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I sei mesi che sconvolsero Napoli e l’Italia, a ridosso tra il 2004 e il 2005, sono al centro del nuovo lavoro letterario del giornalista Simone Di Meo, «Faida di camorra» (Newton Compton editore). Il libro ripercorre la guerra di Secondigliano tra il clan Di Lauro e gli «scissionisti» per il controllo del mercato della droga nella provincia partenopea e si conclude con le pesantissime condanne che sono state inflitte al vecchio gruppo dirigente della cosca di via Cupa dell’Arco, al termine del maxi-processo scaturito dalla prima inchiesta alla holding del narcotraffico.
Il testo svela, inoltre, alcuni particolari inediti sulle indagini e sugli omicidi che insanguinarono l’hinterland nord della città, sottolineando l’importanza del lavoro investigativo svolto da carabinieri e polizia, e coordinato dalla procura antimafia, in una fase di emergenza sociale che portò il capoluogo campano a conquistare le prime pagine della stampa internazionale e a costringere l’allora ministro dell’Interno, Beppe Pisanu, a mobilitare i servizi segreti per frenare l’escalation di violenza e mettere ai ceppi «Ciruzzo ’o milionario», l’inafferrabile capo-camorra capace di guadagnare, con il monopolio del traffico di stupefacenti in Campania, fino a un miliardo di lire al giorno.
«Faida di camorra» - che segue la precedente opera di Di Meo, «L’impero della camorra – Vita violenta del boss Paolo Di Lauro», dedicata agli esordi criminali del padrino di Secondigliano dal 1980 fino al 2002, anno dell’inizio della latitanza – ricostruisce, inoltre, l’appendice giudiziaria che vide coinvolti l’ex pm Giovanni Corona, il procuratore aggiunto Paolo Mancuso, l’allora senatore di Alleanza nazionale Luigi Bobbio e il costruttore melitese Stefano Marano, con riferimenti a documenti e note parlamentari, atti di indagine e risultanze investigative.
Durante la fase più cruenta della faida di Secondigliano, sono state uccise oltre cinquanta persone, molte delle quali giovanissime, affiliate a entrambi gli schieramenti in lotta. Ma ci sono state anche le vendette trasversali, che hanno colpito i genitori, gli amici, le fidanzate dei rivali. Come accaduto, ad esempio, a Gelsomina Verde, la 21enne torturata e ammazzata dai killer del clan Di Lauro perché rifiutatasi di rivelare loro il nascondiglio degli «scissionisti». Mina – com’era conosciuta nel rione – venne uccisa con un colpo di pistola alla testa e data in pasto alle fiamme, a bordo della sua Fiat Cinquecento. In quello stesso giorno, le «batterie di fuoco» della camorra avevano già mietuto tre vittime (Domenico Riccio, Salvatore Gagliardi e Francesco Tortora): fu il momento più drammatico e sconvolgente della faida, che porterà al pentimento di Pietro Esposito e alla azione di risposta dello Stato con oltre sessanta arresti e con la cattura, dopo cinque anni di latitanza, del «boss senza volto».
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