CRONACHE DALL'ULTIMA GUERRA DI COSA NOSTRA
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FUTURO ANTERIORE
Mi chiamo Genesio e ho fatto proprio di tutto poeta, spazzino, astronauta e muratore ho girato per il mondo fino all’ultimo chilometro avanti e indietro come il mercurio nel termometro
Stereotipi. Pietro Orsatti è lo stereotipo del giornalista: disordinato, grosso, vestito male, fumatore incallito, lo si trova solitamente nei bassifondi a scavare verità lampanti.
Già, perché il problema dei giorni che viviamo non è la ricerca della verità. È trovare qualcuno che con coraggio punti il dito e dica: il re è nudo. Tutti conoscono molte verità, pochi, ne scrivono. Perché? Perché conviene tacere, perché conviene digitare su una tastiera senza mai scrivere per davvero.
Stereotipi. Della Mafia si sa tutto. Non c’è più nulla da raccontare. Hanno fatto anche tanti film. Cosa altro c’è da dire? Stereotipi che si incontrano. Da una parte la Mafia, il suo momento di stanchezza nell’attenzione pubblica, dall’altra il giornalista così umano che si confonde.
Non lo avete visto in TV, forse in qualche vicolo.
Non lo avete visto fare a gomitate per essere citato in ogni dove. No, proprio no. Alla fine, quando le strade diventano incrocio: il libro che avete tra le mani. Racconto di Mafia? Solo? Non proprio. Orsatti consuma le scarpe, cammina e indaga, quel fenomeno criminale che continua ad espandersi, nel continuo silenzio dell’informazione generalista. Eppure, ci sono state bombe, giudici e poliziotti ammazzati. Arrestando gli esecutori è finito il ciclo del terrore mafioso? No. Ahimè no. Troppe domande rimangono senza una risposta convincente. Cioè che ci convincano che lo Stato non abbia avuto nulla a che fare con le morti dolorose degli ’90. Che lo Stato non abbia
nulla a che fare con il perpetuarsi della presenza mafiosa e criminale in generale. Che lo Stato butti il sangue per venire a capo di questa immane lotta che si protrae da decenni.
Risposte. Ma anche domande, lecite. Orsatti osserva, diventa siciliano, nel bene nel male. Intuisce che lo scontro è più vivo che mai, nel momento del “tutto tace”, qualcuno continua a tirare fili nascosti per occultare verità scomode. Eppure sono abusati questi termini, verità, occultamento, Stato e poteri deviati. Quando Pietro me ne parla, però, avverto la passione dell’uomo civile, del giornalista che scrive, non digita sulla tastiera. Si inquieta poco, ma quando lo fa, significa che il pericolo è vicino.
Burbero come pochi sembra uscire da una foto in bianco e nero, una di quelle foto di nera. E sappiate, voi che leggete queste righe, che Pietro Orsatti ancora oggi deve convincere i suoi superiori di giornale che sta sulla pista giusta, che sta vicino alla verità. O pensavate che gli riesce facile? Potremmo esagerare dicendo che come molti uomini delle forze dell’ordine, magistrati e onesti funzionari, il più delle volte la battaglia è con quelli che stanno dentro, piuttosto che fuori. Eh già, come al solito. Certo, poi fa piacere il pezzo scoop, mentre la pelle è a rischio.
Ma perché dobbiamo sempre lottare per dimostrare che abbiamo ragione?
Il libro che avete tra le mani è un futuro anteriore, qualcosa è successo, qualcosa deve succedere, qualcosa di importante.
L’Italia è un futuro anteriore costante. Tra memoria e rimpianto, si dimentica la fatica quotidiana della ricerca di quegli strati di dolore che compongono la società odierna. Non tutti sanno e devono scrivere, proprio no. Bisogna finirla, citando Mario Merola, con gli uomini incravattati e le donne dipinte. L’informazione è questa.
Sentite la puzza del cuoio delle fondine degli sbirri? Sentite l’odore della carta consumata, dei faldoni, delle carte processuali? Sentite il sapore della terra siciliana, arida e rigogliosa? Sentite il rispetto e l’indignazione? Queste sono le sensazioni che scaturiscono dalle pagine che avete tra le mani.
Orsatti è il Genesio della Ballata di Van Der Sfroos e del giornalismo: “Sono il Genesio e questo è tutto con qualsiasi vestito sotto, sotto… sono nudo…”. E ci racconta il futuro anteriore.
∗ Scrittore e giornalista
IN ESCLUSIVA IL CAPITOLO 1
L’INIZIO DI UN VIAGGIO
«Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla.
Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare».
Paolo Borsellino
Il volo da Roma a Palermo dura meno di un’ora, non si ha nemmeno il tempo di leggere i giornali e si è già a Punta Raisi. Aeroporto Falcone Borsellino, se fosse possibile dimenticare. Ci si impiega invece ben più tempo per arrivare in zona Cattedrale. A volte un taxi, molto più spesso il pullman. Ho sempre avuto il bisogno di infilarmi dentro un posto con lentezza, per capirlo. Meglio arrivare prima, con calma, e guardare i volti delle persone, sentirne le voci, “annusare l’aria”. I pullman sono perfetti. Come i bar e i giardini pubblici. Si è lì, un passante qualunque. E basta.
La città ti parla, le persone parlano. Tutte le persone parlano. Col tempo ho imparato anche a evitare gli alberghi.
Gli alberghi ti isolano, ti pongono fuori dal giro delle voci, degli odori, del rumore rassicurante di una città che vive.
Un B&B nuovo di zecca per i turisti tedeschi, una connessione internet volante e un blocco per gli appunti pieno di numeri di telefono. E sul piano dell’angolo cottura, del pane e dei pomodori freschi. È lì dove ho fatto base più volte. Il primo giorno non si fa nulla. Si guarda, si va a zonzo per la città, si cerca qualche contatto, si prende qualche appuntamento. Basta non farsi disorientare dalla fretta, cercare di forzare i tempi. Da quasi un anno, almeno una volta al mese (se non due o tre), rivivo gli stessi gesti, faccio lo stesso percorso, saluto le stesse facce. Roma-Palermo, e non è una vacanza. Anche se la città ti mette voglia di prendertela, una vacanza. Di passeggiare per il centro, leggero, la giacca sfilata e buttata su una spalla, il sole che arrossa il naso. Quasi un anno avanti e indietro da Roma alla Sicilia.
Una strana specie di pendolare. E pensare che questa storia è iniziata ad Acerra, a Somma Vesuviana, a Napoli.
Tutt’altro luogo, ma la stessa Italia. Non avevo proprioidea che sarei finito a re-intrecciare la mia vita, di lavoro e di relazione, proprio in Sicilia come invece è accaduto nelle settimane e nei mesi successivi alla scrittura del primo servizio. Perché, un giorno di primavera del 2008, quasi per caso ho scritto il primo servizio su Palermo e su Cosa Nostra: luogo e argomento sui quali, in tanti anni, non avevo scritto. Ma le cose sono andate così. Spesso un lavoro di inchiesta nasce da una serie di casualità e di incontri: si parte pensando di raggiungere un determinato obiettivo e, invece, dopo poco tempo ci si trova su tutt’altra pista e, in questo caso, perfino su tutt’altro territorio.
Il punto di partenza di questo lavoro è stata l’idea di un servizio da realizzare sulle elezioni dell’aprile 2008 nel Sud italiano. Durante la riunione di redazione del giovedì ho lanciato l’idea di andare a vedere che succedeva nell’interland partenopeo nei giorni della crisi “mondezza”.
Era il momento buono, e la proposta, a dire il vero un po’ inaspettatamente visto che in quel periodo mi occupavo principalmente di esteri al giornale, è stata accettata. In un giornale piccolo come left-Avvenimenti si può ancora sperimentare: le cose possono andare dritte. E così qualche giorno dopo mi sono ritrovato in Campania per raccontare cosa si stava preparando nella regione del governatore Bassolino travolto dalla crisi dei rifiuti, a pochi giorni dall’appuntamento elettorale.
Solo dopo sono volato, per la prima volta dopo anni, a Palermo a vedere cosa sarebbe accaduto durante le elezioni in una città dove una bella fetta dei voti ha un prezzo e come merce viene comprata, rivenduta, scambiata. Settimana dopo settimana, frammento dopo frammento, la scrittura ha preso forma, le storie apparentemente distanti sono diventate caselle dello stesso mosaico. E poi è arrivato l’incontro con Pino Maniaci, e l’onore della sua amicizia e lo stupore per la naturalezza con cui è iniziata la nostra collaborazione. Senza Pino questo lavoro avrebbe preso un’altra forma. È un cronista di razza, che lavora “semplice”, sulle notizie, e poi rielabora a distanza per rimettere insieme il quadro. Come direbbe Sergio Nazzaro, altro narratore di storie che usualmente nessuno racconterebbe, Pino «è un ragazzino che prende le curve in motorino senza toccare il freno». Perché consapevolmente fa nomi e cognomi, e ne paga le conseguenze. In un territorio, quello di Partinico, che è centro non solo simbolico della riorganizzazione militare di Cosa Nostra. Anche il titolo di questo lavoro è stato ispirato da Pino: “a schiena dritta” è l’appello che lancia da anni al mondo dell’informazione, della politica, dell’economia. Stare a schiena dritta è quello che fa da quando dieci anni fa ha comprato la piccola televisione comunitaria Telejato. E lui la schiena dritta la tiene, nonostante le intimidazioni, le minacce, gli attentati e le aggressioni. Al centro di questo racconto, proprio il territorio dove lavorano Maniaci e la sua famiglia. Il territorio tradizionale del potere dei Corleonesi. Luogo di Mafia che non ha deposto le armi, tutt’altro che sconfitta, tutt’altro che inabissata.
Il mondo politico, e il circo dell’informazione nazionale, hanno deciso (senza tenere conto degli allarmi della magistratura e delle forze dell’ordine) di definire Cosa Nostra “in ritiro”, con i superstiti dell’offensiva dello Stato arroccati in pochi territori, senza più guide militari carismatiche e ormai dediti quasi esclusivamente agli “affari”. Una Mafia dei “colletti bianchi” e poco altro. Come se i colletti bianchi prima non fossero mai esistiti o fossero, casomai, meno pericolosi, e come se non ci fossero già stati periodi in cui le “famiglie” avessero scelto di tenere un profilo pubblico più basso. La politica e i media hanno deciso coscientemente di non vedere i segnali che invece mostravano tutt’altro scenario, concentrandosi sulle altre mafie più “militarizzate” (e perciò più spettacolari) delle ’ndrine calabresi e della Camorra dei Casalesi.
Scrivere di tutto questo non è stato facile. Non sono siciliano, non sono un giornalista “specializzato” in criminalità e giudiziaria, non faccio parte del circuito dell’antimafia più o meno istituzionalizzata. Sono solo un cronista, sono curioso e soprattutto sono testardo. Testardo e non me ne vanto, anzi la cosa a dire il vero mi preoccupa un po’. Anche al giornale non è stato facile far passare la mia “ossessione” per le cose di Palermo e Partinico. Nonostante i successi, e le relazioni, che piano piano ero riuscito a costruire. Nonostante in molti mi dicessero di darmi più tempo, di non concentrarmi solo su quell’area, su quella storia. Ma non ci sono riuscito. Non ho voluto riuscire a distaccarmene. Perché per un insieme di istinto e “colpi di culo” mi ero ritrovato al centro di una vicenda enorme, in pieno sviluppo. Distrarmi con altro mi sembrava sbagliato e ho continuato ad andare avanti. Quando senti che sei su una storia che vale la pena seguire non è possibile mollare. Anche se le logiche redazionali te lo consiglierebbero. Anche se a volte ti ritrovi a lavorare in un territorio così delicato senza avere le spalle coperte. E allora le coperture te le inventi, le cerchi anche fuori dal tuo giornale. Mi sono trovato, per questo, a dover investire tutto il mio tempo libero su questa inchiesta, tralasciando tanti aspetti della mia vita privata e pagando prezzi, anche economici, che forse non mi potevo permettere di pagare. Ma quando hai trovato le fonti, hai appoggio sul territorio e hai la spinta ad andare avanti sarebbe un delitto mollare. E c’era anche un altro aspetto da non sottovalutare. La stampa nazionale aveva praticamente mollato, all’epoca, il filone Cosa Nostra, se non per qualche sporadica uscita, accodandosi al filone “Gomorra” che, grazie al successo editoriale del libro di Roberto Saviano, tirava molto di più dell’inflazionata Mafia siciliana. Meglio le sparatorie spettacolari dei Casalesi, che ti permettono di riempire pagine senza sforzo, che interpretare i segnali che arrivavano dal palermitano.
Segnali che, invece, raccontavano di una Mafia in ebollizione, di una rete di famiglie, gruppi e mandamenti in cerca di un nuovo ordine. E la storia racconta che il nuovo ordine, da queste parti, si ottiene quasi sempre attraversoil sangue.
Mi spiego meglio. Cosa Nostra ha avuto il tempo e le risorse per far fronte all’offensiva dello Stato che, dopo l’arresto di Bernardo “Binnu” Provenzano, forse per la prima volta nella storia di questo conflitto fra potere illegale e potere legale, non si è fermato, ha proseguito la sua azione colpendo gli emergenti e pericolosissimi Lo Piccolo.
Poi qualcosa è successo, proprio in coincidenza con l’ennesima tornata elettorale e l’ennesimo cambio di governo.
Proprio nel 2008, dopo gli ultimi blitz della “catturandi”, lo Stato ha perso terreno: tagli sul personale di pubblica sicurezza, tagli sulle risorse (perfino la benzina), concorrenza e mancanza di coordinamento fra i vari corpi civili e militari di polizia, rimessa in discussione di strumenti come il regime di 41 bis per i boss mafiosi in carcere indispensabili per spezzare comunicazioni da dentro e fuori i penitenziari e di conseguenza per interrompere le catene di comando dei clan. Tutto questo ha contribuito, e non poco, a indebolire lo Stato nell’azione di contrasto alle mafie, e in particolare questo calo di attenzione ha riguardato la Sicilia e le trasformazioni in atto negli equilibri di Cosa Nostra nelle provincie di Palermo e Trapani.
Cosa Nostra, a differenza degli altri sodalizi mafiosi, è un’organizzazione impermeabile a “ingressi” esterni, si fonda su un insieme distorto di valori (ma pur sempre codificati e condivisi) e un controllo capillare dei territori fisici, economici e politici. Con il denaro, con le intimidazioni, e solo alla fine con la violenza. Cosa Nostra è paziente, usa le armi e l’omicidio solo come estrema ratio.
L’anomalia non è che la Mafia siciliana non spari. L’anomalia è che spari. La strategia stragista di Totò Riina è stata un’anomalia nella storia della Mafia. I clan non vogliono essere visibili, la tradizione è questa. E Cosa Nostra è, dopo più di un secolo di storia certa, tradizione.