cioè i fatti, c’era il modo di esporli, c’era il giornalista-regista come tramite, c’era il pubblico.


I più, il mestiere mi riportò a vivere a Bologna, che avevo eletto a città adottiva. Il mio apprendistato di cronista proseguì in cucina, come si chiama in gergo il lavoro che si svolge in prevalenza alla scrivania. Imparai a leggere tra le righe i pezzi degli altri, a capire il punto di vista dei cronisti da quello che NON  scrivevano in un articolo, o dai fugaci accenni ad aspetti apparentemente secondari della vicenda raccontata. Nel tempo, mi resi conto che il mio interesse si focalizzava proprio sui particolari marginali della cronaca, perché lì era contenuto un  abbozzo di interpretazione che non poteva trovare posto neppure nel resoconto più completo.

In effetti, il lavoro del cronista, per quanto affascinante, comporta una frustrazione inevitabile: costringe a costruirsi una rappresentazione della realtà nitida e cruda, che però non si può trasmettere ai lettori. Non è una questione di autocensura. Semplicemente, se un uomo ammazza la moglie e poi scappa, il mestiere obbliga a raccontare i fatti e gli elementi fondamentali ad essi collegati: le modalità dell’omicidio, il  possibile movente, la fuga. Fatti che hanno una loro inesorabile cadenza, che avvengono in successione nel tempo e assorbono il lavoro di giorni, a volte di settimane.

Ma non si può raccontare il rapporto del cronista con le fonti. Non si possono approfondire oltre un certo limite le motivazioni, nobili o abiette, dei protagonisti, siano pure assassini o investigatori. E’ difficile, in un caso di cronaca nera, descrivere l’eventuale colpa di chi ha perso la vita, a meno che non sia un noto pregiudicato. I morti, sulla stampa, sono, giustamente, innocenti per definizione. Eppure, non è sempre così.

Dai media esce una fotografia sfuocata della realtà, inevitabilmente condizionata _ e non potrebbe essere altrimenti _­ dalle regole dei media. E’ una gabbia utile, ma comporta limiti ben definiti.

Così come la sentenza di un giudice, che stabilisce una verità giudiziaria, non è necessariamente un atto di giustizia, il resoconto dei fatti non esaurisce il senso di quegli stessi fatti.

Il paradosso, solo apparente, è che per avvicinarsi di più alla verità è meglio ricorrere alla finzione. E nel mio caso, quasi naturalmente a un certo punto del percorso, questa necessità di una forma di finzione si è tradotta nella scelta della scrittura. Anche grazie all’incontro, avvenuto molti anni fa, con un romanzo straordinario di Truman Capote, che resta un modello inarrivabile: <A sangue freddo>, dove la cronaca dei fatti diventa un giallo, e poi arte e ritratto di una società intrisa di violenza che produce solo vittime.

La narrativa, per me, è la chiave che serve a restituire ai lettori una visione forse impietosa, ma spero sempre avvincente, della realtà che mi sforzo di indagare.

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PENTITO

Una storia di mafia

Anno: 2008
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