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Sono quattro, di cui tre argentini e un uruguaiano. Tra loro anche un sacerdote che continua a dare la comunione in chiesa

Accusati di aver assistito, compiuto o ordinato decine e decine di sequestri, torture e omicidi, gli uomini delle dittature civiche, militari ed ecclesiastiche sudamericane, hanno compiuto crimini contro l’umanità inenarrabili. Molte delle loro vittime sono state fatte sparire o in fosse comuni o nelle acque dei fiumi dove sono state lanciate dai famosi “vuelos de la muerte” (i voli della morte). In Sudamerica questi morti li chiamano “desaparecidos”. Solo in Argentina sono 30.400. Vittime del terrorismo di Stato che ha massacrato un’intera generazione di giovani militanti di sinistra, accademici e politici. A finire nel tritacarne di questi gerarchi sono stati anche docenti, giornalisti, imprenditori. Insomma, membri della società civile inghiottiti, con qualsiasi tipo di pretesto, nel buco fascista delle giunte militari sudamericane degli anni ’70-'80. Giunte che hanno conquistato il potere a suon di colpi grazie alla regia del cosiddetto “Plan Condor”, un progetto eversivo partorito dalla Cia per evitare che il Sud America finisse in mano a marxisti o socialisti. Con il ritorno della democrazia nei paesi del Cono Sud dell’America Latina che hanno conosciuto la dittatura, la maggioranza dei colonnelli, dei sergenti e dei soldati dei vari eserciti responsabili di crimini contro l’umanità sono stati processati e condannati. In cella sono finiti 1124 repressori argentini. Ma alcuni dei loro ex commilitoni sono riusciti a sfuggire ai tribunali nascondendosi all’estero. In Italia, approfittando delle loro origini italiane, ne sono arrivati quattro. Oggi sono settantenni o ottantenni e si godono la pensione qui, lontano dagli organi inquirenti delle patrie a cui appartengono: Argentina e Uruguay. Sono quattro: Carlos Luis Malatto, Jorge Nestor Troccoli, Daniel Oscar Cherruti e don Franco Reverberi.

Reverberi, il sacerdote che assisteva alle torture
Dei quattro, don Reverberi è l’unico a non aver vestito (almeno ufficialmente) l’uniforme dell’esercito. Ma questo, e i suoi 86 anni, non lo esentano dal rispondere delle gravissime accuse che pendono dal suo collarino di sacerdote. Reverberi, infatti, al tempo della dittatura di Videla era cappellano del centro clandestino di tortura e sterminio “Casa Departamental” di San Rafael (a sud di Mendoza), uno degli oltre 800 centri clandestini dove gli oppositori politici venivano detenuti. Chi è uscito vivo da lì, come Humberto Calivar, racconta di aver visto Reverberi assistere alle torture con in mano la Bibbia e alla cintura la pistola. “Ci picchiavano e ci torturavano a qualsiasi ora del giorno e della notte, e Franco Reverberi era sempre presente - dice Roberto Flores, un altro dei sopravvissuti -. Era un habitué delle torture, ha commesso crimini contro l’umanità”. Anche la Procura di Mendoza ritiene che don Reverberi abbia responsabilità: è stato “parte attiva dell’apparato repressivo”. Quando nel giugno 2011 la procura aveva chiesto che venisse indagato, il sacerdote si era già dileguato da un mese rifugiandosi in Italia. Se ne scappò nella Bassa emiliana, a Sorbolo, paese d’origine del nonno.
Nel 2013 i giudici argentini avevano quindi chiesto all’Italia l’estradizione con le accuse di tortura, lesioni personali e sequestro di persona, ma la Corte d’appello di Bologna aveva respinto la richiesta. Poi le indagini in Argentina sono andate avanti, sono arrivate nuove denunce a carico dell’ex cappellano con accuse sempre più gravi: crimini contro l’umanità e concorso nell’omicidio di un giovane peronista di San Rafael, José Guillermo Beròn. Secondo le autorità argentine, Reverberi, “che aveva già militato con le forze militari antisovversione, faceva parte costantemente dei gruppi di militari dediti alle torture riferite dalle vittime sopravvissute, presenziando alle stesse, anche quelle più brutali e mortali, invitando le vittime a ‘collaborare’ con le forze armate ‘per sollievo spirituale’”. In pratica, avrebbe aiutato i torturatori nelle sevizie facendo leva sulla fede cristiana.
A giugno del 2022, la Cassazione ha ordinato che la richiesta di estradizione nei confronti di don Reverberi venisse nuovamente esaminata, ma il prete si è opposto dicendo che le sue condizioni di salute non ne permettono il trasferimento in Argentina. Il 27 aprile i periti faranno sapere se ha ragione, dopodiché la Corte d’Appello di Bologna si dovrà esprimere di nuovo sull’estradizione. Intanto, però, nella chiesa di Sorbolo, tutti i pomeriggi alle 18 don Reverberi affianca nella messa il parroco del paese. Dà la comunione, sposa le coppie e battezza i neonati.

L’agente del SIDE Cherruti
Il secondo mandato d’arresto internazionale punta sempre in Emilia Romagna e sempre nella Bassa. Ed è per Daniel Oscar Cherutti, agente operativo del SIDE, la Segreteria dell’intelligence di Stato, che secondo le autorità argentine partecipò attivamente ai crimini contro l’umanità commessi dalla dittatura argentina e in particolare alla gestione dei centri di detenzione e tortura. Secondo i giudici argentini, Cherutti avrebbe gestito quelli di Bacacay e Garage Orletti a Buenos Aires. Anche lui si è nascosto in Italia. Le autorità argentine hanno spiccato il mandato di cattura e il 4 gennaio l’Interpol ha risposto dicendo di averlo trovato nel nostro Paese. Come per gli altri repressori, l’Argentina ha chiesto all’Italia l’estradizione perché altrimenti non processabili in patria in quanto in Argentina non è possibile fare processi in contumacia. Il giudice federale, Daniel Rafecas, ha fatto partire la richiesta di estradizione, che è stata presentata ai primi di marzo alla Farnesina. Cherutti è accusato di aver detenuto illegalmente 108 persone, di averne torturate 104, di essere complice primario dell’omicidio aggravato di 19 persone e di aver strappato alle loro famiglie due bambini. A incastrarlo, come in tutti processi (“causas” in spagnolo) sui desaparecidos, sono le testimonianze di ex detenuti. Elba Rama, uruguayana, reclusa a Garage Orletti nel 1976 ha raccontato quella terribile detenzione descrivendo ogni orrore che subì. “Ci ammassavano lì dentro e ci portavano al piano di sopra per interrogarci. Ti ammanettavano dietro la schiena e ti appendevano per le braccia, ti appoggiavano dei cavi addosso per darti scosse elettriche e poi ti calavano verso il pavimento, dove c’erano acqua e grani di sale per aumentare le scosse. Sono arrivata a pensare che era meglio che mi tirassero un colpo di pistola per farla finita”. E ancora. “Una delle mie compagne è stata violentata”. Anche Elba vuole sapere che fine hanno fatto i suoi compagni scomparsi, ma Cherutti si è dileguato. Spotlight lo ha scovato in Emilia, in un ristorante argentino di proprietà di parenti ma risulta non rintracciabile. Zelmar Michelini Jr, figlio del politico uruguaiano Zelmar Michelini, a Spotlight ha detto che “sarebbe molto importante che Cherruti venisse arrestato”. Zelmar Michelini, uno dei più importanti politici dell’Uruguay, nel 1974 a Roma denunciò tutte le torture compiute dagli ufficiali uruguaiani. Fu sequestrato, torturato e ucciso con un colpo di pistola in testa il 20 maggio 1976 a Buenos Aires, dove si rifugiò per scappare dalla dittatura uruguaiana. “Nel periodo immediatamente successivo all’assassinio di mio padre ho provato tristezza, non odio. Ma ho sempre voluto sapere chi fosse il suo assassino”.

L’uruguaiano Troccoli
Restando all’Uruguay, Paese in cui il numero di prigionieri politici in rapporto al numero di abitanti era il più elevato in Sudamerica, il terzo degli ufficiali impuniti che vivono in Italia è Jorge Troccoli, nato a Montevideo. Scappato da Montevideo nel 2007, per sfuggire ai processi nel suo Paese, Troccoli è stato condannato nel "processo Condor" di Roma ed ora sta scontando l’ergastolo. Attualmente, sempre a Roma, e sempre all’aula bunker di Rebibbia Troccoli è imputato in un altro processo riguardante gli anni in cui era ex ufficiale dell’intelligence del Corpo dei fucilieri navali della Marina uruguayana. Nello specifico viene giudicato per la morte di una giovane coppia di militanti, l’italiana Raffaella Filippazzi, l’argentino José Potenza e l’insegnante uruguaiana Elena Quinteros. Tutti si opponevano alla dittatura, e per questo vennero sequestrati, torturati e uccisi. Quello della Quinteros fu un caso di grande spessore mediatico al tempo. La maestra di scuola elementare era iscritta al partito marxista “Victoria del pueblo” e per questo venne arrestata e torturata dalla giunta, poi rilasciata con la condizione di condurre i militari all’arresto dei suoi compagni marxisti. Nonostante fosse sorvegliata, però, il 28 giugno 1976 la Quinteros riuscì a beffarli cercando asilo nell’ambasciata del Venezuela a Montevideo. Una volta entrata nel giardino della sede diplomatica, i funzionari tentarono di proteggerla ma i suoi aguzzini uruguaiani, tra i quali, si pensa lo stesso Troccoli, riuscirono a portarla via, violando il territorio dell’ambasciata, per rinchiuderla nuovamente in un centro di detenzione clandestino da dove non uscì più. La vicenda fece esplodere un caso diplomatico. L’ex deputato uruguayano, Luis Puig, ha raccontato a Spotlight di aver visto un documento della Presidenza della Repubblica dell’Uruguay sulla vicenda del sequestro. “Contiene la dichiarazione di un marinaio uruguaiano che afferma che Troccoli e un altro ufficiale parteciparono al sequestro di Elena Quinteros e che Elena fu portata nel quartier generale dei Fucilieri della Marina per poi essere trasferita in un altro centro clandestino, dove trascorse mesi subendo torture impensabili”. Secondo Puig, i processi sugli anni della dittatura sono urgenti e necessari: “Nessuna società sana può essere governata con la menzogna e l’impunità, la verità e la giustizia sono fondamentali per costruire la democrazia”.

Il tenente della RIM22
L’ultimo degli ex ufficiali argenti che si nasconde in Italia è il tenente colonnello Carlos Luis Malatto, ex responsabile operativo del personale di gendarmeria (S1) del RIM-22 (Reggimento di Fanteria di Montagna) di San Juan. Malatto è accusato di sequestro di persone, torture e omicidi.
Per il tribunale federale di San Juan l'ex tenente ha dato il suo contributo al golpe militare del 24 marzo 1976, "partecipando attivamente a diverse procedure di detenzione ed è uno dei più indicati dalle vittime per la partecipazione a interrogatori sotto tortura". Ciò è scritto nella sentenza del 3 settembre 2013, piena zeppa di racconti di sequestri, incappucciamenti e sevizie, dalle finte fucilazioni alle scosse sui testicoli: quella sentenza ha condannato i commilitoni di Malatto, e non ha partorito alcun provvedimento nei confronti del tenente colonnello medesimo, per il semplice fatto che lui nel frattempo era scappato in Italia e, come detto, la legge argentina non prevede processi in contumacia. Ma in quel verdetto, confermato tre anni dopo in ultimo grado di giudizio, l’ex tenente è citato 283 volte. Il 73enne viene accusato di essere responsabile di ventisei omicidi. Scappato nel 2011 dall’Argentina, è riuscito ad ottenere la cittadinanza italiana in pochi giorni. Dopo le prove raccolte dalla procura di San Juan, su di lui nel 2012 spiccò un mandato di cattura dell’Interpol conclusosi però con un nulla di fatto dopo la pronuncia della Cassazione che nel 2014 rigetto la richiesta di estradizione. Tuttavia restano pendenti altri due mandati di arresto. Uno del 2016 per diciotto omicidi e l’altro del 2019 per altri cinque omicidi. Per entrambi si attendono risposte dal governo che recentemente è stato interrogato dai deputati PD Fabio Porta e Lia Quartapelle.
I magistrati cercano di estradarlo o quantomeno processarlo in Italia. A Roma, infatti, la procura ha avviato un’inchiesta nei suoi confronti per accertare le sue responsabilità nei centri di detenzioni di San Juan tra il 1976 e il 1977. Sempre lo scorso anno, il Segretario di Stato per i diritti umani dell’Argentina, Horacio Pietragalla Corti, ha depositato ai pm capitolini nuovi documenti, una integrazione di denuncia, su 30 casi nuovi di vittime, morti tra il 1976 e il 1977 a San Juan, che si vanno ad aggiungere ad altri 8 su cui i magistrati di piazzale Clodio già indagavano. Delle 30 vittime, 7 furono uccisi e 23 rimasero “desaparecidos”. Di recente sono state inoltre depositate 10.000 pagine di documenti raccolti contro l’ex tenente. A presentarle ai pm di Roma Francesco Dall'Olio e Laura Condemi è stato il direttore nazionale Affari legali della Segreteria per i diritti umani dell'Argentina, Federico Efron. Tra queste carte si troverebbero, a detta del diplomatico argentino, prove specifiche contro l’ex tenente, anche con l'apostilla dell'Aia. Si tratta di documenti preziosissimi che questa volta potrebbero assicurare Malatto alla giustizia dell’Argentina, dove nel frattempo sui fatti terribili di San Juan, negli ultimi dieci anni sono stati celebrati cinque processi più un sesto in fase di conclusione. E in nessuno di questi Malatto, seppur citato centinaia e centinaia di volte, è stato condannato perché non processabile in quanto latitante.
Nel frattempo, il gerarca argentino, continua a vivere indisturbato nel resort privato di Portorosa, vicino Furnari (in provincia di Messina), famoso per aver ospitato la latitanza dei capi mafia Nitto Santapaola e Bernardo Provenzano. Qui l’ex tenente colonnello si gode la sua pensione, tra villini e gite in barca. La sua barca.

Elaborazione grafica by Paolo Bassani

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